Tutto Si Trasforma
Opinioni/1 Lo stile. Torneranno vecchi difetti e avidità. Ma intanto, proviamo a immaginare un nuovo umanesimo, fosse anche solo per un biennio scarso.
A forza di leggere fantascienza distopica e di guardarla al cinema e in Tv, nell’anti-utopia ci siamo trovati invischiati per davvero, da capo a piedi. Che botta insopportabile. Quando usciremo tutti dai nostri rifugi e dalle nostre domestiche prigioni – nessun bunker sotterraneo o panic room, almeno a questo giro –, saremo in condizioni pietose, come cavernicoli inselvatichiti, con grandi pezze al culo. Poco male: la povertà stimola le idee, e non è un caso che i creativi di ogni risma diano invariabilmente il meglio nelle ristrettezze – dalla pittura alla moda. La moda si troverà davanti un ingente surplus produttivo: merci mai consegnate, prodotti mai consumati, appetiti da risvegliare. Un’ecatombe. Nessuno ha la sfera di cristallo, ma a voler continuare il trail distopico ostinandosi con un comprensibile pessimismo, si può immaginare che dopo un momento di volemosebbene iniziale tutto tornerà come prima, con i grossi conglomerati avidi come non mai, il cinismo rampante e il consumismo cieco indotto nelle maniere più subdole. Ma è altrettanto lecito pensare che qualcosa cambierà, anche solo per una breve primavera di nuovo umanesimo, per un biennio scarso, per cinque giornate.
Quel che è successo ha toccato nel profondo certezze radicate. Ci ha mostrato che per quanto tecnologizzati e dominanti, siamo parte del ciclo naturale, e potremo facilmente soccombere all’inarrestabile processo evolutivo nel quale i nostri desideri piccini e meschini valgono zero. Dimenticheremo presto, ma intanto è lecito ruminare, avanzando ipotesi semiserie per il futuro prossimo. Ipotesi che hanno l’umano al centro: la mano, perfettamente imperfetta ma sempre autentica. Tornerà l’artigianato? Dicunt. Con l’abbondanza scellerata di merci già in essere, una via percorribile – automatica – è lo smembramento e recupero dell’esistente, il collage fai da te, il patchwork dilagante, intesi però non alla maniera dell’upcycling, o della nobilitazione dello scarto e del dimenticato – territorio di proprietà di Martin Margiela nel quale oggi si sono inseriti con verve affabulatoria John Galliano e con spirito assurdista Francesco Risso –, ma esplorazioni ed esperimenti sul potere metamorfico e alchemico dell’atto creativo, capace di trasfigurare tutto. Si potrebbe stabilire un nuovo dialogo tra creatore e consumatore con oggetti abbozzati la cui forma finale sia determinata in maniera univoca e personalissima solo da chi indossa. Il prodotto che implichi un coinvolgimento è ipotesi degna di attenzione, estendendo e modificando idee che circolano almeno dai tempi della moda radicale, e che sono poi state formalizzate da Issey Miyake con “A Piece of Cloth”. Nella prospettiva del non consumo e del di più con meno, c’è anche l’utilizzo di materie esistenti ma incongrue – anche lì, dai fili da pesca di Salvatore Ferragamo alle schiume isolanti di Melitta Baumeister, la letteratura è ricca – da cui potrebbe finalmente emergere una estetica del futurismo vestimentario plausibile invece che costumistica. Questi i primi germi e spunti, da espandere e fertilizzare. Quel che il futuro prossimo fin da ora sembra domandare è una maggiore consapevolezza: coscienza e libero arbitrio e con questi umanità. Vale anche fuori dalla moda. Che sia solo utopia? Certamente. In fondo, homo homini lupus e con il creato anche peggio. Ma val la pena di provarci. ___________________