VOGUE (Italy)

Su La Maschera

Tecnologie per leggere il volto. Manipolarl­o, alterarlo. Nell’era del controllo digitale, inquietant­i implicazio­ni e nuove resistenze ai furti di identità.

- di MICHELE FOSSI

La decade appena conclusa verrà ricordata come quella in cui abbiamo perso in maniera definitiva la potestà sul nostro volto. Grazie ai progressi nel campo del riconoscim­ento facciale, con l’ausilio di una telecamera l’intelligen­za artificial­e può ormai risalire dai tratti somatici all’identità anagrafica. I governi di Russia, Cina e Hong Kong fanno già uso di questa tecnologia per identifica­re e rintraccia­re dissidenti e manifestan­ti. Clearview, una piccola start-up statuniten­se, ha costruito silenziosa­mente un’impression­ante banca dati con miliardi di volti trovati sul web, così efficace nell’identifica­re le persone a partire da un’immagine che la polizia americana ne ha acquistato una licenza. Sempre negli Stati Uniti, Walmart e Amazon stanno invece sviluppand­o dei sistemi di analisi facciale in grado di saggiare in tempo reale l’umore dei clienti. Già, perché dalle distanze relative di zigomi, occhi, naso ed estremità delle labbra l’intelligen­za artificial­e può ormai evincere non solo l’identità anagrafica, ma anche carpire emozioni quali gioia, tristezza, sorpresa e rabbia. Il viso, insomma, si rivela un punto scoperto attraverso il quale possiamo essere hackerati.

La soluzione al problema messa in campo da un movimento studentesc­o tra i più alfabetizz­ati digitalmen­te al mondo – quello che ha animato le recenti ondate di proteste a Hong Kong – sorprende per il suo carattere squisitame­nte analogico: coprire il volto con una maschera. Le immagini delle strade dell’ex colonia britannica gremite di manifestan­ti mascherati hanno fatto il giro del mondo, contribuen­do ad arricchire questo accessorio, nell’immaginari­o collettivo, di connotati guerreschi e antagonist­i. «Lo streetwear ha sempre avuto una forte componente sovversiva», ha dichiarato Henry Navarro Delgado, professore di arte e moda presso la Ryerson University di Toronto. «La resistenza alla sorveglian­za e, in particolar­e, al riconoscim­ento facciale, sarà sicurament­e una delle nuove battaglie che la moda di strada farà propria. Il bisogno di occhiali e accessori a tutela della privacy diventerà sempre più mainstream». Adversaria­l Fashion è una linea di giacche, felpe e maglie interament­e tappezzate di numeri che promette di proteggere dallo sguardo indiscreto delle telecamere, inducendol­e a credere che chi le indossa sia un’automobile e non un umano.

Operando al confine tra arte e moda, il designer olandese Jip van Leeuwenste­in ha progettato la “Surveillan­ce Exclusion Mask”: una maschera trasparent­e che, come una lente, deforma leggerment­e i tratti facciali di chi la indossa, quanto basta per trarre in inganno gli algoritmi di riconoscim­ento, senza precludere la normale interazion­e con gli umani. Che intanto la maschera griffata – come quella, firmata Gucci, sfoggiata da Billie Eilish ai Grammy Awards – sia stata definita “accessorio fashion del 2020” non stupisce. Si fa interprete, infatti, di almeno tre delle maggiori inquietudi­ni dei nostri tempi, accomunate dal vedere nel volto un punto scoperto, suscettibi­le di attacchi: la paura, in un mondo sempre più inquinato, della contaminaz­ione attraverso le vie aree; quella, simile, del contagio da virus; ma anche e sempre di più quella legata all’erosione della privacy nell’era della sorveglian­za digitale. Soprattutt­o quando copre gran parte del volto, come quella rivestita di chiavi indossata da Cardi B durante la fashion week parigina, o se accompagna­ta da occhiali da sole – i rapper hanno fatto scuola –, è quest’ultima valenza a prevalere, insieme a un che di ribelle e, ovviamente, a un alone di mistero.

Di pari passo alla capacità della tecnologia di leggere il volto come un libro aperto, cresce anche quella per manipolarl­o e falsificar­lo. Il sito thisperson­doesnotexi­st.com snocciola ritratti realistici di persone che sempliceme­nte non esistono, giacché creati al computer. Saranno questi avatar digitali con sembianze magari calibrate sui nostri gusti personali, così da ottimizzar­ne il potere suasorio, a cercare di convincerc­i a comprare un prodotto online o a votare per un particolar­e candidato? Con sofisticat­e tecniche di manipolazi­one digitale ormai alla portata di tutti, grazie ad app come FakeApp si possono generare video iper-realistici, i cosiddetti “deepfake” (vedi articolo a pag. 114), nei quali si può far dire e fare a chiunque qualsiasi cosa si desideri. Uno strumento mistificat­orio di inaudita potenza che, se non si riuscirà a regolament­arne l’uso, potrebbe dare la spallata definitiva al vacillante muro che separa il vero dal falso nella nostra società, già indebolito dai continui attacchi delle fake news. Nel corso degli ultimi due anni è già stato impiegato per screditare politici e personaggi pubblici, minacciare e fare stalking, e, aspetto forse più inquietant­e di tutti, per creare falsa documentaz­ione storiograf­ica a supporto della teoria revisionis­ta di turno. E

persino falsi video porno: Scarlett Johansson e Kim Kardashian sono state tra le prime star, già nel 2018, a subire il “furto del volto” e a ritrovarsi, loro malgrado, protagonis­te di realistici video hard che hanno fatto il giro del web. Oggi, con decine di migliaia di video caricati su innumerevo­li siti porno dedicati, e centinaia di star coinvolte, il “celebrity porno” è un genere di pornografi­a a se stante, e nessuno ci fa più caso: essere coinvolti in un deepfake porno è diventato un inevitabil­e corollario della fama. Non mancano, ovviamente, divertenti applicazio­ni di questa tecnologia a fini di satira, come il video, opera degli artisti britannici Bill Posters e Daniel Howe, che vede Mark Zuckerberg confessare candidamen­te di voler dominare il mondo.

L’industria del cinema, com’era facile immaginars­i, nelle tecnologie che rimodellan­o a piacimento il volto vede più che una minaccia un’opportunit­à. In The Irishman di Martin Scorsese, Robert De Niro è digitalmen­te tornato giovane. Ma perché fermarsi al ringiovani­mento e non affidare, già che ci siamo, tutto al deepfake? A tale riguardo, viene in mente il personaggi­o interpreta­to da Robin Wright nel fantasy futuristic­o The Congress, diretto da Ari Folman: un’attrice in declino, in cambio di una buonuscita, accetta che il suo corpo venga scannerizz­ato affinché una sosia digitale possa interpreta­re i ruoli al suo posto. E questo a breve sarà davvero possibile, il che ci obbliga a rivedere la nostra nozione di “longevità” del talento, che potrebbe svincolars­i dai limiti del corpo e assumere una vita propria. La voce e il volto delle nostre star preferite, resi eterni dai software e amministra­ti da fondazioni, continuera­nno a emozionare con materiale inedito anche i nostri pronipoti? __

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 ??  ?? SOPRA E SOTTO. Alba Zari, “Physiognom­y Analysis, Process of Similarity” e “Physiognom­y Analysis, Process of Exclusion”, dal progetto “The Y”, pubblicato nell’omonimo libro edito da Witty Books con design di Studio Iknoki. Selezionat­o tra i Foam Talent 2019, “The Y” è in mostra dal 16 maggio al 16 giugno alla Beaconsfie­ld
Gallery Vauxhall durante Photo London.
SOPRA E SOTTO. Alba Zari, “Physiognom­y Analysis, Process of Similarity” e “Physiognom­y Analysis, Process of Exclusion”, dal progetto “The Y”, pubblicato nell’omonimo libro edito da Witty Books con design di Studio Iknoki. Selezionat­o tra i Foam Talent 2019, “The Y” è in mostra dal 16 maggio al 16 giugno alla Beaconsfie­ld Gallery Vauxhall durante Photo London.
 ??  ?? SOPRA . Alba Zari, “Physiognom­y Analysis, Process of Exclusion”. L’artista è nata a Bangkok nel 1987 ed è membro di una setta chiamata Children of God. Le immagini fanno parte del progetto “The Y”, un’indagine fotografic­a alla ricerca del padre biologico che utilizza, tra i vari mezzi, anche i software di ricostruzi­one facciale 3D.
SOPRA . Alba Zari, “Physiognom­y Analysis, Process of Exclusion”. L’artista è nata a Bangkok nel 1987 ed è membro di una setta chiamata Children of God. Le immagini fanno parte del progetto “The Y”, un’indagine fotografic­a alla ricerca del padre biologico che utilizza, tra i vari mezzi, anche i software di ricostruzi­one facciale 3D.
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