L’ESEGESI DEL DESIGN
PERLA CURATRICE DEL MO MA DI NEW YORK, È QUASI UN SOSTITUTO DELLA RELIGIONE: CI AIUTA A TROVARE FINALITÀ CHE ATTENGONO ALLA NOSTRA ESPERIENZA E( LIMITATA) ESISTENZA
Il design è oggi una delle più alte espressioni dell’ingegno e della creatività umana. Non si tratta di stile ma di un elemento e di un’attitudine in grado di trasformare radicalmente la nostra identità e la realtà che ci circonda. Non a caso, secondo Paola Antonelli – senior curator del dipartimento di Architettura e Design e direttrice Research & development al MoMA di New York, il più importante museo d’arte moderna al mondo – quella del designer sarà la figura professionale sempre più capace di interpretare, risolvere creativamente e “dare un senso” alla complessità contemporanea. Al pari del filosofo o del fisico teorico, a lui spetterà il compito di immaginare un futuro plausibile e, se possibile, sostenibile: l’avvento della cosiddetta “Singolarità” (cioè il punto in cui il progresso tecnologico accelera oltre la capacità degli esseri umani di comprendere e prevedere) è destinato a condannare la nostra specie all’estinzione, ma il design ci permetterà almeno di progettare una fine un po’ più aggraziata.
Quali sono i territori in cui oggi il design esprime le sue maggiori potenzialità e influisce in modo concreto sulla qualità delle nostre vite? «Non ce ne sono alcuni che prevalgono su altri, direi. Però una cosa è certamente vera: il percorso che ha portato il design a emanciparsi sempre più da quello che potremmo definire “lo strapotere del mobile” è ormai irreversibile, per fortuna. I mobili e questo tipo di approccio esistono ancora, ovvio; esiste però anche uno spazio completamente nuovo e diverso. È quello digitale, così dinamico e pluridimensionale: dal design dell’interazione e delle interfacce, della relazione uomo-macchina fino alla visualizzazione dei dati e al rapporto sempre più stretto e dialettico con la ricerca scientifica. Quindi quello di oggi è un tipo di design che ha sì bisogno di conoscere la manualità e la fisicità del disegno, la sua anima grafica ma che, allo stesso tempo, ha la necessità di elaborare in modo sempre più consapevole la materia architettonica e di costruire un nuovo senso dello spazio: superando cioè la tridimensionalità ed esprimendosi in un contesto multidimensionale, così come la fisica e la matematica hanno fatto da Albert Einstein in poi. Penso ai nuovi ambiti che presuppongono e richiedono una collaborazione con gli scienziati, per esempio il biodesign. Penso anche a tutti quegli approcci progettuali che impattano in modo diretto oppure indiretto sulla natura e i comportamenti dell’essere umano, influenzando la nostra etica o costruendo una relazione con la realtà basata su principi di sostenibilità ambientale». Stampa 3D, robotica e intelligenza artificiale, sempre più accessibili, stanno trasformando in maniera profonda e trasversale la professione del designer. Secondo alcuni storici della tecnologia, noi stiamo vivendo un momento irripetibile ed eccezionale dell’evoluzione umana. Saremo infatti la generazione che assisterà alla realizzazione della “Singolarità”, il momento in cui il progresso tecnologico accelererà oltre la capacità di comprendere e prevedere degli esseri umani. È d’accordo con questo scenario? «Siamo una specie in via di estinzione, credo nella Singolarità e credo che il design ci possa aiutare a progettare una fine un po’ più aggraziata. In questo modo, forse, chi verrà dopo di noi non ci ricorderà come degli idioti completi. Si tratta di una discussione profondamente esistenziale, perciò molto, molto concreta. Cosa facciamo al mondo? Perché esistiamo? Dove andiamo? Cosa mai può fare il design, se non aiutarci a sopravvivere? Secondo me è quasi un sostituto della religione, visto che ci aiuta a trovare finalità che hanno a che fare con la nostra vita, con la nostra esperienza ed esistenza limitata. Nel lungo termine noi rappresentiamo solo un piccolo granello di sabbia e il design ci aiuterà a definire come la nostra impronta verrà tramandata nella lunga linea della storia dell’universo».
Parliamo del suo lavoro al MoMA come curatrice. Dove va a reperire quegli oggetti, concreti o astratti che siano, che possono costruire un possibile percorso espositivo e di indagine? Quali sono i suoi luoghi di ricerca? «Ce ne sono talmente tanti che è di cile persino elencarli. La mia metodologia di ricerca è praticamente sempre la stessa; solo che, rispetto al passato, ci sono tanti più canali. Ho sempre gettato in mare una rete molto grande per tirare a bordo quanti più pesci possibile; poi, con calma, ributto in acqua quelli che non servono. Dall’iper-accumulazione all’iper-selezione. Mi focalizzo su ciò che desidero comunicare e continuo a rimodellare i miei strumenti; il criterio che mi ispira consiste nel far emergere in maniera chiara ed elegante i concetti che ritengo urgenti. Anche le fonti di ispirazione sono molteplici: la strada, i viaggi, le riviste, lo studio, le pubblicazioni online, i social media, le persone. Quello della ricerca, insomma, è un territorio che non necessita di confini». Negli ultimi anni ha concentrato molte delle sue riflessioni sul rapporto fra design e violenza. Se il design può aiutare ad accrescere la nostra consapevolezza e a diventare “cittadini migliori”, in quale modo questo processo virtuoso può realizzarsi quando parliamo, per l’appunto, di violenza? « A mio avviso il design, anche nei suoi aspetti più negativi e ambigui, ha a che fare con la nostra esistenza profonda, quindi nella mia ricerca come nell’attività cerco sempre di far emergere e di analizzare questa intima, articolata connessione. Ricordo quando, qualche anno fa, venne annunciato che Cody Wilson, un ragazzo di venticinque anni, aveva realizzato Liberator, la prima pistola funzionante stampabile in 3D. Fui sorpresa, allora, che ci potesse essere un utilizzo malvagio di una tecnologia così “innocua”».
Una reazione un po' ingenua, forse? «Sì, lo ammetto. Così come lo è pensare che il design sia sempre positivo. Mi sono quindi messa a fare ricerca e a studiarne quello che potremmo definire “il lato oscuro”. Nello stesso periodo, inoltre, era stato pubblicato The Better Angels of Our Nature, libro di Steven Pinker secondo cui, rispetto al passato, la violenza è in calo e quella che stiamo vivendo è probabilmente l’era più pacifica della storia. Mi sono chiesta come fosse possibile. Forse è la violenza che è cambiata? Se così fosse, allora, in quale modo? Questi eventi in me hanno stimolato la curiosità, il desiderio di comprendere. Perciò, come faccio sempre, ho stilato insieme al mio co-curatore e “complice” Jamer Hunt una lista che raccogliesse tutti quegli oggetti che potevano avere un qualche rapporto con la violenza. Poi abbiamo avanzato al MoMA una proposta di allestimento di una mostra sul tema che alla fine, purtroppo, non è stata approvata. Piuttosto che demoralizzarci, Jamer e io abbiamo iniziato a pensare a un’alternativa, convinti che si trattasse di un’idea troppo importante per desistere. Non avendo fondi a disposizione abbiamo quindi deciso di trasformare il progetto in un sito web intitolato Design and Violence. Un portale Wordpress molto semplice, dove ogni due settimane presentavamo un oggetto della nostra ricerca accompagnato da un breve saggio scritto da uno studioso, un artista
o una personalità che avesse l’autorevolezza, la competenza e la capacità critica per trattare un argomento così complesso. Solo una cosa accomunava tutti gli articoli: ogni post, ogni storia legata a un oggetto, si concludeva con una domanda rivolta ai visitatori del sito. Questo semplice escamotage ha contribuito ad allargare ancora di più il lavoro sia di analisi che di ricerca, coinvolgendo direttamente i lettori, invogliandoli a partecipare, a discutere in modo da far emergere quella che potremmo definire una conoscenza collettiva».
Da quale oggetto avete iniziato? «Da un profumo. Credo che anche le fragranze rappresentino una forma di design. In questo caso, per il primo post, abbiamo scelto un lavoro di Sissel Tolaas, chimica ed esperta di essenze. In collaborazione con il fotografo Nick Knight, ha realizzato la boccetta che contiene “il profumo della violenza”, estratto da campioni di sudore raccolti tra i combattenti di cage fighting. Il commento, invece, l’abbiamo a dato ad Anne-Marie Slaughter, professoressa di Scienze politiche e relazioni internazionali all’università di Princeton e presidente della New America Foundation. Lei ha concluso la sua brillante analisi con una domanda: “La violenza è maschile?”; ciò ha generato sul sito, per le due settimane successive, un dialogo molto attento e partecipe. Nel corso dei mesi abbiamo poi a rontato e approfondito, in rete, una grandissima quantità di temi e argomenti: dalla pena di morte all’eutanasia, dalla mutilazione genitale femminile fino al caso del Miracle Rice e della Rivoluzione Verde e al rapporto fra design genetico ed evoluzione. Sono ancora sorpresa dalla quantità di contributi e osservazioni che abbiamo ricevuto dai lettori, dalla qualità del confronto. Come curatori, crediamo erroneamente che la galleria e il museo siano comunque i luoghi giusti in cui realizzare i nostri programmi. Grazie a un’esperienza di questo tipo, dopo aver testato le potenzialità del digitale e la sua capacità di ricalibrare il rapporto tra il pubblico e le istituzioni, è venuto naturale chiedermi: dove mai avrei potuto dar vita a un dibattito del genere? Design and Violence sarebbe stato inimmaginabile solo un decennio fa. Ci sono state ulteriori evoluzioni del progetto, in seguito. «Sì, la nostra identità digitale ci ha permesso di appropriarci di un’identità fisica, materiale, concreta: infatti l’esperienza del sito si è trasformata in un libro, i temi discussi sono diventati occasione di incontri e conferenze di approfondimento al MoMA. La Science Gallery di Dublino, infine, si è oerta di realizzare la mostra nei propri spazi, mantenendo da un lato il frame concettuale da noi individuato e integrando dall’altro alcuni dei “nostri” oggetti con elementi legati alla storia e alla cultura irlandese. Ho trovato questa metodologia, cioè la possibilità di realizzare un contenuto culturale capace di avere un respiro universale, molto stimolante. Perché la violenza può trasformarsi in base alle peculiarità e alle caratteristiche locali, alla percezione o alla storia di una nazione, di una comunità».
Quindi un oggetto di design è un oggetto multiculturale, un oggetto che agisce sul contesto e contemporaneamente ne è agito. Non si corre il rischio che poi alla fine valga tutto? «Che non si trovi più un punto di riferimento? Non trovo che questo sia un problema. Ho studiato Architettura e non ho mai lavorato come architetto; ho fatto la giornalista, l’insegnante, ho realizzato libri e video. Si tratta di piattaforme molto diverse per uno stesso messaggio: cercare di condividere, con un pubblico il più vasto possibile, quanto il design sia la forma più alta di creatività umana. Ho questa questa convinzione e voglio comunicarla. Che sia in classe, in una galleria o su internet, cambia al massimo il pubblico di riferimento, per cui non mi creo problemi. Come si fa ad avere dei punti di riferimento? Ecco, credo che questo sia il mio compito principale come curatrice: far sì che qualsiasi persona possa esaltare e aguzzare il proprio spirito critico in modo da giudicare ogni situazione in maniera istantanea, piuttosto che avere regole predisposte per aree predeterminate che non esistono più. Far sì che in qualsiasi momento quella persona possa criticare, analizzare e capire la situazione. Non c’è bisogno di sapere che si è architetti, designer, curatori o altro. Quando ti trovi in una situazione in cui si presenta la necessità di una capacità progettuale che va oltre il dover scrivere una semplice didascalia, agisci».
Come crede dunque che si trasformeranno, o che si stiano trasformando, la figura e il ruolo del designer? «Sarà sempre più la figura professionale capace di interpretare, risolvere creativamente e dare un senso alla complessità contemporanea. Succederà un po’ come accaduto nella fisica: ci saranno i teorici e gli sperimentali. C’è tantissima tensione tra questi due profili in campo scientifico, mi auguro che ciò non accada anche qui; credo però che quella sia la direzione verso cui ci muoviamo. Ci saranno designer che applicheranno la propria conoscenza a diverse aree specifiche: mobili, videogiochi, interfacce degli sportelli bancari e così via; ce ne saranno invece altri, i teorici, che diventeranno le persone da consultare ogniqualvolta sarà necessario prendere decisioni che attengono alle sfere emotiva, sociale e politica degli essere umani, al loro rapporto con macchine e natura. Rappresentano le figure dotate di maggiore consapevolezza della dimensione profonda, al pari dei filosofi – e via via se ne stanno rendendo conto tutti, anche gli industriali e i politici. Quindi, secondo me, diverranno sempre più il punto di riferimento ogni volta che ci saranno da indicare strade che coinvolgono gli esseri umani, sia a livello individuale sia collettivo».
Si riferisce al Design Thinking? « Assolutamente no. È una disciplina molto interessante però non è design, neanche il design teorico di cui sto parlando. Ciò a cui mi riferisco è più vicino alla filosofia; non si tratta di una metodologia bensì della creazione di teorie che interpretano e rendono significativa la realtà. Penso per esempio all’economia comportamentale, che è nata negli anni ’70 e ha rappresentato “un’iniezione di design” nell’economia. Prima di passare alla facoltà di Architettura, ho fatto due anni di Des, Discipline economiche e sociali, all’università Bocconi. A quei tempi non c’erano behavioral economics, c’erano regole, c’era la teoria del consumatore, curve di indi erenza, il modello di Leontief. Per la mia mente limitata e per nulla astratta, era tutto così lontano dalla realtà degli esseri umani che non riuscivo a venirne a capo, per cui ho deciso di cambiare. Comunque sia, credo che un po’ di quei rudimenti teorici mi siano rimasti e, quando prendo in mano i libri di economia comportamentale, mi sembra di ritrovare proprio quello che allora cercavo: l’approssimazione della teoria alla realtà, mediata dalla conoscenza dei nostri limiti e delle nostre capacità. Qualche anno fa ho realizzato una mostra sul rapporto tra design e scienza, proprio in quell’occasione ho imparato che sono i designer a rendere le rivoluzioni scientifiche e tecnologiche realtà e vita ».
In che senso? «L’innovazione non esisterebbe senza il design. Tu puoi scoprire le microonde ed essere un bravo ingegnere che comprende come usarle per cuocere i cibi; ma senza qualcuno che progetta il forno – l’interfaccia, in altre parole – nulla succede. Internet era un immenso insieme di codici incomprensibili e indecifrabili ai più, fino a quando i designer del National center for supercomputing applications non hanno sviluppato Mosaic, il programma di navigazione che ha permesso a tutti di accedere alle potenzialità del web. I designer sono quelli che traducono in realtà le grandi rivoluzioni: gli scienziati fanno gli scienziati, gli ingegneri fanno gli ingegneri, i politici i politici, i designer… mediano».
Parlando di confini, ma da un altro punto vista: c’è ancora una questione di genere nel mondo del design? «Esiste una questione di genere nel mondo, punto. Nel design, nel mondo dei musei, in quello dell’arte come nel mondo mondo. Sì, lentamente ci stiamo avviando verso il superamento di questo limite, ma il problema continua a esserci e servirà parecchio tempo». Per la collezione permanente del MoMA, lei avrebbe voluto acquistare un Boeing 747. Perché? «L’idea non era tanto di acquistarlo ma di far sì che sembrasse parte della nostra collezione. Mi spiego, al MoMA è già presente un oggetto non totalmente integrabile all’interno di una raccolta museale: il segno @. Un simbolo che, se da un lato appartiene a tutti, dall’altro appartiene anche a noi come istituzione culturale, nel momento in cui lo esponiamo su un muro. Da un punto di vista curatoriale si abbandona il principio secondo cui il possesso fisico di un oggetto è il requisito necessario per la sua acquisizione. Per quanto riguarda il Boeing, la mia idea era di prendere un 747 che appartenesse già a una linea aerea, che fosse funzionante e operativo, che magari facesse scalo a New York; quindi di marchiarlo e identificarlo per renderlo riconoscibile esattamente come succede per tutti gli oggetti che appartengono alla collezione e all’archivio delle opere del Museum of Modern Art. Avevo già iniziato a verificare, insieme alla Federal aviation administration, tutte le procedure da seguire per inserire sulla coda il numero di collezione dell’opera, cercando inoltre di immaginare un modo per realizzare carte di imbarco speciali. Il desiderio era di dar vita a un vero e proprio cerimoniale, attraverso la celebrazione di un capolavoro di design impossibile da trattenere all’interno di un museo; un capolavoro in grado di connettere e di superare, attraverso il volo, i nostri confini fisici e mentali».