i sogni che appendiamo ai muri,
Colorati e appariscenti, i manifesti realizzati dai pittori di cinema italiani anticipavano in strada il piacere dei film. Ora un volume racconta come hanno cambiato il nostro immaginario: da Fellini a Stallone, dalla Vitti e Antonioni fino al MoMa di New
di Federico Chiara
In un’epoca non troppo lontana, i film si vedevano sulla carta, prima ancora che nelle sale cinematografiche. Bastava un manifesto affisso al muro. A realizzarlo era chiamato un “cartellonista”, ovvero un artista specializzato in locandine: stava a lui riassumere l’atmosfera dell’intera pellicola in una sola immagine. Potentissima. Ora mettiamone insieme circa cinquecento e capiremo il magnetismo di un volume come “Pittori di cinema” (Lazy Dog). Il libro, che esce questo mese, riunisce i manifesti ma anche gli sketch, i bozzetti e i lavori inediti di 29 cartellonisti italiani collezionati in primis dall’autore, Maurizio Baroni, che ha raccolto oltre 25mila pezzi e li ha donati alla Cineteca di Bologna. «Ho iniziato a undici anni a staccare dai muri i poster dei film che avevo amato», racconta l’esperto di cinema. «Quando mio padre scoprì questa attività illecita, in una notte bruciò tutti i miei tesori. Ma non riuscì a fermare la mia passione: cominciai ad acquistarli. In seguito ho catalogato tutti i film usciti in Italia dal Dopoguerra a oggi, riservando particolare attenzione ai nomi dei pittori che ne avevano creato i poster. In questo libro ho scelto le immagini che li hanno resi grandi». Altrettanto grande è l’epoca finita negli anni Novanta, in cui i pittori italiani lavoravano per il cinema, anche internazionale. «Ho avuto la fortuna di incontrare molti di loro», continua Baroni. «Sandro Symeoni è stato, a mio parere, il più originale durante gli anni Sessanta/Settanta – suoi, per esempio, i poster de “I racconti di Canterbury” o “Profondo rosso”. Il più sperimentale, Renato Casaro, ha introdotto l’uso dell’aerografo e Arnold Schwarzenegger e Sylvester Stallone lo hanno scelto quale pittore ufficiale dei loro manifesti per tutto il mondo. Ammiro molto le tecniche di Silvano Campeggi, dominate dall’uso del colore rosso come si vede nel poster di “Via col vento”. E poi, ovviamente, c’è il grande Giuliano Nistri». Uno dei pochi cartellonisti ancora viventi fra quelli inclusi nel volume, Nistri, oggi ottantanovenne, ha disegnato fra gli anni Quaranta e gli Ottanta più di duemila manifesti. «Quando potevo, specialmente per i film più complessi, andavo a vederli e mi lasciavo ispirare, se no bastavano le foto», ricorda. «Poi realizzavo gli schizzi, di solito cinque, e li sottoponevo alla casa cinematografica perché scegliesse. Me ne sono rimasti tanti, e mi stupisco quando mi vengono chiesti da molti giovani collezionisti che non hanno vissuto quel periodo». Tra le sue locandine c’era anche quella per il film “La notte” di Michelangelo Antonioni. «Scelsi di privilegiare il volto di Monica Vitti, che stava emergendo con forza nel cinema italiano. E usai pochi colori – per me un manifesto doveva averne al massimo due o tre ben miscelati, così da essere riconoscibile per le strade una volta affisso». E restare nel tempo. Non a caso la locandina per “La maschera del demonio”, il film di Mario Bava del 1960, è stata esposta al MoMA di New York. Un destino che difficilmente toccherebbe ai fotocolor attuali, realizzati al computer e con costi bassissimi. «Tutto è più semplice, ma sbrigativo e superficiale», chiosa Baroni. E viene da citare Federico Fellini, che dei manifesti sancì il valore immateriale: «Sono come le canzonette: ti riportano a certi momenti della tua vita, impedendoti di perderli. Ti riportano cioè non tanto e non soltanto ai film, quanto alle loro stagioni, al clima e al sapore di quelle stagioni». Per fortuna, ora, c’è chi dà loro un’altra chance… •
Oltre a quello artistico, i manifesti cinematografici hanno un valore immateriale legato alla memoria personale e collettiva. Come scriveva Federico Fellini, «sono come le canzonette: ti riportano a certi momenti della tua vita, impedendoti di perderli. Ti riportano cioè non tanto e non soltanto ai film, quanto alle loro stagioni, al clima e al sapore di quelle stagioni».