una, centomila. nessuna?,
Novanta milioni di autoscatti postati ogni giorno sui social, mille selfie al secondo soltanto su Instagram. Eppure, sostiene una mostra, mai come in questa epoca che la idolatra, la faccia rischia di sparire. Un paradosso? Non proprio. Ecco perché.
Sono circa novanta milioni gli autoscatti postati ogni giorno sui social. Su Instagram, i selfie appaiono e scompaiono nel numero di mille al secondo. Su Snapchat, il settantacinque per cento delle foto pubblicate è fatto di specchi rivolti verso se stessi. «Fare e condividere immagini di sé è ormai il linguaggio e la letteratura della cosiddetta “global majority”, la nuova e giovane popolazione urbana del mondo», dice Alise Tifentale, tra gli autori della raccolta di saggi “Exploring the Selfie (Palgrave MacMillan). Eppure, ecco il paradosso, i volti rischiano di scomparire. O meglio: di somigliarsi tutti quanti. Proprio nell’epoca in cui sono più fotografati e condivisi che mai. «I selfie sono autoscatti, ma non necessariamente sono ritratti», dice a Vogue Italia Nadav Kander, tra i più importanti ritrattisti contemporanei, «sono soliloqui in cui mancano le due parti fondamentali della relazione: quella con l’artista che scatta e col terzo che vedrà».
A centocinquant’anni dall’invenzione della fotografia e dalla relativa democratizzazione del ritratto, oggi siamo talmente abituati a scegliere una posa e calcolarne la riuscita da aver tolto ogni spazio alla spontaneità, all’immediatezza di una fisionomia sorpresa e catturata in un attimo. Tanto che “In Focus: Expressions”, la mostra che il Getty Museum di Los Angeles inaugurerà il prossimo 22 maggio, sembra a tutti gli effetti segnare se non un “addio al volto” quantomeno la sua delimitazione in una riserva indiana. L’esposizione mette in scena quarantasei scatti presi dalla collezione permanente del museo: un inno ai tempi in cui il soggetto veniva sorpreso, rubato, reso evidente ma allo stesso tempo ambiguo dal buco nero dell’obiettivo che riusciva a risucchiarlo. «Uno scatto iconico come “Preacher Head in Hand Eyes Closed” di Milton Rogovin è emblematico del candore e dell’ambiguità che l’arte del ritratto ha saputo generare», spiega la curatrice Karen Hellman, «un’espressione sincera, quasi di trance, a denti esposti, che si può leggere come sorriso ma che lascia anche molto campo aperto: sta cantando? Prega? Ha un’estasi mistica?». Stesso discorso per il riso scellerato della donna ritratta da Alec Soth in “Mary, Milwaukee, WI”, così scomposta nella sua mimica da far quasi sentire i sussulti della risata: «La sua intenzione è così ingenua che si vedono chiaramente le otturazioni, che in un selfie realizzato oggi sarebbero sicuramente state cancellate», continua Hellman, che nota come «solo i meme sarcastici che proliferano su Internet, ormai, portano con sé questa franchezza naïf».
Ci troviamo tutti circondati da una pinacoteca di fissità strategiche e costantemente sotto controllo. Quello che
osserviamo è una gestione accurata dell’effetto che si vuole fare, e nessuno sembra più voler sfogliare il vocabolario di lemmi e sottolemmi che il volto umano è in grado di esprimere. «Ogni selfie non è altro che uno strumento di “impression management” dedicato a congelare l’idea che gli altri hanno di noi stessi e permetterci, nel tempo guadagnato, di capire chi siamo e come vogliamo posizionarci tatticamente nel mondo», sostiene Kathrynn Pounders, ricercatrice della Stan Richards School of Advertising and Public Relations di Austin, Texas. E del resto, non è mai stata così immensa la possibilità offerta a ciascuno di editarsi, cancellarsi, modificare, trasfigurare. «Fotografare un millennial senza coinvolgerlo nel processo creativo è impossibile», afferma Luisa Dörr, la fotografa brasiliana che per “Time” ha immortalato, con il solo smartphone, Selena Gomez, Oprah Winfrey, Melinda Gates e altre trentadue donne che stanno cambian« do il mondo . «Ti dicono che filtri usare, l’angolazione » migliore, quali parti del volto lasciare in ombra. Credo che a questo punto sarebbe importantissimo insegnare educazione all’immagine in tutte le scuole del mondo».
Uno svelamento artefatto del volto, che in realtà diventa una maschera drammaturgica. Come dimostra la classifica dei filtri maggiormente utilizzati dagli utenti di Instagram: “puppy” in primis, che regala orecchie e musetto da cucciolo, seguito da “bunny” e da “koala”, che cambiando animaletto conferiscono però il medesimo travestimento. Stessa cosa su Snapchat, dove vincono “cute pink furry ears”, “dog” e “deer face”. Utilizzati non solo dalle teenager, ma anche da signore come Madonna, Beyoncé, Kim Kardashian. Tutte strategie per imporsi e non esporsi, lanciarsi e proteggersi, generando una monocultura che sta limitando la vocalità facciale alla sua funzionalità elementare, come nei cyborg.
«Magari agli altri i miei selfie non dicono molto, ma a me dicono tantissimo», proclama per esempio Brianna Y, che si è vista selezionare un autoscatto dalla Apple per la nuova campagna iPhone X. Stessa cosa ha fatto Nyamouch G, scelta per la medesima operazione di marketing promossa dal gigante di Cupertino: «Avere il controllo della mia immagine mi fa sentire bene. La mia immagine la scelgo io». Prese di posizione che tratteggiano il nuovo statuto dell’autoesposizione: la posa, sottoposta alla rigida autocensura permessa dalle opzioni di uno smartphone, è pura conoscenza di sé. E, in caso, strumento di lotta: «Fotografandosi continuamente, spesso in modo sgraziato e con i segni dell’età sulla pelle, le teenager prendono appunti su loro stesse, e combattono contro modelli che le spaventano», spiega Petra Collins, fotografa e curatrice, attivista ed entomologa dell’espressività femminile, nonché musa e testimonial per Gucci la scorsa stagione. «Per i lavori commerciali, i clienti chiedono sempre gli stessi volti: freschi, positivi, non problematizzanti», lamenta la fotografa di moda Viviane Sassen, «e le giovani modelle sono incredibilmente allenate ad aderire subito allo stereotipo. I ragazzi degli anni Settanta e Ottanta lo erano molto meno, erano molto più ingenui: ecco perché nelle mie foto cerco di nascondere i volti e far parlare di più i corpi, ancora inesplorati».
Da tutto ciò emerge un coro eccessivamente intonato. Un unico grande volto che assomiglia sempre a se stesso. «Le foto fatte agli indigeni africani dai primi esploratori europei sono in questo senso emblematiche», spiega Teju Cole, saggista, fotografo e contributor del “New York Times”. «Quando erano gli occidentali a scattarle, le pose risultavano rigide, innaturali, vuote, contribuendo alla creazione di un immaginario esotico completamente sbagliato. Quando invece le donne posavano davanti a fotografi africani, si notava la malizia, il sogno, l’ammiccamento».
L’eccesso di intenzione, insomma, crea una monocultura espressiva foriera di gravi fraintendimenti. Ma purtroppo la strada sembra tracciata. Come dimostrano tutti i sistemi di riconoscimento facciale che si stanno diffondendo, da quelli di sblocco dei telefonini ai pagamenti cibernetici, che sembrano chiedere la fissità come garanzia insostituibile di sicurezza. Registrano dai quattordici ai trenta caratteri somatici, e nonostante i vari tentativi messi in scena per ingannarli, non sbagliano mai. Su YouTube se ne trovano diversi: trucco pesante, ciglia finte, parrucche, persino maschere da carnevale sugli occhi. Nulla. Sanno chi siamo, e ci riconoscono sempre. Il volto serio, fisso, da homo di Neanderthal, che il sistema 3D ha scansito nella sua memoria, resterà per sempre immutato. «Per secoli il volto è stato il codice d’accesso alle emozioni», dice José Ragas, storico della tecnologia e della comunicazione a Yale. «Ora serve solo ad accedere a un mondo di servizi a pagamento. Era un mistero. Adesso è una password». •
Lo dimostra la classifica dei filtri più utilizzati sui social – puppy, bunny, pink furry ears, koala – che regalano orecchie e musi da cucciolo non solo ai teenager ma anche a signore come Madonna e Beyoncé. Tutte strategie per imporsi e non esporsi, lanciarsi ma proteggersi.