Salviamo Le Idee Fresche
Opinioni/7 Gli showroom. Buyer, aziende e media hanno una responsabilità storica, spiega Riccardo Grassi: proteggere i giovani stilisti.
«Tra un mese si inizieranno a vedere le prime schiarite, anche se la tempesta si calmerà del tutto solo tra settembre e ottobre», preconizza un lupo di mare della moda come Riccardo Grassi, fondatore dell’omonimo showroom in via Piranesi a Milano, considerato – grazie a una nutrita scuderia di marchi emergenti e una rete di duemila retailer sparsi per il globo – uno dei più influenti al mondo. «Nella nostra industria, gli showroom sono stati le prime realtà a essere colpite dalla crisi del Covid-19, già durante la settimana della moda di febbraio, disertata dai buyer asiatici. Non ci siamo persi d’animo, però, ma immediatamente attrezzati per lavorare in remoto, e abbiamo continuato a piazzare ordini online», racconta. «Certo, non è la stessa cosa: il nostro è un mestiere che vive di appassionati colloqui a tu per tu davanti alla merce, e della possibilità di farla toccare con mano. Ma per sopravvivere a queste settimane critiche, con restrizioni agli spostamenti senza precedenti, la tecnologia a disposizione – da WeChat alle simulazioni di vendita in videoconferenza – si sta rivelando più che sufficiente».
A preoccupare Grassi, più che il crollo di presenze fisiche dei buyer, è un’altra cosa: la tenuta della parte più debole del sistema-moda Italia. «I pesci grandi arrancheranno per un po’, ma si salveranno», prevede. «Durante le crisi del passato, le nostre aziende più consolidate hanno dato prova di grande resilienza, hanno reagito alle onde telluriche del mercato flettendosi, senza mai spezzarsi. Hanno infatti sufficiente potere organizzativo per fronteggiare le emergenze e, se richiesto, consegnare i campionari a tempo di record, lavorando giorno e notte». Diverso, invece, il caso dei tanti giovani stilisti appena affacciatisi sul mercato con piccoli marchi indipendenti. «Tra mille difficoltà, stavano muovendo i loro primi, timidi passi nel nostro ecosistema, contando, per la loro sopravvivenza, su tanto ottimismo e una normale congiuntura economica. Cosa sarà di loro? Se non riceveranno aiuto, rischiamo nei prossimi mesi di assistere a un’ecatombe». Grassi sottolinea che non solo le istituzioni, ma anche l’industria deve dare una mano, a partire dai proprietari di showroom e dai buyer, ai quali lancia un appello. «È comprensibile che in un periodo di crisi si tenda a voler rischiare di meno, puntando su brand affermati, considerati giustamente più sicuri. Ma attenzione: in questo frangente critico ci troviamo tutti, nessuno escluso, davanti alla responsabilità storica di salvare le nuove generazioni di stilisti. Se li perdiamo, perdiamo tutti: consumatori, retailer, e persino i grandi marchi». Un sistema-moda depauperato della loro vitalità – invita a riflettere Grassi – rischierebbe di risvegliarsi, a crisi passata, invecchiato d’un sol colpo, e incapace di fare sognare. «In un momento storico come quello attuale, in cui l’offerta dei grandi è piuttosto omologata, i piccoli marchi emergenti fanno la differenza a livello creativo; sono loro a iniettare linfa vitale, con idee fresche e nuove, a un sistema che da tempo ha grosse difficoltà a suscitare desiderio nel consumatore finale. Se, per giocare sicuro, dimentichiamo l’importanza delle emozioni nel nostro mondo, non solo ci diamo la zappa sui piedi: dimentichiamo cosa è la moda».
A dare speranza, intanto, i venti di ripresa che soffiano dalla Cina, dove la bufera – assicura, dati alla mano, l’imprenditore milanese – si sta placando e la vita commerciale riavviando verso la normalità. «In Asia i volumi degli ordini tornano a crescere, ma la sensibilità dei consumatori si rivela profondamente cambiata. Analizzando i dati delle vendite online di marzo, abbiamo riscontrato un nuovo modo di approcciarsi all’abbigliamento, improntato al “value for money”, al desiderio cioè di acquistare capi che servono, con un buon rapporto qualità-prezzo. Chi conosce i sistemi di mercato sa che questa modalità d’acquisto è tipica dei dopoguerra: i consumatori, ancora frastornati, non tornano immediatamente “a ballare sui tavoli”, ma guardano a capi utili. Il che non significa necessariamente appiattimento o una visione sterile dello stile: basti pensare agli straordinari cappotti e tailleur che, da Dior a Chanel, accompagnarono con il loro bel connubio tra praticità ed estetica la rinascita della moda tra la fine degli anni 40 e l’inizio degli anni 50. Semmai ci dà un’ulteriore conferma che il periodo che stiamo attraversando, anche se non cadono le bombe, è percepito dal mercato come una vera e propria guerra». _____