Il Prezzo Da Pagare
Rinunciare alla nostra privacy per permetterci, attraverso il data sharing, di godere di più sicurezza? Geoff Mulgan, studioso di intelligenza collettiva, ci guida nel più estremo dei paradossi.
«Ci sono decenni in cui non succede nulla, e ci sono settimane in cui accadono decenni». La frase, attribuita a Lenin, si trova all’inizio di Social Innovation (Policy Press), il nuovo libro di Geoff Mulgan che completa una sorta di trilogia ideale insieme a L’ape e la locusta (Codice ed.) e Big Mind: L’intelligenza collettiva che può cambiare il mondo (Codice ed.); ed è un buon punto di partenza per cominciare a pensare al mondo dopo il coronavirus. Mulgan insegna Collective Intelligence, Public Policy and Social Innovation presso lo University College di Londra; è stato Ceo di Nesta fino al 2019, direttore della Prime Minister’s Strategy Unit in Inghilterra e consulente di Tony Blair e Gordon Brown.
Cosa può fare l’intelligenza collettiva di fronte a una pandemia?
Il coronavirus ci ha ricordato qualcosa che in fondo sapevamo già: la segretezza può essere molto pericolosa. Tutto è iniziato con la Cina che tenta di sopprimere le informazioni, e minaccia pesantemente i whistleblower. E se mai ci servisse un avvertimento su quanto il mondo abbia bisogno di un flusso di informazioni libero, di persone che ci mettano in guardia, di profeti di sventura, ecco, purtroppo il coronavirus ce lo ha rammentato. La seconda cosa importante è che, se mettiamo a confronto il modo in cui gli stati hanno reagito all’emergenza, vediamo come quelli che stanno ottenendo i risultati migliori sono gli stessi che hanno raccolto dati e informazioni di diverso genere e li hanno utilizzati in un modo che potremmo definire “molto Ventunesimo secolo”: a Singapore, a Taiwan, in Corea del Sud hanno reso le informazioni trasparenti, mobilitato i cittadini, tracciato le interazioni e agito secondo un modello che chiamiamo intelligence design, mettendo insieme numeri e informazioni in tempo reale per affrontare la situazione. Sono questi i governi che hanno ottenuto risultati in breve tempo, rispetto per esempio all’Europa e agli Stati Uniti. È forse la prima volta nella storia che le culture avanzate come l’europea o americana devono imparare qualcosa da quelle dell’East Asia.
Secondo lei, che ruolo ha l’intelligenza collettiva in questo preciso momento?
In tutto il mondo è già al lavoro per predire, monitorare e trovare soluzioni; alcuni esempi sono la piattaforma BlueDot, che raccoglie dati sulla salute degli utenti: già il 31 dicembre ha avvisato i suoi iscritti di un virus pericoloso a Wuhan, ben nove giorni prima dell’Oms. O il progetto Contagion, iniziato nel 2018 dalla Bbc, che coinvolge i cittadini chiedendo loro di segnalare gli spostamenti e le persone incontrate, o le piattaforme di calcolo e previsione come Metaculus e Good Judgment Project. A Singapore, la dashboard Covid19 SG permette ai residenti di conoscere in tempo reale ogni nuovo caso di infezione e la località precisa, e a Taiwan si è creata, con il contributo dei cittadini, una
crowdsource map che segnala dove sono ancora disponibili le mascherine, e in quale quantità. Ci sono poi gli attivisti di Reddit: hanno creato un archivio gratuito, scavalcando i paywall, con oltre 5.312 articoli scientifici sul coronavirus, ritenendo un imperativo morale che la ricerca sia accessibile a tutti gli scienziati del mondo. Molte sono ancora le iniziative, e c’è una mobilitazione che non avevo mai visto prima, non con questa intensità. Se riuscissimo in futuro ad applicare la stessa energia e organizzazione non solo a un’emergenza chiaramente visibile, quella del coronavirus, ma a crisi più stabili, e altrettanto pericolose, come il climate change, non avremmo sprecato una lezione. Churchill diceva: «Never waste a good crisis», e questa è una crisi senza precedenti.
Alcuni digital thinkers, come Evgeny Morozov, ci mettono in guardia dal concedere i nostri dati, soprattutto quelli personali e legati alla salute. Per lei è un pericolo?
Credo che, quando ci guarderemo indietro, tra una generazione o due, vedremo chiaramente un movimento a zig-zag. All’inizio grandi compagnie private hanno raccolto i dati personali a nostra insaputa, sto parlando di Facebook,
Google, Amazon, che tracciavano algoritmi per poi vendere pubblicità mirate agli inserzionisti. È stato un evento straordinario, cui all’inizio nessuno ha dato peso. Ma quando ci si è resi conto di ciò che stavano facendo si è creato un contraccolpo enorme, e lì lo zig si è velocemente trasformato in uno zag, soprattutto gli intellettuali hanno preso posizione verso ciò che ormai è considerato comune buon senso, cioè lo stop alla raccolta dei dati in nome della privacy. Nutro una certa simpatia per queste posizioni, ma la Storia si muove in modo dialettico, non lineare, e una delle lezioni importantissime della crisi delle ultime settimane sono stati i progressi fatti da paesi che hanno utilizzato i dati non per il profitto, ma per il bene comune, e penso che il dibattito si sposterà su come si possa incoraggiare il data sharing e il data pooling in modo responsabile e a beneficio della collettività. Credo che alcuni intellettuali siano bloccati su posizioni superate, e che tra qualche anno i puristi saranno considerati degli ingenui rispetto alla complessità dei problemi che ci aspettano. Certo, nessuno vuole che i nostri dati finiscano nelle mani della Silicon Valley, o di un governo dittatoriale. Ma in Europa esiste un’altra possibilità: una delle cose cui ho più lavorato è la progettazione di istituzioni comuni degne di fiducia. Il problema della raccolta dei dati e del loro utilizzo è che non ci sono attualmente istituzioni deputate a raccoglierli nel nostro interesse. Personalmente, ho pubblicato diversi testi in cui prefiguro quale potrebbe essere il futuro, cioè la creazione di istituzioni che siano i “guardiani” dei dati sulla salute, sui trasporti, sui consumi. Questo dibattito è appena iniziato, e non c’è ancora nessun paese al mondo dove questo sia una priorità, ci vorranno probabilmente ancora due o tre anni prima che i governi istituiscano organismi di questo tipo. Incidentalmente vorrei dire che una delle big tech companies, Facebook, nata per creare profitto, ha avuto come effetto collaterale la creazione di una delle innovazioni sociali più importanti del secolo, e che senza WhatsApp, Skype, FaceTime e molte altre app in circolazione la crisi che stiamo affrontando ci avrebbe fatto sentire ancora più soli e smarriti.
Lei parla di zombie orthodoxies, ortodossie già morte ma che proprio non vogliono andarsene per lasciare il posto ad altro. Quale verrà spazzata via dal Covid-19?
Molte, e la più importante è senz’altro quella che ha dominato la scena in paesi come l’Inghilterra e gli Usa, e che si può riassumere con la frase di Reagan secondo cui alle parole «I am from the government and I am here to help» bisognava prepararsi al peggio. Quindi l’idea che lo Stato debba essere minimo, e lasciare tutto al mercato: ecco, questo è stato spazzato via in un attimo dal coronavirus, perché si è visto nelle attuali circostanze
IN QUESTE PAGINE.
Freja Beha Erichsen fotografata da Ethan James
Green (Vogue Italia, Novembre 2018).
come tutto sia dipeso dallo Stato e dalle sue strutture. E credo bisognerà inventarsi anche una nuova economia in tempo reale, spero basata sul concetto di circolarità dei beni, del loro riutilizzo.
Cosa succederà dopo l’emergenza? Come sarà il mondo?
Vent’anni fa sono stato incaricato dal governo inglese di simulare diversi possibili scenari catastrofici per studiare delle contromisure efficaci: al primo posto abbiamo messo le crisi finanziare, al secondo le pandemie, al terzo gli atti terroristici. E ha funzionato, perché nei cinque anni successivi non è successo nulla di drammatico. Ma disegnare scenari pessimistici ha delle controindicazioni pesanti, si diventa più paranoici e spaventati. A questo proposito ho cominciato a interessarmi di immaginazione sociale, e il quadro che ne è venuto fuori è che le migliori menti del presente, i giovani in Europa, America e Cina, sono pressoché incapaci di prefigurare un mondo migliore per le prossime generazioni. Sono in grado di immaginare i progressi tecnologici, e futuri peggiori, apocalittici, AI, guerre, ma un futuro migliore no, non riescono a concepirlo. E credo che in questo ambito siamo in effetti peggiorati rispetto a 50 o 100 anni fa, quando c’era molta attenzione per l’immaginazione sociale: una delle ragioni è che molte istituzioni, dalle università ai partiti politici, hanno abdicato a questo compito, smesso di pensare in modo creativo al futuro del nostro sistema sanitario, o della nostra democrazia per esempio, e ciò ha contribuito a creare una sorta di malaise, perché le persone non riescono a vedere un mondo migliore a cui tendere. Quello che stiamo cercando di fare, con il supporto di oltre 40 associazioni internazionali, è riattivare un lavoro sistematico di pensiero creativo e di immaginazione sociale. Una delle mie speranze è che questa crisi, come tutte le precedenti, impenni la richiesta di nuove idee, ce n’è bisogno, da molto tempo manca la domanda per questa specie di immaginazione sociale. Mi auguro che si riaccenda una scintilla, che si possa guardare avanti con speranza, sì, ma anche con una progettazione positiva da applicare al presente, per cambiare il mondo, e farne un posto migliore. ______________________