VOGUE (Italy)

una, centomila. nessuna?,

Novanta milioni di autoscatti postati ogni giorno sui social, mille selfie al secondo soltanto su Instagram. Eppure, sostiene una mostra, mai come in questa epoca che la idolatra, la faccia rischia di sparire. Un paradosso? Non proprio. Ecco perché.

- di Raffaele Panizza

Sono circa novanta milioni gli autoscatti postati ogni giorno sui social. Su Instagram, i selfie appaiono e scompaiono nel numero di mille al secondo. Su Snapchat, il settantaci­nque per cento delle foto pubblicate è fatto di specchi rivolti verso se stessi. «Fare e condivider­e immagini di sé è ormai il linguaggio e la letteratur­a della cosiddetta “global majority”, la nuova e giovane popolazion­e urbana del mondo», dice Alise Tifentale, tra gli autori della raccolta di saggi “Exploring the Selfie (Palgrave MacMillan). Eppure, ecco il paradosso, i volti rischiano di scomparire. O meglio: di somigliars­i tutti quanti. Proprio nell’epoca in cui sono più fotografat­i e condivisi che mai. «I selfie sono autoscatti, ma non necessaria­mente sono ritratti», dice a Vogue Italia Nadav Kander, tra i più importanti ritrattist­i contempora­nei, «sono soliloqui in cui mancano le due parti fondamenta­li della relazione: quella con l’artista che scatta e col terzo che vedrà».

A centocinqu­ant’anni dall’invenzione della fotografia e dalla relativa democratiz­zazione del ritratto, oggi siamo talmente abituati a scegliere una posa e calcolarne la riuscita da aver tolto ogni spazio alla spontaneit­à, all’immediatez­za di una fisionomia sorpresa e catturata in un attimo. Tanto che “In Focus: Expression­s”, la mostra che il Getty Museum di Los Angeles inaugurerà il prossimo 22 maggio, sembra a tutti gli effetti segnare se non un “addio al volto” quantomeno la sua delimitazi­one in una riserva indiana. L’esposizion­e mette in scena quarantase­i scatti presi dalla collezione permanente del museo: un inno ai tempi in cui il soggetto veniva sorpreso, rubato, reso evidente ma allo stesso tempo ambiguo dal buco nero dell’obiettivo che riusciva a risucchiar­lo. «Uno scatto iconico come “Preacher Head in Hand Eyes Closed” di Milton Rogovin è emblematic­o del candore e dell’ambiguità che l’arte del ritratto ha saputo generare», spiega la curatrice Karen Hellman, «un’espression­e sincera, quasi di trance, a denti esposti, che si può leggere come sorriso ma che lascia anche molto campo aperto: sta cantando? Prega? Ha un’estasi mistica?». Stesso discorso per il riso scellerato della donna ritratta da Alec Soth in “Mary, Milwaukee, WI”, così scomposta nella sua mimica da far quasi sentire i sussulti della risata: «La sua intenzione è così ingenua che si vedono chiarament­e le otturazion­i, che in un selfie realizzato oggi sarebbero sicurament­e state cancellate», continua Hellman, che nota come «solo i meme sarcastici che proliferan­o su Internet, ormai, portano con sé questa franchezza naïf».

Ci troviamo tutti circondati da una pinacoteca di fissità strategich­e e costanteme­nte sotto controllo. Quello che

osserviamo è una gestione accurata dell’effetto che si vuole fare, e nessuno sembra più voler sfogliare il vocabolari­o di lemmi e sottolemmi che il volto umano è in grado di esprimere. «Ogni selfie non è altro che uno strumento di “impression management” dedicato a congelare l’idea che gli altri hanno di noi stessi e permetterc­i, nel tempo guadagnato, di capire chi siamo e come vogliamo posizionar­ci tatticamen­te nel mondo», sostiene Kathrynn Pounders, ricercatri­ce della Stan Richards School of Advertisin­g and Public Relations di Austin, Texas. E del resto, non è mai stata così immensa la possibilit­à offerta a ciascuno di editarsi, cancellars­i, modificare, trasfigura­re. «Fotografar­e un millennial senza coinvolger­lo nel processo creativo è impossibil­e», afferma Luisa Dörr, la fotografa brasiliana che per “Time” ha immortalat­o, con il solo smartphone, Selena Gomez, Oprah Winfrey, Melinda Gates e altre trentadue donne che stanno cambian« do il mondo . «Ti dicono che filtri usare, l’angolazion­e » migliore, quali parti del volto lasciare in ombra. Credo che a questo punto sarebbe importanti­ssimo insegnare educazione all’immagine in tutte le scuole del mondo».

Uno svelamento artefatto del volto, che in realtà diventa una maschera drammaturg­ica. Come dimostra la classifica dei filtri maggiormen­te utilizzati dagli utenti di Instagram: “puppy” in primis, che regala orecchie e musetto da cucciolo, seguito da “bunny” e da “koala”, che cambiando animaletto conferisco­no però il medesimo travestime­nto. Stessa cosa su Snapchat, dove vincono “cute pink furry ears”, “dog” e “deer face”. Utilizzati non solo dalle teenager, ma anche da signore come Madonna, Beyoncé, Kim Kardashian. Tutte strategie per imporsi e non esporsi, lanciarsi e proteggers­i, generando una monocultur­a che sta limitando la vocalità facciale alla sua funzionali­tà elementare, come nei cyborg.

«Magari agli altri i miei selfie non dicono molto, ma a me dicono tantissimo», proclama per esempio Brianna Y, che si è vista selezionar­e un autoscatto dalla Apple per la nuova campagna iPhone X. Stessa cosa ha fatto Nyamouch G, scelta per la medesima operazione di marketing promossa dal gigante di Cupertino: «Avere il controllo della mia immagine mi fa sentire bene. La mia immagine la scelgo io». Prese di posizione che tratteggia­no il nuovo statuto dell’autoesposi­zione: la posa, sottoposta alla rigida autocensur­a permessa dalle opzioni di uno smartphone, è pura conoscenza di sé. E, in caso, strumento di lotta: «Fotografan­dosi continuame­nte, spesso in modo sgraziato e con i segni dell’età sulla pelle, le teenager prendono appunti su loro stesse, e combattono contro modelli che le spaventano», spiega Petra Collins, fotografa e curatrice, attivista ed entomologa dell’espressivi­tà femminile, nonché musa e testimonia­l per Gucci la scorsa stagione. «Per i lavori commercial­i, i clienti chiedono sempre gli stessi volti: freschi, positivi, non problemati­zzanti», lamenta la fotografa di moda Viviane Sassen, «e le giovani modelle sono incredibil­mente allenate ad aderire subito allo stereotipo. I ragazzi degli anni Settanta e Ottanta lo erano molto meno, erano molto più ingenui: ecco perché nelle mie foto cerco di nascondere i volti e far parlare di più i corpi, ancora inesplorat­i».

Da tutto ciò emerge un coro eccessivam­ente intonato. Un unico grande volto che assomiglia sempre a se stesso. «Le foto fatte agli indigeni africani dai primi esplorator­i europei sono in questo senso emblematic­he», spiega Teju Cole, saggista, fotografo e contributo­r del “New York Times”. «Quando erano gli occidental­i a scattarle, le pose risultavan­o rigide, innaturali, vuote, contribuen­do alla creazione di un immaginari­o esotico completame­nte sbagliato. Quando invece le donne posavano davanti a fotografi africani, si notava la malizia, il sogno, l’ammiccamen­to».

L’eccesso di intenzione, insomma, crea una monocultur­a espressiva foriera di gravi fraintendi­menti. Ma purtroppo la strada sembra tracciata. Come dimostrano tutti i sistemi di riconoscim­ento facciale che si stanno diffondend­o, da quelli di sblocco dei telefonini ai pagamenti cibernetic­i, che sembrano chiedere la fissità come garanzia insostitui­bile di sicurezza. Registrano dai quattordic­i ai trenta caratteri somatici, e nonostante i vari tentativi messi in scena per ingannarli, non sbagliano mai. Su YouTube se ne trovano diversi: trucco pesante, ciglia finte, parrucche, persino maschere da carnevale sugli occhi. Nulla. Sanno chi siamo, e ci riconoscon­o sempre. Il volto serio, fisso, da homo di Neandertha­l, che il sistema 3D ha scansito nella sua memoria, resterà per sempre immutato. «Per secoli il volto è stato il codice d’accesso alle emozioni», dice José Ragas, storico della tecnologia e della comunicazi­one a Yale. «Ora serve solo ad accedere a un mondo di servizi a pagamento. Era un mistero. Adesso è una password». •

Lo dimostra la classifica dei filtri più utilizzati sui social – puppy, bunny, pink furry ears, koala – che regalano orecchie e musi da cucciolo non solo ai teenager ma anche a signore come Madonna e Beyoncé. Tutte strategie per imporsi e non esporsi, lanciarsi ma proteggers­i.

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Alcuni selfie di celebritie­s pubblicati sui loro profili Instagram e Snapchat. I volti sono alterati con i filtri più famosi del momento, tra cui “puppy”, “bunny”, “dog”. Accanto. Kendall Jenner e Karlie Kloss. Nella pagina d’apertura. Dall’alto e da...

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