la bellezza è pericolosa,
Fake news, fotografia di moda, nightlife. Fragilità, avvenenza, fitness. E Michael Jackson. Il tempo che viviamo secondo Wolfgang Tillmans, alla vigilia della sua nuova mostra.
«Bisogna fare molta attenzione alla parola bellezza: quando è usata in senso assoluto diventa un concetto restrittivo che esclude. La bellezza è ciò che riteniamo accettabile nella società; la ricerca sta nello spostarne i limiti. Fino a poco fa era accettabile vedere due uomini che si uccidevano, ma non che si baciavano e questo anche su un piano visivo, estetico. Cerco sempre di interrogarmi su come attribuiamo significato a ciò che ci circonda. La bellezza fa parte di questo sistema di valori». Dalla fine degli anni 80, il fotografo tedesco Wolfgang Tillmans ha contribuito a definire un concetto di bellezza alternativa, un’estetica che non può essere aprioristica né esistere senza legami con un contenuto, un’esperienza. La sua vita vissuta è entrata nei suoi scatti divenendo metro per parafrasare sentimenti universali: un’estetica del quotidiano in cui tutti potevano riconoscersi. Non è un caso che Tillmans sia il primo fotografo ad aver vinto nel 2000 il Turner Prize, indicato come uno dei più sensibili interpreti dei mutamenti socioculturali degli ultimi trent’anni. La sua ricerca così inclusiva e politica è partita dalla subcultura giovanile dei ’90 per arrivare a una grande campagna anti-Brexit nel 2016, con un linguaggio che spazia da astrazione a figurazione e una complessa ricerca sull’immagine e la sua riproduzione.
Fin dall’inizio ha esposto in gallerie e pubblicato su riviste di moda e musica. Come artista che cosa le interessava del linguaggio fashion?
Mi attraeva l’accessibilità dei giornali e sentivo che i vestiti, in quanto veicoli di messaggi sociali, offrivano uno spazio di ricerca interessante. Curavo io stesso lo styling delle foto. Come “Lutz and Alex Sitting in the Trees”: sembra un’istantanea, invece l’ho costruita io.
Quella foto è un emblema dello spirito di allora. Un ragazzo e una ragazza seminudi appollaiati su un albero con aria assorta ma presente. Cosa voleva raccontare?
Volevo ritrarre due persone a loro agio con il proprio corpo, in un luogo dove fosse possibile la relazione fisica, ma non in maniera necessariamente sessuale. Non sono rappresentati come una coppia chiaramente etero, cercavo di trasmettere la possibilità di una comunicazione più universale tra esseri umani.
È nato come il fotografo della young generation. Questa definizione ha avuto senso per lei?
Non avevo intenzione di documentare la mia generazione, né parlare di cosa significasse essere giovani, ma solo di cosa volesse dire vivere in quel momento. L’ho fatto con le persone alle quali avevo accesso: amici, compagni, chi mi era vicino. In quelle foto creavo una sorta di mondo ideale dove avrei voluto vivere. In parte lo inscenavo io stesso, in parte era vero in rari momenti vissuti soprattutto di notte: la vita notturna è stata per me una specie di utopia che diventava reale per brevi lassi di tempo.
Può spiegare meglio questo concetto?
I fenomeni di libera aggregazione mi hanno sempre affascinato. Nei ’90 c’erano i rave, serate gratuite ed estemporanee in location illegali, un modo alternativo di vivere lo spazio pubblico. La gente pensa alla vita notturna come a un’esperienza solo edonistica e culturalmente bassa, io invece le attribuisco grande valore culturale e creativo.
La sua ricerca ha sempre avuto una relazione speciale con la musica, che ha anche influito sul modo unico di mostrare il suo lavoro in grandi installazioni. Lei stesso suona e ha collaborato con diversi musicisti...
Una canzone è composta di stratificazioni, il mio modo di esporre anche. Assemblare immagini diverse per formato e dimensioni traduceva in uno spazio fisico la complessità di come guardavo il mondo; mi consentiva di entrare e uscire da vari dettagli e stabilire cosa evidenziare.
Ha dichiarato che dell’essere umano le interessa la vulnerabilità. Fragile è il nome della sua etichetta disco-
grafica e di una mostra che sta girando l’Africa. Fragilità, vulnerabilità sono temi importanti: perché?
Portare la fragilità come valore nel mondo oggi è una scelta poetica. Tutti vogliono essere belli, forti, sani. Trovo folle il generale accanimento con il fitness, mi sembra legato a una forma di individualismo: ciascuno per sé, migliore e più forte degli altri. Il nazionalismo che sta ritornando in auge dopo un tempo di cooperazione internazionale è in un certo modo connesso a questo spirito.
Con il progetto Truth Study Center, iniziato nel 2005, ha anticipato il dibattito sulle fake news. Che cosa l’ha spinta a cominciare questa ricerca?
La presa di coscienza, in questa epoca di fondamentalismi, che la gente cerca una verità assoluta alla quale appellarsi. Ho raccolto false notizie di ogni tipo dai media, dalla politica, dalla pubblicità; ho lavorato su queste frasi con la fotocopia in un graduale processo di astrazione, creando poi un allestimento su tavoli. Negli ultimi due anni ho studiato il fenomeno da un punto di vista scientifico con l’aiuto di studiosi in vari rami: l’installazione si è così arricchita di nuovi documenti. L’intero lavoro è nella mostra “What Is Different?”, a Nîmes.
Non aver fotografato Michael Jackson resta sempre un rimpianto?
Ancora oggi non c’è nessuno che abbia lo stesso fascino artificiale. Avrei voluto vederlo per come era veramente, senza nessun filtro né ritocco e restituire la mia personale visione della sua bellezza. Il mio lavoro non è mai in un’unica direzione: da una parte rende speciale l’ordinario e dall’altra normalizza lo straordinario. •