spostando la casa più in là, di Susie Lau
C’è una maison, Comme des Garçons, che da cinquant’anni è sinonimo di utopie e nuove frontiere. C’è un luogo, DSM, sotto al cui tetto talenti di tre generazioni convivono «in un meraviglioso caos». Dietro a entrambi c’è il pensiero laterale di Adrian
Joffe: che qui si racconta a una famosa blogger.
Per arrivare a Rei Kawakubo, bisogna prima parlare con Adrian Joffe. Nel backstage, dopo una sfilata Comme des Garçons, Kawakubo emette una succinta sentenza in giapponese e Joffe, al suo fianco, la traduce in inglese, la amplia e d’improvviso le cose diventano chiare per la folla di giornalisti, ansiosi di carpire un po’ di saggezza da una delle menti creative più eccentriche della moda. Il viaggio di Joffe in Comme des Garçons è casualmente coinciso con l’ascesa internazionale della visione antiestablishment di Kawakubo. Dagli inizi come direttore commerciale del marchio, nel 1987, fino a diventarne presidente e a sposare la stilista, Joffe ha supervisionato e architettato il successo commerciale e creativo di Comme, raro caso di un impero costruito su un marchio anticonformista.
Il momento in cui Joffe ha veramente iniziato a essere conosciuto non soltanto come portavoce di Kawakubo è probabilmente stata l’apertura di Dover Street Market, nel 2004. Ispirati dalle esperienze della stilista a Kensington Market, polo della sottocultura, Joffe e Kawakubo hanno cercato di creare uno store che sfidasse le aspettative e ridefinisse gli ideali preconcetti del lusso. DSM (Dover Street Market), che oltre all’universo Comme des Garçons ospita anche designer con una mentalità simile spaziando tra generi diversi, è diventato sinonimo di tendenze, collaborazioni inaspettate e nuove scoperte. L’originario spazio londinese in Dover Street si è trasferito in locali più grandi, e ora conta avamposti a Tokyo, New York, Pechino, Singapore; la prossima città in cui sbarcherà è Los Angeles. DSM è il luogo in cui Joffe dà libero sfogo alla sua creatività, mentre Kawakubo si concentra prevalentemente sulle collezioni Comme des Garçons. È ancora il «caos meraviglioso», come l’ha definito una volta la stilista, ma con un elemento di controllo, che permette ai marchi più disparati, da Céline a Palace e Craig Green, di convivere creativamente. Nell’invidiabile posizione che gli deriva dal vivere dentro la bolla di Comme des Garçons, e potendo contemporaneamente osservare la moda in senso lato, Joffe parla dell’attuale schizofrenia del settore con una franchezza filosofica. Ed è proprio questa visione convincente a permettere a tutte le magnifiche contraddizioni di Dover Street Market di esistere con naturalezza. «Non si devono avere per forza delle regole», dice, «ma nemmeno l’anarchia».
Quando ha avuto la “folgorazione” per la moda?
Non sono sicuro che ci sia stata. Sono entrato nella moda un po’ per caso, non ho mai sentito una vera e propria chiamata. Ancora adesso non so bene se sono al posto giusto a fare la cosa giusta.
È sorprendente considerando che è in Comme des Garçons da trent’anni, un periodo decisamente lungo per la moda. Qual è il principio che la guida nel lavoro con Rei Kawakubo e che la spinge avanti?
Un modo molto diverso di guardare le cose. Non era solo questione di affari. Era anche arte. Determinazione. Nel buddismo zen impari il pensiero laterale, a guardare le cose da angolazioni diverse. Il modo di pensare di Rei non era normale. Non era ovvio. E non lo è tuttora. È in questo che ho trovato il collegamento.
Quando si parla di Comme des Garçons si tende a idealizzarlo e a considerare utopistico il suo approccio alla moda. Si è mai chiesto perché non opera in questo senso una parte più consistente del settore?
Questo mi rende orgoglioso, naturalmente, ma non c’è alternativa perché siamo fatti così! Per noi, paradossalmente, è un vincolo. Non è che sia proprio una posizione
comoda, perché non è semplice. Ma d’altro canto la nostra identità è un pilastro e non può vacillare, saremmo persi. La cosa strana è che in realtà non vogliamo uscire dal sistema. Per esempio, non faremmo mai una sfilata al di fuori delle normali settimane della moda. Non vogliamo creare problemi. Proviamo rispetto per il settore della moda, tuttavia, entro i suoi confini, facciamo le cose a modo nostro. Non cerchiamo lo shock fine a se stesso. Parlando di cose scioccanti, nel 2004, quando avete lanciato Dover Street Market, l’idea di accogliere stilisti esterni all’universo Comme des Garçons sembrò una scelta radicale. Persino il nome lasciava sconcertati. Inizialmente cercavamo soltanto un normale negozio a Mayfair. Volevamo che fosse in centro, allora siamo andati a vedere un edificio in Dover Street ma bisognava prenderlo tutto. L’idea iniziò a evolvere e Rei pensò ai suoi ricordi di Kensington Market. Era stata una delle sue più belle esperienze a Londra.
Esiste un criterio per fare parte di Dover Street Market? Il nostro primo criterio è stato quello di condividere lo spazio con stilisti che avevano qualcosa da dire. Ci siamo chiesti: come possiamo lasciare le persone libere di fare quello che vogliono? Dovevano essere come noi, nel senso di avere una visione, ma non necessariamente la nostra. Abbiamo puntato su chi in quel momento era speciale, Hedi Slimane, Alber Elbaz per Lanvin, Azzedine Alaïa e Raf Simons, naturalmente. Siamo andati a trovarli e abbiamo chiesto loro se gli sarebbe piaciuto condividere lo spazio con noi.
Pensa a questi stilisti come colleghi puristi?
Sono compagni di cospirazione. O persone con una mentalità simile. Ma volevamo mescolare di tutto – cheap, costoso, giovane, vecchio…
All’epoca, l’avete descritto come “lusso povero”. È quello che intendete ancora o è un ossimoro eccessivo?
È povero nel senso positivo del termine – senza vincoli e senza pretese.
Vi sono molte dicotomie di questo genere nei vari store. Si va dagli abiti semplici, no-hype, ai fans inferociti in coda per le sneakers di Gosha Rubchinskiy. Come riuscite a sposare il tutto?
Non ci preoccupiamo di sposare il tutto. Ci piace l’idea
del contrasto tra cose diverse. C’è il desiderio di trovare una sinergia inaspettata. Perché non affiancare Supreme e Prada, a New York?
Avete dovuto convincere i marchi a correre dei rischi? Sì, succede sempre. Cerchiamo di far vedere che c’è un altro modo di fare le cose. Non stiamo dicendo: “È meglio di quello che fate voi”, solo diverso. All’inizio era difficile. Adesso sono più aperti.
Qual è stato il più grande cambiamento di Dover Street Market nel corso degli anni?
Fisicamente ci sono più store, è chiaro. Ma voglio pensare che abbiamo mantenuto il dna. Solo che adesso il concetto è più accettato, questo è il cambiamento più grande. All’inizio gli scettici erano moltissimi. La sfida è sconvolgere le aspettative. Vogliamo ancora stupire e stimolare. Ci piace fare ciò che ancora non si è visto, ma al tempo stesso abbiamo cose che non cambiano mai. Mi piace che lo store sia, per certi aspetti, affidabile, e che per altri invece sorprenda con le sue scoperte.
In realtà non amo la parola mentore. È una strada a due sensi. Prendiamo tanto quanto diamo. Non siamo una scuola di cui loro sono gli studenti. Vogliamo fare in modo che rimangano autonomi e liberi. Ci sono rischi per entrambe le parti. È un bene comune.
Non sono sicura che gli stilisti la pensino nello stesso modo. Per esempio, quando Molly Goddard o Simone Rocha partecipano a una sfilata Comme des Garçons – per loro è un po’ come andare in chiesa.
Ma cos’è una chiesa senza i fedeli? Siamo sul mercato da cinquant’ anni: se noi abbiamo esperienza, loro sono la novità. Una chiesa senza fedeli è un bel posto, ma vuoto e senz’anima. Lo stesso vale per i clienti dello store.
Chi ammira particolarmente nell’universo di DSM? Di sicuro, nella nostra scuderia di marchi, Simone Rocha, che abbiamo sostenuto fin dagli inizi. Ma anche Molly Goddard, Jacquemus e Gosha Rubchinskiy.
Il rapporto con Gosha è un po’ più stretto però, dato che lo aiutate nella produzione, anche se ha appena annunciato che sta ripensando il suo marchio.
È un work in progress. Ha una mente straordinaria. Vedo molte similitudini con il nostro modo di pensare. Il fatto che piaccia alla gente non significa che lui voglia andare avanti così per sempre. Vuole andarsene dalla festa quando è all’apice del divertimento. Non vuole trascinarsi… Siete immersi nella fashion industry, ma al contempo protetti dalla bolla di Comme. Che cosa ne pensa dell’idea della moda che diventa troppo di moda?
La moda è il mezzo con cui le persone si esprimono. Ci sarà sempre. Forse oggi se ne parla troppo. In particolare sui social media. Ovvio che doveva succedere: nella moda la conversazione era chiusa, le persone come lei l’hanno aperta ed è entusiasmante. Senza questo genere di movimento ci sono stagnazione e morte. Tutte queste persone che corrono rischi, all’avanguardia, stanno mettendo in luce nuove potenzialità. C’è bisogno di questo, altrimenti non c’è progresso. Che mi dice della frenesia del settore? Dover Street Market ha chiaramente sostenuto moltissime direzioni creative, ma così come sono arrivate, sono andate.
Non si può fermare la marea. È inutile provarci. La cosa migliore è mantenere la propria integrità e seguire il flusso. Naturalmente ci sono cose che non ci piacciono... Lotto costantemente con i buyer. Dicono: «Abbiamo scoperto questo nuovo marchio e il cliente lo chiede». E io devo rispondere di no. Non vogliamo per forza certi articoli solo perché si vendono. Non potremmo essere dove siamo se ascoltassimo la maggioranza. Ed ecco che si torna a quell’idea di equilibrio.
Chi è il designer di cui è particolarmente entusiasta? Sicuramente Marine Serre. È fantastica. Adoro il fatto che, quando ci siamo incontrati, non sapeva chi fossi e ha dovuto poi cercarmi su Google. È molto speciale.
La scoperta di questi talenti diventa sempre più rara? In realtà penso che sia più frequente! È un bel periodo per creare. Sempre di più, la gente vuol fare le cose a modo proprio. Prenda nomi come Molly Goddard e Craig Green. Non potrebbero mai stare in una casa di moda. Hanno idee incredibili e vi restano fedeli. Il punto non è livellarsi con il denominatore comune più basso. È uno strano obiettivo da porsi, quello di essere tutto e per tutti. Con la crescita esponenziale di DSM nell’ultimo decennio, come separa il suo ruolo di presidente di Comme des Garçons da quello che ha in Dover Street Market? Non voglio che DSM sia separato da Comme. DSM è qualcosa che può continuare. Può prosperare con la famiglia di persone che lavorano qui. E potrà cambiare quando io mi sarò fatto da parte. Come andrà avanti Comme des Garçons? Questa è una domanda più difficile… •