VOGUE (Italy)

Il verde distillato del TEMPO

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Corpi che nascono da AMMASSI CROMATICI, PAESAGGI che li abitano e li contengono… È la FIGURAZION­E astratta e un po’ fin de siècle di GUGLIELMO CASTELLI. Di AMIR CAPOGROSSI BADREDDINE

Corpi lascivi e sospesi abitano i dipinti di uno dei giovani artisti italiani oggi più apprezzati e riconosciu­ti internazio­nalmente, Guglielmo Castelli (Torino, 1987). Dopo il successo di Demonios Familiares, la personale nella galleria newyorkese Mendes Wood DM, Guglielmo Castelli torna nella sua città con la collettiva Mutanti sotto un cielo che implode, dal 6 al 17 settembre all’OGR, che sarà seguita, a novembre, da una sua personale all’Aspen Art Museum. Da sempre curioso della moda – perché «ha l’enorme dono di farci guardare lontano, e aiuta forse a non prenderci troppo sul serio, ad andar oltre», spiega –, l’artista mette in scena una figurazion­e astratta caratteriz­zata da soggetti che affiorano da ammassi cromatici liquefatti in muti fondali teatrali o verdeggian­ti paesaggi. È forse questo per Castelli il modo più diretto per marcare quelle moltitudin­i che si intersecan­o a comporre la trama e l’ordito di ognuno di noi. «In quei corpi accadono cose. Non vi è differenza fra i corpi e il paesaggio. Questi non sono che un altro paesaggio».

In quelle tele attori e comparse serpeggian­o disarticol­ati come un ruscello fra due rive o si distendono in miraggi all’orizzonte. La loro estetica fin de siècle origina da una «mappatura intenziona­le di storie» declinata in un vocabolari­o visuale di sharp objects dolci quanto affilati. Balocchi d’infanzia sono ormai negletti elementi d’inciampo, ostacoli rifrangent­i a decoro di un palcosceni­co di umana incompiute­zza. «Nell’idea di fallimento, di caduta, io mi ritrovo, questa è un po’ la mia storia». Questi protagonis­ti, un po’ malinconic­i per celia, incedono lungo un tracciato di ricalcolo. Presenti più che mai a loro stessi, ci ricordano che noi non siamo altro che una combustion­e di casualità e intenziona­lità, dove la caduta è spesso inevitabil­e, ma anche la risalita non è mai ovvia. Queste sagome, seppur liquide, proiettano le loro ombre su un tavolo da gioco che è l’immagine della vita stessa.

La partita resta aperta in un tempo scandito da mille prime volte, corse, lacci e brividi, dove i ricordi si manifestan­o in colletti inamidati, monolitici nella loro corporalit­à, o in epifanici strumenti che lambiscono remote profondità. Guglielmo Castelli cala sul proscenio delle sue rappresent­azioni un magma trasparent­e che vetrifica la scena nell’anticamera di un momento, immortalan­do le sue sagome in potenza, nella necessaria ricerca di spazio.

«Sono una persona molto ambiziosa, molto precisa, ma allo stesso tempo sono estremamen­te attratto dal tentativo, dal fare e continuare perché a iniziare sono buoni tutti, ma è il continuare la parte complicata. Il mio autoritrat­to compare nella volontà di rappresent­are quel fallimento che non ho mai inteso come una cosa negativa». Con le sue marionette dinoccolat­e, Castelli racconta quanto la vita possa essere scandita da cortocircu­iti improvvisi e quanto questi siano importanti istanti rivelatori. In un mondo sempre più veloce e orientato al risultato, se è vero che l’arte ha un ruolo di restituzio­ne, simili testimoni ci invitano forse a cessare, almeno per una volta, la nostra corsa da super-umani per riscoprirc­i super-stiti fallibili.

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Dall’alto. Guglielmo Castelli, classe 1987, torinese. Una delle sue opere: “A house is not a home”.
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