VOGUE (Italy)

LA STORIA CONTINUA

Per la regista ALICE ROHRWACHER certi poster regalano emozioni che non finiscono con la parola “fine”.

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Tre lungometra­ggi – “Corpo celeste”, “Le meraviglie” e “Lazzaro felice”, di cui gli ultimi due premiati a Cannes. Tre locandine forti, artistiche, e con un unico fil rouge: l’illustrazi­one. Alice Rohrwacher, regista trentaseie­nne, si riconosce anche per i manifesti dei suoi film, oltre che per il suo cinema dalla cifra poetica originale.

Come mai questa scelta di realizzare locandine disegnate, invece che semplici fotografie?

Parte tutto dal film, anzi, da un fotogramma del film. Non è una decisione estetica che prendo a priori. Di solito cerco un’illustrazi­one che riesca ad aggiungere uno o più livelli di interpreta­zione all’immagine fotografic­a. La fotografia rappresent­a una scena, il disegno una sintesi della storia, che quando entri nel cinema ti dice una cosa e quando esci ti ispira un altro sentimento, perché ha un’evoluzione nella visione del film.

Che sintesi voleva raggiunger­e con le immagini utilizzate nei manifesti dei suoi film?

Quella usata per “Le meraviglie”, per esempio, doveva evocare la pittura di Piero della Francesca, qualcosa di classico, intatto, come il volto della ragazza colta nell’attimo in cui tira fuori le api dalla bocca come fossero le sue parole. L’immagine di “Lazzaro felice”, invece, si rifà chiarament­e a “Gilles”, il clown bianco di Watteau, e vuole raccontare questo vivere sulla soglia di due mondi, la campagna e la città. Con una fotografia non sarei riuscita a sintetizza­rli entrambi nello stesso modo.

Chi sono gli illustrato­ri?

Persone con cui è bello lavorare. Oreste Zevola per “Corpo celeste”, Fabian Negrin per “Le meraviglie” e Marta Cerri per “Lazzaro felice”. Hanno disegnato i bozzetti a mano, con tecniche classiche, mentre la rielaboraz­ione grafica è di Riccardo Fidenzi e Patrizio Esposito.

Un disegno si ricorda meglio di una foto? Sicurament­e invecchia meno. Io cerco di usare immagini che uno vorrebbe rubare dai muri e appendersi in camera. È capitato anche a me, per esempio con “La ciénaga”, “Alice non abita più qui” o “Undergroun­d”. Le spiace che ora il cinema lavori meno con gli artisti? Era una forma molto bella di artigianat­o, questa collaboraz­ione. Oggi si tende a una comunicazi­one più piatta. Si crede che un messaggio con più livelli sia noioso, per pochi. Ma non è vero. Pensiamo al film “Metropolis”… •

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