la scia della cometa, di Beatrice Zamponi
L’ossessione per Mickey Mouse e le uniformi, l’amicizia di Liz Taylor e la solitudine della celebrità... Michael Jackson avrebbe compiuto 60 anni. A Londra una mostra lo racconta nell’arte. Vogue Italia, con testimonianze inedite, nel suo impatto sulla cultura pop e sulla moda.
Nel quadro alto oltre tre metri realizzato dal pittore Kehinde Wiley, Michael Jackson veste un’intera armatura riccamente istoriata. Il cantante è a cavallo mentre la figura della vittoria alata lo incorona, come in un celebre ritratto di Filippo II di Spagna dipinto da Rubens. «L’armatura è un elemento chiave della raffigurazione», racconta Wiley. «Jackson mi aveva spiegato quanto la moda fosse per lui una forma di comunicazione e insieme una protezione, un’armatura appunto. Era un grande conoscitore d’arte, in una lunga conversazione avevamo parlato di Rubens, dei cambiamenti della sua pennellata tra il periodo giovanile e quello maturo; i suoi riferimenti erano sorprendentemente colti e raffinati». Noto per mescolare il Rinascimento con stilemi e soggetti della cultura black e rap e di recente per il suo anticonvenzionale ritratto degli Obama, Wiley è stato anche l’ultimo ad aver immortalato Michael Jackson, e proprio su commissione del grande performer.
Che una cometa pop come Jackson, probabilmente la più significativa icona di una generazione, fosse destinata a lasciare una scia sull’arte contemporanea era d’altronde da mettere in conto. Lo santifica la mostra “Michael Jackson: On the Wall” alla National Portrait Gallery di Londra (dal 28 di questo mese al 21 ottobre), che ne celebra i 60 anni dalla nascita (29 agosto) invitando 40 artisti di diverse generazioni a raccontare con le loro opere l’influenza di questo gigante sullo spirito del tempo. Per l’occasione, Vogue Italia ha raccolto una serie di ricordi e racconti di persone a lui vicine.
Come quello di Todd Gray, primo fotografo ufficiale di Jackson: «Quando era in tour, aveva un registratore accanto al letto. C’erano incise delle favole e ogni sera lo accendeva per addormentarsi. Michael era un enigma, interiormente rimase sempre ai suoi 12 anni. La prima volta che lo fotografai fu a Disneyland nel 1980, mentre registrava uno show televisivo. Durante le pause mi chiedeva di correre a farci un giro sulle giostre: urlava e rideva come un bambino. Diceva che voleva diventare famoso come Mickey Mouse. Tutte le immagini che scattavo dovevano esaltare la sua giocosità e innocenza. Solo in seguito mi diede indicazione di concentrarmi sul suo sguardo, come faceva George Hurrell quando ritraeva negli anni 30 e 40 i grandi divi di Hollywood».
Proprio l’amicizia di Jackson con una delle star più celebri del grande cinema americano è il fulcro del lavoro di Catherine Opie: «Nella serie “700 Nimes Road” ho fotografato la casa di Liz Taylor; volevo restituire un ritratto intimo dell’attrice attraverso i suoi più cari effetti personali. Molti oggetti erano legati a Jackson: foto autografate, altre in cui compaiono insieme, una sua giacca appesa nell’armadio, regali che il cantante le aveva fatto. Erano profondamente uniti, si specchiavano nella solitudine e nella celebrità che entrambi hanno vissuto fin da piccoli».
Nel documentario “Bad 25”, girato da Spike Lee e dedicato al celebre album del 1987, Seth Riggs, suo fedele vocal coach, descrive lo stesso tono della voce di Michael come una scelta dettata dal desiderio di apparire eternamente bambino: «Jackson aveva un’estensione vocale straordinaria, poteva agilmente cantare basso, baritono e tenore». Scelse sempre il tenore, delineando il suo inconfondibile timbro acuto e angelico. «Per la voce Michael era in grado di fare qualsiasi sacrificio», continua Gray. «Durante i tour estivi nel soffocante caldo del sud, spegneva l’aria condizionata e spalancava le finestre, diceva che l’umido e il calore erano un toccasana per le corde vocali. Quando passavi accanto alla sua stanza lo sentivi esercitarsi a qualsiasi ora; un’estenuante sessione di prove era appena finita e lui ancora coperto di sudore subito ricominciava con i gorgheggi. Si spingeva allo sfinimento, al di là di ogni limite, era di un rigore senza pari. Non beveva, non fumava, non assumeva nessuna droga. Aveva tolleranza zero per parolacce e imprecazioni, barzellette sessualmente esplicite o a sfondo razziale. Viveva in una sua dimensione di purezza ideale».
Anche Michael Bush, suo storico costumista, spiega come il suo rapporto con l’infanzia – che tante polemiche avrebbe poi sollevato – tornava sempre a essere motivo d’ispirazione: «Per la giacca esposta in mostra Michael mi aveva chiesto di giocare con elementi che potessero essere divertenti per i bambini. Così era nata la Dinner Jacket, un chiodo/corsetto di pelle nera interamente ricoperto di piccole posate che sembravano sonagli. La usava spesso per rompere il ghiaccio nelle conversazioni quando riceveva ospiti a Neverland, la sua tenuta. Ogni persona che lo vedeva con tutti quei pendenti luccicanti addosso esplodeva in una risata. Lui l’adorava. Era molto ironico».
Mickey Mouse è ancora figura modello nella scelta di Jackson d’indossare guanti bianchi. Ne portava uno solo, rendendolo così un’inconfondibile caratteristica del suo look. «Era completamente ricoperto di pietre luccicanti, serviva a creare un colpo d’occhio durante le performance», racconta ancora Bush. «Sul palco Michael voleva che tutta l’attenzione fosse concentrata sui suoi movimenti, indossava pantaloni neri corti alla caviglia, calze bianche ricoperte di cristalli e scarpe nere. Più le arene erano grandi, più l’orlo dei pantaloni saliva leggermente
per consentire anche a chi era molto lontano di leggere i suoi passi». Ma la sua grande passione è stata l’uniforme, rielaborata e impreziosita in ogni possibile variante. «Le giacche da scherma erano una delle infinite variazioni, nascevano per consentire estrema agilità nei movimenti, e poi naturalmente il tirare di spada era una delle attività sportive preferite dai reali».
Rushka Bergman, sua ultima creative director e personal stylist, ricorda: «Mentre lavoravamo a “This Is It”, quello che sarebbe dovuto essere il suo ultimo concerto, aveva espressamente voluto collaborare con John Galliano per ricreare una giubba indossata da Napoleone. Era ossessionato dalle giacche militari. Quando aveva quattrocento ballerini sul palco dietro di lui, l’uniforme contribuiva a dargli ancora più potere, rendendolo il sovrano indiscusso».
Danzando, sostiene in un ardito confronto l’artista tedesca Isa Genzken, Michael Jackson ricorda gli studi di Leonardo sul volo. Al centro del suo collage “Wind II” spicca infatti una foto in cui il cantante pare quasi sollevarsi dal suolo, libero dalla gravità. In un altro, Genzken rielabora uno scatto di Annie Leibovitz in cui Jackson è sulle punte nella posizione “freeze” e l’accosta a un dettaglio del “David” di Michelangelo: «Sono stati entrambi geni, figure pop, universalmente conosciuti e amati per l’assoluta trasversalità della loro arte».
In mostra non poteva mancare il ritratto in cui “The King of Pop” è immortalato dal re della pop art Andy Warhol per la copertina di “Interview” dell’ottobre 1982: un vero cortocircuito. Warhol firma anche la cover di “Time”, nel marzo 1984: è un nuovo ritratto di un raggiante Jackson all’apice del successo planetario dopo l’uscita di “Thriller”, l’album più venduto di sempre. Il video del singolo fissa anche un altro primato; cambia il modo di raccontare la musica in immagini. Per le sue canzoni Jackson realizza degli short film diretti da maestri; è Spike Lee a raccontare quanto Michael era contrariato se li si definiva banalmente video. Dopo aver visto “Un lupo mannaro americano a Londra”, per “Thriller” sceglie John Landis. Il video remake della performer Gaye Chetwynd “Michael Jackson’s Thriller - Hoxton Hall” (2002), è un anarchico omaggio a quella collaborazione. Fra gli short movie citati in mostra anche “Bad”, girato nel 1987 tra la metropolitana di Brooklyn e le strade di Harlem, con la regia di Martin Scorsese. In un’esplosione di colori e personaggi “Who’s Bad?” (1988) di Faith Ringgold rielabora le leggendarie scene di ballo che nella pellicola mischiavano aggressivi passi di strada a sofisticate coreografie alla “West Side Story”.
L’ultimo ritratto di Michael Jackson per una copertina lo scatta Bruce Weber per “L’Uomo Vogue” nel 2007. «A un certo punto», ricorda Rushka Bergman, «qualcuno degli assistenti del fotografo mise “Billie Jean”. Istantaneamente tutto il set, quasi cento persone, iniziarono a muoversi insieme a lui. Ballavano e piangevano. È stata un’emozione indescrivibile. Il talento di Michael era tangibile; lo comunicava con la sua intelligenza e la sua profonda umanità. Era il migliore in tutto, si appassionava: tessuti, materiali, pietre, stili, niente era secondario. La sua fama nasceva da straordinarie e poliedriche capacità, non solo da un’immagine, come per molte di quelle che oggi, impropriamente, chiamiamo celebrities». •
«La Dinner Jacket è coperta di piccole posate che sembravano sonagli. Chi lo vedeva così esplodeva in una risata, e lui l’adorava». Michael Bush