Da quando erano ragazzini, Fernando e Humberto Campana sperimentano con tutto quello che trovano. È il design della scarsità: «Trasformare il banale in diamante». di Francesca Reboli
Ricorda ancora il suo pollice alzato tra Montgaillard e Aston, ai piedi dei Pirenei francesi, zaino in spalla e macchina fotografica a tracolla. E come venne caricato da quella coppia di personaggi curiosi che l’avrebbero poi condotto nella loro casetta precaria in mezzo alla valle, un piccolo eden isolato dove sperimentavano altri metodi di agricoltura, sussistenza, architetture geniali e improbabili, se pur parzialmente di raccatto. Era il 2008, o giù di lì. «Rimasi affascinato da quella scelta radicale, ma consapevole», racconta l’oggi trentunenne fotografo di Lille Antoine Bruy, la cui curiosità per stili di vita alternativi aveva cominciato a germinare nel 2006, in Australia, partecipando a un programma di lavoro volontario in diverse fattorie biologiche. Quell’incontro nei Pirenei sarebbe diventato il primo di una serie di sedici, avvenuti nell’arco di cinque anni e in due riprese – dal 2010 al 2013 in Europa, nei due anni successivi negli Stati Uniti –, con una galleria di eccentrici che avevano mollato gli ormeggi metropolitani per fare rotta verso una Natura desiderata al suo stato più autentico, dove approdare, incagliarsi, magari naufragare.
«Presentarmi nella doppia veste di fotografo e volontario m’ha aiutato a stabilire un contatto vero con tutti loro», spiega Bruy da Arles, dove ha presentato una nuova serie di scatti sul bush australiano. «Per lo più, non sono scontrosi eremiti bensì cultori dell’autonomia, gente che cerca di fare le cose a modo proprio, connessi, ma non invischiati con la società circostante, un po’ sociologi e un po’ architetti, agricoltori e sperimentatori di fonti energetiche alternative».
Tante piccole repubbliche indipendenti costituite da lupi solitari, attivisti, coppie e famiglie, intercettate e documentate grazie a Wwoof (World-Wide Opportunities on Organic Farms), il network internazionale che connette tutti coloro che fanno biodinamico e permacoltura con i volontari che desiderano dare una mano al lavoro nei campi e nella manutenzione delle strutture. E che Bruy ha documentato con il progetto “Scrublands”, genericamente “brughiere” e “territori non edificati”. Da lì è ora nato un volume pubblicato da Éditions Xavier Barral, che a sfogliarlo pare il reportage da un alter-salone del mobile fatto di tentativi, sovrapposizioni, adattamenti continui e per lo più a costo zero, dai Carpazi alle Montagne Rocciose.
«Il lato affascinante di queste case è il loro essere un sistema infinito e in continuo adattamento ed evoluzione, capaci di donare un sapore netto di art brut», dice Bruy, che ha passato in media due settimane in ciascun luogo, ma ben quattro mesi nella casa di Ramounat, dove tutto è cominciato. «Un basamento di pietra ricavato da un vecchio ricovero per gli animali, poi un piano superiore costruito con assi di legno, una veranda tutta inclinata, ma incredibilmente stabile, un pannello solare per scaldare l’acqua e le lampade a olio, che di notte illuminavano i sassi rosa della costruzione portante».
Abitazioni ricavate da vecchi scuolabus abbandonati nel bosco, come nel film di Sean Penn “Into the Wild. Nelle terre selvagge” (2007), che per fortuna raccontano storie con finali meno tragici. Architetture di legno innalzate tra due rocce trasformate in colonne portanti. Estensioni multiple di un pezzo di roulotte trovato chi sa dove, su cui impiantare stanze e nuovi piani. Ma anche tende quasi berbere, da nomadi asiatici, fatte di tessuto, pelle e plastica. Oppure case odorose e acusticamente isolate create con cubi di fieno sovrap- posti. Rifugi costruiti per lo più in montagna, dove il terreno non costa nulla e la burocrazia delle concessioni e delle sanatorie non riesce ancora ad arrivare. Soluzioni ingegnose per il compostaggio dei rifiuti e bagni sospesi sulla scarpata, collegati alla terraferma da una passerella affacciata sul vuoto.
«Tutto intorno, gli orti, apparentemente caotici, ma in realtà concepiti come un sistema autosufficiente: ogni pianta cresce in funzione dell’altra, la natura collabora con se stessa affinché si riproduca in cattività la resilienza degli ambienti naturali», spiega il fotografo. Che in cinque anni di viaggi ha assorbito la visione della vita di questo popolo di idealisti, quasi sempre vegetariani, con i bambini a lavarsi nelle tinozze d’acqua raccolta al fiume, ma con il wi-fi funzionante grazie a generatori di elettricità biodiesel, in perfetta salute anche se, qua e là, con le ossa doloranti per via dell’umidità. Qualche eccentrico ai limiti della follia come Uli, incontrato tra le cime della Sierra Nevada, in Spagna, che diceva di non ricordare il proprio nome (Bruy ha dovuto chiederlo a un volontario) e seguiva qualche strana religione orientale. Poi Alex, membro di una comunità ecologista radicale, incontrato nello Stato di Washington nel 2015, che per non alterare i ritmi naturali si nutre esclusivamente di verdura prodotta dall’orto e di “roadkills”, gli animali selvatici investiti dalle automobili, secondo una cultura diffusa in un certo pionierismo americano. «Leggeva tantissimo e ascoltava la radio. Quando c’era qualcosa che non sapeva, se la faceva raccontare dai volontari», ricorda Antoine.
E ancora Jim e Terry, incontrati sulle Montagne Rocciose del Colorado, dove hanno vissuto isolati, ma perfettamente connessi, per oltre quarant’anni: «Quando li ho conosciuti erano entrambi in pensione, ma per tutta la vita hanno insegnato sociologia al Fort Lewis College di Durango: scendevano in città per tenere le lezioni e poi se ne tornavano nella loro cabin in mezzo al bosco, a raccogliere il proprio cibo».
Gente dall’ospitalità ruvida, abituata alla sbrigatività pratica dei makers, educata a coricarsi al tramonto e svegliarsi all’alba. «Sono portatori di un paradosso illuminato», dice Bruy, «perché inseguono l’utopia attraverso l’empirismo costante. Il loro sogno, più che dall’ideologia, è alimentato dall’esercizio dell’errore». •
Dimore ricavate da v ecchi scuolabus. Architetture di le gno tra due rocce trasformate in colonne portanti. E ca panne odorose e acusticamente isolate create con cubi di fieno. Rifugi cos truiti dove il terreno non costa nulla e la b urocrazia delle concessioni e delle s anatorie non r iesce ad ar rivare.
Talento e coraggio. Radicalità e autonomia. Volontà e passione definiscono la personalità di Nanda Vigo (1936), il suo fare libero da compromessi, risoluto e mai convenzionale, pionieristico e avventuroso. Una progettualità interdisciplinare e totalizzante che si è nutrita di esperienze e d’incontri straordinari. Innanzitutto la Casa del Fascio (1932-1936) di Giuseppe Terragni, in cui lei, sfollata a Como durante la guerra, s’imbatte ancora bambina, e che le rivela il potere e il fascino straordinario della luce. Luce naturale in quel caso, che fluisce fra dentro e fuori, pieni e vuoti di quella struttura aperta e modulare, ne sottolinea penetra espande ammorbidisce altera i contorni e i colori, tingendola con le sfumature sempre diverse del giorno e rendendola vieppiù leggera, quasi incorporea nello spazio. Luce che s’imprime già allora nella sua mente e lì permane indelebile nel tempo, indissolubilmente associata allo spazio e all’origine della sua attività, negli anni del liceo artistico e dei primi elaborati scolastici. Progetti in cui Nanda fa già confluire linguaggi e tecniche visuali diverse.
«Ho continuato a lavorare sulla modulazione e dissoluzione della luce», ribadisce durante la nostra conversazione. «Una luce capace di alterare le dimensioni, la percezione e l’esperienza dello spazio. E sono arrivata a ipotizzare un approccio sempre più fluido, che potesse annullare il limite fra esterno, interno e arredo, collegando architettura, design e arte. Lo chiamavo “integrazione delle arti” e si trattava ai tempi, erano gli anni Cinquanta, di una visione creativa e progettuale assolutamente non comune. Nessuno mi ascoltava, allora sono andata a cercare chi ritenevo sapesse di cosa stavo parlando».
Oggi ultraottantenne professionista di successo, con opere nuove o storiche incluse in importanti mostre e fonte di ispirazione dei più giovani artisti e progettisti, Nanda Vigo ha dato così seguito alla sua ricerca. Incentrata su un rapporto spazio-luce, che ha indagato come artista ma anche come architetto e designer. Arricchendolo di inedite eclettiche prospettive, angolazioni, sfaccettature. E trasformandolo in una forma ritagliata, ribaltata, alterata, amplificata con l’ausilio di moduli specchianti e luci colorate al neon, che fagocita informazioni del mondo circostante, connotando in modi sempre diversi e imprevedibili i solidi geometrici dell’opera e gli elementi d’arredo dell’habitat.
Oppure rendendolo interazione di opacità e trasparenze, superfici rigide e morbide, effetto ottico che genera da sovrapposizioni di vetro stampato. O che diventa cortocircuito sensoriale di alluminio e peluche. Implicando non di meno la sperimentazione di materiali innovativi, tonalità digitali, monocromatici concept d’arredo, improntati da onnicomprensive, solari gradazioni di giallo oppure totalmente oscurate dal nero, per dare risalto, come in uno scrigno, a luminosi oggetti e statement d’arte contemporanea. Scelte distintive di una formazione che a partire da Terragni e dopo le conversazioni d’infanzia con Filippo de Pisis, ospite abituale di casa Vigo, che proprio a lei amava più spesso rivolgersi e dare ascolto, si arricchisce di nuovi incontri.
Condivisioni, scambi di idee, teorie e pratiche con maestri e generazionali compagni di strada. Collaborazioni professionali e rapporti sentimentali. Viaggi oltreoceanici, frequentazioni e attestati internazionali, che annettono alla sua biografia i nomi di Frank Lloyd Wright, Lucio Fontana e Gio Ponti, Piero Manzoni e Gruppo Zero, che del sogno di “integrazione delle arti” ha costituito uno degli esempi più straordinari e intensi.
«Per prima cosa ho bussato alla porta di Lucio Fontana. Quando mi ha aperto gli ho detto “buongiorno mi è interessato molto il suo manifesto dello spazialismo, ne vorrei parlare con lei…”, restando lì sulla soglia. E lui, “ma sì entra, siediti, cosa stai lì a fare, prendi questa tela…”. Così, con mia vera gioia, sono diventata la sua ragazza di bottega.
Poi ho bussato da Gio Ponti, che lavorava tra design, architettura e persino urbanistica, che mi ha confermato di poter proseguire nel mio lavoro». Un’integrazione delle arti che ha conquistato i suoi maestri, facendo della giovane Nanda la loro più ambita partner progettuale. •
In tempi non sospetti lo definiva “integrazione delle arti”. L’approccio fluido di Nanda Vigo, che collega architettura, design e arte, conquista
il pubblico più attento di musei e gallerie.
di Mariuccia Casadio
Si intitola “Global Interior” la nuova grande opera in scala ambientale che Nanda Vigo presenterà nella chiesa di San Celso, a Milano, il 13 ottobre.
Di solito il modo migliore per rompere il ghiaccio con i brasiliani è parlare di Brasile. Funziona anche con Fernando e Humberto Campana che, interrogati su un posto del cuore, raccontano di un parco a 300 chilometri da Brasilia, la Chapada dos Veadeiros. Un canyon dove si nuota in specchi d’acqua illuminati da quarzi luccicanti e l’atmosfera è surreale, tanto che negli anni 60 la Nasa avvisò il governo brasiliano di aver registrato bagliori alieni nel cuore del Paese. Si trattava “solo” dell’enorme placca di quarzo sulla quale poggia l’intera area. Ci vanno appena possibile, raccontano. Forse perché, come dice Sebastião Salgado in “Il sale della Terra”, il docufilm che gli ha dedicato Wim Wenders, «crescere in Brasile ti dà il senso del pianeta». Della sua vastità e ricchezza, ma anche della sua preziosa fragilità. Così se Salgado è tornato nella fazenda del padre per ripiantare la foresta pluviale su un terreno bruciato da decenni di coltivazione intensiva, i Campana concentrano sforzi di oggi e speranze del futuro su un immenso giardino: un parco pubblico ricavato in un “sítio” (l’equivalente di un ranch) e patrocinato dalla loro fondazione, l’Instituto Campana.
Ma questa è la fine del racconto, la chiusura del cerchio. Occorre risalire all’inizio per seguire la traiettoria di questi due fratelli che sul lavoro eseguito ostinatamente in coppia hanno costruito fama e successo in tutto il mondo. Se dalla terra si comincia e alla terra si ritorna, l’esatto punto di partenza geografico è Brotas, nell’entroterra dello stato di San Paolo, una realtà puramente rurale, dove Humberto e Fernando sono nati nel 1953 e nel 1961. Qui hanno cominciato a sperimentare, a immaginare, a costruire fin da ragazzi. «Ci arrangiavamo con ciò che trovavamo. Senza soldi per comprare plastica o metallo, ci esercitavamo con rami, foglie, pezzi di legno, cartone, gomma, corda, vetro». Una formazione sul campo, rivelatasi in seguito «la base della nostra abilità, il pilastro del design della scarsità».
Design della scarsità non significa improvvisazione. Non si tratta semplicisticamente dell’arte di arrangiarsi, è un’operazione complessa in cui artigianalità e concettualizzazione sono coese e interconnesse, dipendendo sempre l’una dall’altra. «Il lavoro artigianale», spiega Humberto, «è stato la nostra scuola per dialogare con l’industria, ci ha educati». Educazione, raffinamento, costruzione, pensiero. Banalizzare il design dei Campana a una sequenza di gesti spontanei è fuorvian- te. «Ci sono voluti oltre trent’anni per capire questo processo: una traiettoria che porta l’artigianale alla produzione in scala industriale, preservandone peculiarità e ricchezza».
Trent’anni in cui critici, designer e industriali italiani hanno visto lungo, dando loro fiducia. Il primo è stato Pietro Bardi, gallerista e curatore, spezzino trapiantato in Brasile, deus ex machina del Masp, il Museo di Arte Contemporanea di San Paolo, marito di Lina Bo. «Ha creduto in noi, era acuto e dolce. Di Lina, che ammiriamo da sempre, avevamo timore: si imponeva». Dallo scouting intellettuale di Bardi all’abbraccio fattivo di Massimo Morozzi, direttore creativo di Edra. È per lui che realizzano le prime poltrone, a partire da Azul e Verde (1993) fino ai cinquecento metri di corda intrecciata di Vermelha (1998), oggi nella collezione permanente del MoMA.
Vermelha rappresenta il grado zero, la matrice di molti altri progetti, come il divano Boa (2002), ma anche le scarpe di gomma per la brasiliana Melissa, felice incursione nella moda pop iniziata nel 2004. Seguono Favela (2002), poltrona fatta di pezzi di legno sovrapposti, e Banquete (2005), la cui seduta è un morbido agglomerato di peluche. Poi decine di progetti per Edra (Sade, al Salone 2018), quindi per Magis, Venini, Louis Vuitton Objets Nomades, Alessi.
È grazie a queste collaborazioni che Fernando e Humberto impongono il “canone Campana”, codificando la loro cifra giocosa e teorizzando il lavoro fondato sull’ibridazione di materiali e tecniche. «La grande sfida è trasformare il banale in diamante», dicono. Se entrambi amano sintetizzare il loro lavoro in “copy” a effetto, non hanno nemmeno lontanamente la postura dei guru. Nella contaminazione con le altre culture (tra cui l’italiana, di cui riconoscono il ruolo centrale nella loro formazione), conservano una profonda brasilianità. Sono umili, diretti, accoglienti: la loro quotidianità è fatta del lavoro nello studio di San Paolo con artigiani, operai, stagisti (uno brasiliano e uno straniero, per non fare preferenze), seminari per i ragazzi delle favelas e grandi progetti a favore dell’ambiente.
Torniamo così al sogno dell’immenso giardino. È la fine della storia, ma anche l’inizio, l’idea-guida per i prossimi anni: restituire un po’ di fortuna. Humberto e Fernando tengono moltissimo al grande parco. È il progetto per cui, un giorno, vorrebbero essere ricordati. ¥
Sempre formidabili
quegli anni, dice un architetto inglese che sa spiegare il senso dei tempi. Qui racconta perché le idee e visioni maturate tra i ’60 e gli ’80 siano un patrimonio ricco di ispirazioni per i progettisti di domani.
Dare una definizione di architettura postmoderna è complicato. Come molti altri è un termine incredibilmente ampio, usato anche in modo improprio per riferirsi ad approcci progettuali spesso contraddittori. Nel Regno Unito, per esempio, descrive i professionisti che si misurano creativamente con la realtà mediata dall’identità e la sua cultura materiale in questa tardiva, fluida e complessa società capitalista; come pure i reazionari che, rifiutando le difficoltà del presente, propongono comode rivisitazioni del passato, spesso incarnato nelle forme del classicismo palladiano o in mielosi localismi. La ragione per cui accezioni così diverse sono espresse con lo stesso termine sta nel fatto che esso è divenuto col tempo un lemma “ombrello” per quanto si è prodotto in architettura e design tra i ’60 e i ’90 che non fosse chiaramente modernista o almeno non visivamente ascetico; o ancora, che non rivendicasse una serietà architettonica attraverso la circoscritta retorica della purezza e della funzione.
Ciò che m’interessa profondamente è invece l’enorme gamma d’implicazioni, istanze e riferimenti che quel periodo ha offerto ad architetti e designer per esplorare con la pratica aspetti che oggi sono diventati fondamentali, anche se spesso visti come tabù. La rivoluzione sociale degli anni 60 e 70 ha permesso ai creativi di tornare a essere parte integrante di una società che stava cambiando. Le trasformazioni che raffiguravano erano le stesse che a loro volta generavano. Identità, rappresentazione, complessità culturale, estetica queer, trasgressione, mediazione, ornamento, alterità, liberalismo, cultura visiva, benessere diffuso e il relativo individualismo fino all’identificazione con un mondo estetizzante: è qui che diventano temi capaci di generare infinita fascinazione e possibilità materiali.
Ecco perché il periodo etichettato come “postmodern” e i gruppi allora attivi offrono suggerimenti allettanti sulle strade che il designer può percorrere. Sono tutti argomenti lontani dalle tesi stantie di certi fenomenologi materialisti-feticisti, dai funzionalisti che chiedono al progetto chiare prestazioni sociali, o dai tecnofili che individuano qualità solo nella valorizzazione della tecnologia. La fortuna del “postmodern” in architettura e design è solo in parte dovuta alla semplice ciclicità della moda grazie a cui riscopriamo fenomeni che, decaduti per un certo periodo, poi riappaiono come nuovi sotto i riflettori. Postmodernismo e brutalismo sono entrambi fenomeni nei quali esistono forti echi di questioni contemporanee, lezioni da apprendere per il nostro tempo che molti giovani designer malati di banalità neoliberiste ritrovano nei progetti storici dei due linguaggi. Evocando il brutalismo si vorrebbe sancire un ritorno all’autenticità e alla semplicità muscolare, il ricorso a certi materiali, alle certezze dogmatiche di cosa sia giusto e sbagliato, reale e irreale; riferirsi al postmodernismo corrisponde a un riavvicinamento a forme più complesse. Se il primo segue la retorica della natura e della semplicità, il secondo la logica dell’arte e dell’espressione sociale; entrambi però cercano il ritorno a qualcosa di radicalmente fondamentale, di vicino a noi, in cui possiamo avere nuovamente voce in capitolo e relazione.
È stato lo studio della critica teorica ad aprirmi gli occhi su quanto siano arbitrarie le basi della maggior parte dei giudizi di valore tuttora espressi in architettura e design, sul cosiddetto “buon gusto” e la tanto mal celata etero-normalità e misoginia contenuta in molti pregiudizi critici. Se ci si libera da questa prigionia mentale artificialmente imposta – orchestrata da una piccola cricca di studiosi occidentali che ritiene di dover mantenere il controllo su cosa sia considerabile di alto valore – si apre un incredibile campo d’illimitata ispirazione ed espressione. Ci sono così tante questioni formali ed estetiche che vorrei esplorare, rileggere, re-immaginare, riscoprire e incorporare, provenienti da varie esperienze. Domande e storie del design sviluppate in altre nazioni e da vari gruppi nel mondo, tipologie e media troppo spesso scherniti dall’accademia o tecniche altrimenti trascurate, che i contenuti espressi nel periodo più esplosivo della creatività tra gli anni 60 e 80 del Novecento sono per me e per i colleghi della mia generazione un dono. • Londinese, designer e architetto, docente universitario, Adam Nathaniel Furman, 36 anni, è autore con Terry Farrell di “Revisiting Postmodernism” (Riba). Per Bitossi ha firmato una serie di coloratissimi oggetti visti alla Design Week di Milano.