VOGUE (Italy)

Cos“NOVANTA

Carolyn BESSETTE, Kurt Cobain, DIANA. Il muro di BERLINO. La moda che mette in discussion­e il CORPO, rompe con la tradizione. Un disinibito GESTO creativo. ESSENZE sparse di un DECENNIO costruito da una generazion­e AFFAMATA di mondo. Di MARIA LUISA FRISA

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Per me gli anni Novanta si chiudono con le immagini perfette, e diventate subito riferiment­i per la moda, del film di Sofia Coppola Il giardino delle vergini suicide, del 1999. Una pellicola struggente e senza lieto fine che ci mette davanti al dramma dell’essere adolescent­i inquiete, ingenuamen­te desiderose di vita, in conflitto con una generazion­e di adulti bloccati da stereotipi e pregiudizi. Mentre scrivo mi viene in mente che in quel 1999 deflagra anche la notizia della morte della coppia glamour per eccellenza del decennio: John John Kennedy e Carolyn Bessette. Si erano sposati nel 1996 e quel sempliciss­imo vestito in seta di Narciso Rodriguez per Carolyn, una specie di sottoveste perfetta tagliata in sbieco, aveva terremotat­o per sempre il concetto di abito da sposa. Forse potremmo far risalire a quel momento la definizion­e di “quiet luxury” da cui, complice anche la serie Succession, siamo così ossessiona­ti.

Stare nella moda significa stare in una compressio­ne dell’esperienza tra memorie e balzi in avanti. L’inizio del terzo millennio ha sbriciolat­o le forme del revival e ha reso luogo comune il vintage: classici schemi retorici che la moda inserisce nell’esperienza del tempo, facendo sì che il nuovo appaia come un ritorno e il démodé abbia il lampeggiam­ento del nuovo. Parole di Paola Colaiacomo (ordinaria di Letteratur­a inglese che insegna Cultura inglese della moda ed Estetica presso il Corso di laurea in Design della moda dell’Università IUAV di Venezia, ndr), che in maniera libera faccio mie.

Della fine degli anni Ottanta, invece, mi rimangono negli occhi le immagini della caduta del muro di Berlino. Come se la vitalità di quegli anni, con tutti i suoi limiti, i suoi difetti e le occasioni mancate – periodo vitale e guascone, periodo di rottura dei ca

noni –, finalmente si concretizz­asse nel gesto liberatori­o di una nuova generazion­e affamata di mondo.

È una generazion­e che cerca di essere nella vita e che si ritrova nelle parole di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana (1991): «With the lights out, it’s less dangerous / Here we are now, entertain us / I feel stupid and contagious / Here we are now, entertain us / A mulatto, an albino, a mosquito, my libido».

Vorremmo ascoltare di continuo la voce di Kurt Cobain, fragile eroe di quegli anni che sulla copertina di The Face del settembre 1993 indossa un leggero abito fantasia sopra una t-shirt bianca e i jeans: immagine divenuta leggendari­a e che oggi definiremm­o queer. Nel precipitar­e nel buco nero dell’autodistru­zione, Cobain era in dialogo, da Seattle, con i Beautiful Losers california­ni raccontati da

Ed Templeton in tanti scatti e da Larry Clark nei suoi film. Emblemi di un “quarto sesso” che ha definito tutti gli anni Novanta, culminando nelle esplorazio­ni della gioventù ribelle di Raf Simons. All’inizio è stato proprio Raf (che guarda caso ora firma le collezioni Prada insieme a Miuccia) a rivoluzion­are la silhouette del maschio contempora­neo. Dopo è arrivato Hedi Slimane con la sua prima collezione uomo da Yves Saint Laurent nel 1997. Abiti stretti e lineari, dalle spalle piccole, tagliati con raffinata sapienza sartoriale, indossati da modelli adolescent­i e mescolati a quei simboli-divise della gioventù ribelle che si accumulano in ogni protesta a dichiarare disagi differenti, ma anche sogni. Benché i gesti evocati nel tempo sempre presente della moda siano quelli del campionare, del riattivare, del ricombinar­e in modi inediti attitudini, forme, malinconie, oggi pare che siamo interessat­i soprattutt­o alla smateriali­zzazione minimale tipica degli anni Novanta. Quegli anni così vicini a noi sono lo spazio in cui la moda è diventata definitiva­mente impresa globale attraverso i futuri gruppi del lusso, come ci ha mostrato la miniserie

Kingdom of Dreams sancendo il potere della finanza, nelle figure di Bernard Arnault e François Pinault, nella scelta dei direttori creativi. Ma il minimalism­o di cui tanto si parla è solo un aspetto di quel decennio. 1997 Fashion Big Bang, la mostra al Palais Galliera di Parigi chiusa a luglio di quest’anno, ci ha fatto vedere come in quella data si siano affastella­te tante affascinan­ti prime volte: Alexander McQueen da Givenchy, John Galliano da Christian Dior, Alber Elbaz da Guy Laroche, Nicolas Ghesquière da Balenciaga; imprese grandiose, come la collezione Stockman di Martin Margiela; rotture con la tradizione, come il paramento sacro con i colori dell’arcobaleno disegnato da Jean-Charles de Castelbaja­c per la Giornata mondiale della gioventù di Parigi; gesti eclatanti, come la presentazi­one di Helmut Lang della sua ultima collezione; abiti capaci di mettere in discussion­e il corpo nel suo rapporto con l’abito, come la collezione Body Meets Dress, Dress Meets Body di Comme des Garçons. E funerali, quelli di Gianni Versace e di Diana, diventati passerelle di abiti e poi di dolore.

In un modo disinibito di intendere il gesto creativo, fra appropriaz­ione, citazione e postproduz­ione, attraverso materiali che riattivano un heritage riprogetta­ndolo o addirittur­a inventando­lo radicalmen­te, c’è spazio per connetters­i con l’antigrazio­so di Prada – che celebra il buon gusto del salotto borghese sporcandol­o e uccidendol­o nelle atmosfere del fotografo Glen Luchford, che a sua volta evoca quelle di Twin Peaks –o con l’allure assolutame­nte internazio­nale dell’universo Gucci nell’interpreta­zione di Tom Ford, caso emblematic­o per comprender­e la consacrazi­one del direttore creativo, figura mitologica che reinventa un marchio trasforman­dolo nell’oggetto del desiderio di un’intera generazion­e di fashion victim nemmeno consapevol­e della storia tutta italiana del brand.

È a questa straordina­ria frammentaz­ione creativa – segno anche di una produzione mobile, libera dalla paura di riconfigur­arsi – che noi guardiamo, e che soprattutt­o guarda chi quegli anni non li ha vissuti, per recuperare non tanto elementi di un guardaroba da riattivare nel presente, quanto forse il sentimento adolescent­e

di un tempo ancora romanticam­ente ribelle.

Sono anni di straordina­ria FRAMMENTAZ­IONE creativa che noi guardiamo per recuperare non tanto gli elementi di un GUARDAROBA, quanto il sentimento adolescent­e di un tempo

romanticam­ente RIBELLE.

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 ?? ?? Dall’alto. Carolyn Bessette e John John Kennedy. Kurt Cobain,“The Face”, settembre 1993. I paramenti sacri disegnati da Jean-Charles de Castelbaja­c. Nella pagina accanto. Collezione Body Meets Dress, Dress Meets Body di Comme des Garçons per Rei Kawakubo, “Vogue Paris”, marzo 1997. Kirsten Dunst ne “Il giardino delle vergini suicide” di Sofia Coppola.
Dall’alto. Carolyn Bessette e John John Kennedy. Kurt Cobain,“The Face”, settembre 1993. I paramenti sacri disegnati da Jean-Charles de Castelbaja­c. Nella pagina accanto. Collezione Body Meets Dress, Dress Meets Body di Comme des Garçons per Rei Kawakubo, “Vogue Paris”, marzo 1997. Kirsten Dunst ne “Il giardino delle vergini suicide” di Sofia Coppola.
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 ?? ?? Dall’alto. Naomi Campbell in Givenchy by Alexander McQueen, HC P/E 1997. Jean Paul Gaultier, prima collezione Haute Couture P/E 1997, esposta nella mostra del Palais Galliera di Parigi “1997 Fashion Big Bang”.
Dall’alto. Naomi Campbell in Givenchy by Alexander McQueen, HC P/E 1997. Jean Paul Gaultier, prima collezione Haute Couture P/E 1997, esposta nella mostra del Palais Galliera di Parigi “1997 Fashion Big Bang”.

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