Necessario È Il Superfluo
Ogni evento cambia la lingua e i pensieri. Social distancing sarà il lascito, non solo lessicale, di questa pandemia. È la distanza di sicurezza, un po’ come in auto, con qualcosa di più: il terrore. Ne va della vita. Il distanziamento da social network, riflesso di una alienazione ormai di vecchia data, non c’entra proprio, o c’entra in parte. Il risultato di tutto quel che sta succedendo potrebbe essere un nuovo ordine supremo di rapporti sterilizzati, germ-free, sottovuoto e digitalizzati, oppure una riscoperta del vero e dell’umano, dal fatto a mano alla stretta di mano – a patto poi di lavare palmo e falangi con il sapone, per un tempo congruo. Per ora non è dato sapere; crogioliamoci nel dubbio.
Intanto – vergo queste righe in data 22 marzo, nel pieno del lockdown – sono le più normali occasioni di socialità fisica ad atterrire, e questo ha un effetto devastante su percezioni e proiezioni, non ultimo estetiche. Privandoci della possibilità di interagire in uno spazio fisico reale, negando volume al nostro corpo e ai nostri gesti, obliterando ogni scambio effettivo che sia anche solo uno sguardo di sguincio, da dietro, a una silhouette che si allontana, il virus ci ha reso solisti, ottusi e illetterati. Annoiati a morte, incapaci di stare con noi stessi e trarre beneficio dall’otium coatto, trasmettiamo gran cazzate, con un mezzo per nulla narrativo, web celebrities del piffero di una tv maldestra e casalinga che comu veni si cunta (come viene viene). E non importano i tutorial su come conciarsi per il colloquio su Skype o il meeting su Zoom, siamo tornati all’età della pietra. La domesticità forzata cui aderiamo per inderogabili e sacrosanti motivi di salute pubblica con la moda, infatti, cozza di brutto. Ha riportato al grado zero, che è coprirsi. Ma vestirsi, inteso come gesto insieme spontaneo e calcolato di rappresentazione di sé, è ben altra cosa: abbisogna di un pubblico e di svariati antagonisti o perde efficacia. Siamo animali sociali: la nostra identità si definisce nel rapporto con gli altri, e trova nel vestimento il più rapido ed efficace mezzo di comunicazione. Il vestito dice, spesso più del necessario, ma implora uno sguardo e uno spazio reali. Star chiusi tra le mura di casa ne è la nemesi e l’antitesi. La temperie fosca ci richiama con secco moralismo all’essenziale: un quadro di mera sopravvivenza nel quale la moda è relegata a ultima delle preoccupazioni, frivolezza delle frivolezze. Eppure, sono proprio il superfluo e le frivolezze ad arginare l’abbrutimento; aiutano, consolano, confortano. Una volta usciti, c’è da impegnarsi perché la frivolezza esploda quanto prima, perché non sia il pentimento medievale a bloccarci ma un nuovo modo radicale di essere a imporsi. Di essere, non di consumare; di vivere, non di sopravvivere. Riscoprendo la bellezza nell’autenticità del gesto creativo, la liberazione nell’espressione disinteressata di fantasia. I momenti bui sono terreno fertile per creare senza remore. Ne nascerà una nuova lingua vestimentaria, magari, fatta di segni che parlino anche a distanza di sicurezza, che ci connettano e colleghino come umani e non macchine consumanti. L’estetico è un laboratorio inesauribile, in questo senso. Illuminiamolo.