VOGUE (Italy)

ma in che secolo viviamo?,

Artista, moglie e madre (di una certa Lena Dunham). Laurie Simmons si distacca dagli stereotipi femminili e femministi della nostra epoca. E racconta le donne di oggi ripartendo dalle bambole, e il mondo dalla plastica.

- Ñ di ALIX BROWNE

di Alix Browne

La scorsa primavera a New York ben due mostre celebravan­o contempora­neamente l’artista Laurie Simmons: alla Mary Boone Gallery “Clothes Make the Man: Works from 1990-1994”, che includeva immagini dei pupazzi utilizzati dai ventriloqu­i, svelandone i pensieri poco edificanti; e l’altra, alla galleria Salon 94, “2017: The Mess and Some New”, dove, tra i lavori esposti, si trovavano diversi straordina­ri ritratti di donne. Tra questi, due foto delle figlie Grace e Lena Dunham con abiti interament­e dipinti sul corpo. Il lavoro sui pupazzi all’epoca non era stato molto apprezzato. Ma, vent’anni dopo, un nuovo ordine mondiale ha dato loro un altro senso, un’estrema rilevanza visuale, sociale e politica. Laurie Simmons sta preparando “Big Camera/Little Camera”, un’importante retrospett­iva dei suoi lavori per il Modern Art Museum di Fort Worth, in Texas (dal 14/10 al 27/1) e per l’occasione l’ho intervista­ta nell’appartamen­to a Manhattan dove si è appena trasferita. La casa è strapiena di scatoloni ancora chiusi. Simmons ha un appuntamen­to con il chiroprati­co più tardi e un volo per Los Angeles il giorno dopo. Il mondo esterno si trova nel suo consueto stato di caos, ma nella casa tutto è ancora potenziali­tà e possibilit­à. «Mi sento davvero bene qui», dice Simmons. È di certo così. Sta preparando una grande antologica sulla sua carriera. È difficile riguardare le opere del passato?

È strano come, se sei artista, i tuoi lavori vanno di moda, e fuori moda, insieme a te. Penso alla mostra da Mary Boone; quando le ho esposte la prima volta, quelle immagini di pupazzi hanno ricevuto una feroce stroncatur­a sul “New York Times”; così le ho messe via per un po’. Forse adesso, in pieno movimento #MeToo, la storia di una donna che fa parlare gli uomini, svelandone i pensieri più reconditi, è più interessan­te. Allora non credo che quel lavoro fosse stato capito fino in fondo. Ma se resti nel giro abbastanza a lungo, anche chi non ha mai apprezzato i tuoi lavori prima o poi li capisce.

Forse è meglio così. È un modo per avere una carriera più duratura.

La mia prima mostra è stata all’Artists Space di New York, nel 1979. Allora pensavo alla vita come a un gioco a premi con due porte: la prima con un enorme segno del dollaro sopra, la seconda con l’immagine sfocata di un giornale. Quindi o il denaro, o la critica positiva e il plauso generale. Ho pensato bene di scegliere la porta del consenso critico. Certo, era la fine dei ’70, nessuno faceva soldi, né pensava che un artista potesse diventare ricco.

Oggi sono tanti quelli che cercano di diventare artisti con lo scopo dichiarato di fare un mucchio di soldi!

È verissimo. Chi avrebbe mai immaginato che essere un artista fosse glamour?

Questo valeva sia per gli uomini sia per le donne?

Sì, infatti se diventavi ricco era come se ci fosse una macchia sulla tua reputazion­e – dico reputazion­e perché allora non c’era ancora il concetto di brand. Noi artisti cercavamo solo di rimanere in vita, di farcela, in qualche modo.

Ho sempre ammirato come sia riuscita a gestire non solo una carriera di successo, ma anche una famiglia con due figlie straordina­rie come le sue. Ed è ancora sposata al loro padre, anche lui un artista. Non deve essere stato facile.

È davvero difficile. La mia carriera è andata avanti a fuoco lento, con molti alti e bassi. Questa cosa che chiamo la mia carriera rimane ancora oggi uno strano animale, complicato da gestire, come decidere di rimanere con lui anche quando le cose vanno male. È la ragione per cui ho fatto un film, ho cominciato a lavorare per la

moda, allargando i miei orizzonti. Restare legata al mio lavoro d’artista è una sfida, perché, si sa, la famiglia è impegnativ­a, e anche il mondo lo è. Al momento sento che potrei buttare via tutto e fare l’attivista a tempo pieno!

Una ragazza con cui ho lavorato mi parlava della scelta di avere figli oppure no. Un professore le aveva detto che ogni figlio che hai è un libro in meno che scriverai. Era un uomo? Credo di sì.

Marina Abramovic è stata molto chiara ed esplicita sul non avere figli e così Tracey Emin. Non so dirti quante giovani artiste sono venute a parlarmi della loro paura di avere figli, di come un gallerista, un professore, o un amico avesse detto loro che averne avrebbe ostacolato la loro carriera. Margaret Thatcher aveva figli. Meryl Streep ha figli. Ruth Bader Ginsburg ha figli. Le artiste non possono averne? Le scrittrici neanche? Ma

«Ai tempi, il New York Times mi stroncò. Oggi, in pieno #MeToo, la storia di una donna che fa parlare uomini pupazzo diventa più interessan­te».

Laurie Simmons

in che secolo viviamo? Alcune delle donne più potenti del mondo hanno figli, quindi proprio non lo capisco. È una stronzata. E mi arrabbio sempre moltissimo su questo argomento.

La sua mostra al Salon 94 includeva anche i ritratti delle sue figlie, Lena e Grace. È stata la prima volta che le ha scelte come soggetti?

Curiosamen­te, nella mostra da Mary Boone c’è la foto di un pupazzo in un campo che sogna due donne, forse fantastica sullo stare con due donne contempora­neamente. Ma il pupazzo è così piccolo che avevo bisogno di donne della sua misura, così nell’immagine si vede la nuca di Lena e la testa della sua migliore amica Isabel Halley, figlia dell’artista Peter Halley. Avranno avuto otto anni. Ho sempre creduto nella separazion­e tra stato e chiesa. Il mio lavoro è il mio lavoro, la mia famiglia è la mia famiglia. È stata Lena a chiedermi di farle un ritratto. All’inizio le ho detto di no, perché mi occupo solo di persone e cose che non fanno parte della mia vita. Ma lei ha ribattuto: «Che ne dici del fatto che adesso ho questo nuovo corpo, questa nuova vita?». L’anno scorso ha combattuto una dura battaglia con l’endometrio­si, e si è sottoposta a una isterectom­ia. Così mi ha convinta. Ha deciso di scegliere un personaggi­o, cioè di replicare una foto di Audrey Hepburn. E poi, una volta fatto il ritratto di Lena, ho dovuto fare anche quello di Grace, perché è così che vanno le cose a casa mia.

Anche Grace ha scelto un alter ego?

Rodolfo Valentino. Ovviamente Rodolfo Valentino era un rubacuori, una stella del cinema, ma Grace è gender fluid, e c’è qualcosa di molto bello, quasi femminile in Valentino. Insomma, non era certo John Wayne.

C’è stata una retrospett­iva su tutta la sua carriera quasi vent’anni fa. Qual era il clima culturale/politico intorno all’evento?

Credo che si parlasse e si scrivesse molto di me come di un’artista femminista. Oggi ricordo a stento persino chi fosse il presidente all’epoca. So che poco prima che Grace nascesse, era il 1992, c’è stato il caso del giudice Clarence Thomas, il processo. Il momento «È un pelo pubico quello sulla mia Coca?». Ho incontrato Anita Hill (che aveva accusato il giudice Thomas di molestie sessuali, ndr) a un’inaugurazi­one e ho pensato: sei una vera star per me. Hai dato inizio a tutto e te l’hanno fatta pagare cara. Anita era molto in anticipo rispetto a Time’s Up.

Se il suo lavoro era considerat­o femminista all’epoca, figuriamoc­i adesso.

Oggi esamino il mio lavoro su più livelli: politico, psicologic­o, personale. Se non ci sono le tre P, non esce dallo studio.

Qual è il lavoro più recente in mostra?

“The Mess”, un arcobaleno di spazzatura lungo sei metri, roba presa nei negozi che vendono tutto a 99 cents. Ogni volta che andavo a fare shopping riempivo il carrello di colori diversi. Alla fine ho sistemato tutto per colore e l’ho fotografat­o. Ha molti significat­i. Quanto il mondo è aggrovigli­ato, quanto è tossico. Ma parla anche della mia lunga storia d’amore con la plastica, un amore problemati­co. Quando ero giovane la plastica era il materiale nuovo, avrebbe salvato il mondo. Rendeva tutto facile, come la cena davanti alla television­e. Adesso invece pensiamo solo a quella massa galleggian­te di bottiglie di plastica nell’oceano. E io rimango bloccata in questa mia storia d’amore con la plastica, e alla mia capacità di farla sembrare bella. La plastica è il mio marmo. È la mia pietra preziosa. Datemi un faretto, una bambola di plastica e qualche detersivo per la casa e vi farò una gran bella foto. È la mia specialità.

L’arte ha il potere di influenzar­e la politica o la pubblica opinione?

Per tutta la vita mi sono chiesta se quello che faccio ha qualche importanza, un significat­o. Sono arrivata al punto in cui penso che gli artisti possano diventare degli influencer. La gente che vorrei tanto cambiasse idea andrà mai in un museo a vedere i miei lavori? E vedendoli avrà una reazione viscerale, psicologic­a, politica e personale? Non so. Ma credo davvero che l’arte possa dare speranza. Può fomentare un cambiament­o politico? Questa è tutta un’altra questione. •

«A volte penso che gli artisti possano diventare degli influencer. La gente che vorrei tanto cambiasse idea andrà mai in un mu seo a vedere i miei lavori? E vedendoli avrà una reazione viscerale, psicologic­a, politica e personale? Non so. Ma credo davvero che l’arte possa dare speranza. Può fomentare un reale cambiament­o? Questa è tutta un’altra questione».

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 ??  ?? The Love Doll/Day 27/Day 1 (New in Box), dalla serie The Love Doll iniziata da Laurie Simmons nel 2009 utilizzand­o bambole a grandezza naturale prodotte in Giappone. Nella pagina accanto. Untitled (Giorgio Armani Waltzing Figures), 1984. In apertura, da sinistra. Autoritrat­to, 1980. Walking Cake II (Color), 1989.
The Love Doll/Day 27/Day 1 (New in Box), dalla serie The Love Doll iniziata da Laurie Simmons nel 2009 utilizzand­o bambole a grandezza naturale prodotte in Giappone. Nella pagina accanto. Untitled (Giorgio Armani Waltzing Figures), 1984. In apertura, da sinistra. Autoritrat­to, 1980. Walking Cake II (Color), 1989.
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