Editoriale RUMORE, di Emanuele Farneti
Coleman Silk è uno stimato professore di lettere in un college del Massachusetts. Un giorno, durante una lezione, rimprovera due studenti dando loro degli “spettri”. La parola però ha un secondo significato: in slang indica infatti – in modo gravemente dispregiativo – una persona di colore. Le accuse sollevate dall’episodio, che sulle prime sembra solo un grottesco equivoco facilmente spiegabile, spingono la vita di Silk su un piano inclinato che lo porterà rapidamente alla rovina.
A chiunque sia capitato di leggere “La macchia umana”, uno dei capitoli del grande romanzo americano di Philip Roth, non possono non suonare familiari alcune delle polemiche che a intervalli regolari deflagrano sui social network; quasi che il romanzo del gigante della letteratura americana scomparso poche settimane fa già mettesse in conto la rapidità, destinata ad aumentare esponenzialmente con i nuovi media, con cui nella nostra società un episodio può deflagrare, travolgendo carriere, reputazioni, intere vite.
Servizi fotografici (recentemente anche di questo giornale), post su Insta- gram, campagne pubblicitarie: un gigantesco tribunale virtuale è pronto a farsi giudice di cosa è accettabile e cosa no, di cosa costituisca insomma “appropriazione culturale”. Se i capelli acconciati in un certo modo sono un richiamo improprio a una certa tradizione; se una data mostra è o non è sufficientemente ecumenica. Di recente, uno stilista mi ha raccontato di aver rinunciato a scattare delle foto nella Chinatown di New York perché, se non vi avesse incluso una modella asiatica, sarebbe stato accusato, appunto, di appropriazione culturale.
Ogni opinione è legittima: la mia è che di eccessi di politically correct si finisca per soffocare. Peggio: si rischi di spalancare le porte a una reazione contraria, e inevitabilmente più forte, destinata a travolgere, i per compensandoli, i nobili obiettivi che si crede di perseguire. Finendo così per far eleggere presidenti improbabili, deviando il corso di referendum, premiando partiti che del rifiuto del politically correct fanno la propria ragione sociale.
Distinguere è faticoso, discutere richiede disponibilità ad accogliere altri punti di vista. In tempi in cui vince chi semplifica, nello spazio di un post, nel diktat dei like, non è tempo sprecato ricordare che anche i fini più nobili devono essere perseguiti attraverso mezzi appropriati; e che fare più rumore non vuol dire avere più ragione. D’altronde, rileggendo “La macchia umana”: «Niente dura, e nondimeno niente passa. E niente passa proprio perché niente dura». •