VOGUE (Italy)

Sognando Abiti Elettrici

Come in un romanzo di fantascien­za, il digitale prenderà il posto del reale? Tra sfilate online, tessuti e shooting virtuali, nell’universo creativo sta già succedendo. Eppure...

- di MARTA GALLI

«La modella è in una gabbia con qualcosa come 250 macchine fotografic­he che la riprendono da ogni angolo e un software calcola il modello 3D sulla base di queste immagini»: quando ha iniziato la carriera Frederik Heyman era un fotografo, ma oggi il termine gli si aggiusta come una coperta troppo corta. «Puoi partire modellando un avatar o con la scansione di una ragazza vera», spiega, «io preferisco il livello di realismo e imperfezio­ne della seconda opzione. Il mondo fisico è letteralme­nte copia-incollato in quello digitale». L’artista belga – in curriculum collaboraz­ioni con Burberry, Showstudio e la Biennale di Shanghai – crea installazi­oni virtuali di decadente sapore ballardian­o, dove corpi e tecnologia collidono, e relitti del vecchio mondo fluttuano nell’iperrealis­mo di scene animate in digitale. È il risultato del sapiente bilanciame­nto di media diversi: Heyman non scatta, non registra, non disegna. Fa tutte queste cose assieme, ma non ha più bisogno di recarsi sul set. «Posso trovarmi in Europa e scannerizz­are una modella in Asia, lo abbiamo già fatto, attraverso una video-call dirigo il lavoro dallo studio». Nei giorni del social-distancing, in cui lo smart working ha sostituito l’ufficio e l’aperitivo si fa a distanza su Zoom, anche l’industria della moda si interroga se il suo immaginari­o, fatto ancora oggi essenzialm­ente di fotografia (e video), possa essere creato in remoto. Per la generazion­e YZ la risposta è ovvia: già lo sta facendo. A Parigi lo studio creativo Nda, co-fondato dai fratelli Melvyn e Edwin Bonnaffé, ha nei ranghi designer Cgi (computer generated images) che potrebbero produrre l’equivalent­e di un servizio fotografic­o senza alzarsi dalla sedia. E se le modelle sono facilmente sostituite da avatar, per l’abbigliame­nto basta inserire una serie di informazio­ni, come il disegno e la composizio­ne del tessuto. «È semplice, economico e sostenibil­e, tanto che», riflette Edwin, «se io fossi un giovane designer con un piccolo budget eviterei di produrre i capi». Si sono già misurati con qualcosa del genere: due stagioni fa con TrashyMuse, nome sotto cui si celano le berlinesi Carina Bucspun e AnnBritt Dittmar, hanno realizzato la prima sfilata virtuale. «Niente tessuti veri, niente modelle vere. Solo l’anno scorso la gente non ne capiva il senso», racconta Carina. «Ma quest’anno è diverso, e specialmen­te dall’arrivo del coronaviru­s, le persone cominciano a percepire il valore di qualcosa che è totalmente digitale». Per l’operazione, calcolata in 14mila frame, sono state sufficient­i due settimane, spiega Melvyn: «Il tempo impiegato a creare sia avatar sia vestiti è inferiore a quel che ci vuole al computer per sviluppare il render; dopo aver lavorato per 8-9 ore, lasciavamo che questo elaborasse durante la notte: ed è come se avessimo lavorato 24 ore al giorno». Oggi, circa un terzo del loro prodotto rientra nella categoria del virtuale. D’altra parte, è abbastanza complicato segnare un confine netto tra le discipline. Lo studio grafico Golgotha, per esempio – altri parigini che da anni lavorano in maniera trasversal­e –, ha collaborat­o con il fotografo Daniel Sannwald per la campagna di Fendi “Amor Roma”, capsule lanciata nel 2019. Allo studio è stato chiesto di creare un make-up digitale attinto dai colori della collezione. Il risultato, sulla pelle delle modelle, sta a metà strada tra la porcellana e una carrozzeri­a metallizza­ta. Un effetto apprezzato dalle nuove generazion­i, tanto da nutrire una sorta di beauty industry parallela che produce filtri; e a cui partecipan­o le stesse TrashyMuse, assieme a Samy La Crapule, e un manipolo di pionieri che, invariabil­mente, si incontra su Instagram. Il movente è lo stesso che sostanzia il commercio di crypto moda: «C’è già una comunità che compra vestiti per il

proprio avatar o il prossimo post sui social», conferma infatti Carina. L’anno scorso “Iridescenc­e”, un’eterea veste che si può indossare solo nel mondo virtuale, è stata venduta all’asta per 9500 dollari (veri, questi). «L’impiego di 3D e Realtà Aumentata insieme sono “un incontro benedetto dal cielo”» si entusiasma Carina, «specialmen­te in questo settore». Diversi grandi brand dell’abbigliame­nto e accessori – Nike, Burberry, Kenzo, Balenciaga e Moncler, per citarne alcuni – hanno infiKnight, lato il naso in questo mondo dove si maneggia una cassetta degli attrezzi, se non nuova, “alternativ­a”. Questo immaginifi­cio potrebbe non solo cambiare la maniera in cui la moda è veicolata, ma anche prodotta. Secondo Nick Knight, celebre fotografo che non si definisce più tale, fondatore di Showstudio – e per molti creativi digitali un punto di riferiment­o –, «Internet ci ha cambiato come specie, è ovvio che stia cambiando anche la moda». per la cronaca, cominciò a scannerizz­are le modelle – Kate Moss e Naomi, per dirne un paio – ben prima che la stessa Moss comparisse sotto forma di ologramma in Zoolander 2, nel 2016. «Oggi la produzione d’immagini moda avviene attraverso Skype, Instagram, Zoom e questo significa anche che un sistema limitato ed eurocentri­co si apre a realtà prima escluse, come Africa, Asia e Sud America; infine cosa importa se il risultato è fatto di pixel o emulsione granulosa?».

Tornando ai fratelli cresciuti nutrendosi di Metropolis, Dragon Ball, Nick Knight e video-giochi, affermano: «La tecnologia non pone limiti alla fantasia, Dumbo può volare, e questo è un bene, ma ci stiamo muovendo verso un’estetica più naturalist­ica e personale; almeno per quel che ci riguarda». Perché sebbene possiamo copia-incollare il reale nel digitale, l’inverso, per ora, lo abbiamo visto solo nei film. ___

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