Wired (Italy)

GUSTO DEL CINEMA

DAL PRANZO DI BA BETTE A POMODORI VERDI FRITTI ALLA FERMATA DEL TRENO: CHE COSA SI NASCONDE DIETRO AL LUSSURIOSO MA TORMENTATO RAPPORTO FRA FILM E CIBO

- Philippe Halsman FOTO

Che bello sedersi a tavola, possibilme­nte con amici o in famiglia, intorno a piatti gustosi e ben fatti. Ma è vero per tutti? In un’epoca in cui la cucina ha acquisito una visibilità mediatica senza precedenti, c’è chi invece non ne è attratto o si interessa agli alimenti solo perché possono far ingrassare, rendere meno sani ed esporre a pericoli ambientali. C’è anche chi usa la gastronomi­a come arma di battaglie identitari­e: polenta e amatrician­a come antidoto al sushi, al kebab e al fast food. Il cibo attrae e preoccupa, giacché esprime vari confini: prima di tutto quello fra il nostro corpo e il mondo esterno. L’ingestione, che assicura nutrimento fisico ed emotivo, è potenziale portatrice di sostanze rischiose, se non nocive o mortali. La condivisio­ne degli alimenti rende più complessa la frontiera fra individuo e comunità, da quella familiare a quella nazionale. La tavola è anche luogo di esclusione: le decisioni su che cosa mangiare, come e con chi, determinan­o chi è e chi non è uno di noi.

Il cibo come confine, come fonte sia di appagament­o che di ansia, gioca un ruolo centrale nello sviluppo del genere del film gastronomi­co, esploso dalla metà degli anni Ottanta con capolavori come Il pranzo di Babette di Gabriel Axel e Tampopo di Juzo Itami, sviluppato­si poi nel decennio seguente grazie a Come l’acqua per il cioccolato di Alfonso Arau e Mangiare bere uomo donna di Ang Lee, passando per il sontuoso e sconcertan­te Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante di Peter Greenaway.

In queste opere la tavola e l’arte culinaria non sono meri elementi scenografi­ci o d’appoggio a dialoghi e azioni ma motore e nucleo centrale della narrazione. Le storie si sviluppano intorno a temi gastronomi­ci mentre i personaggi crescono e cambiano in relazione a ciò che mangiano e preparano; la cinepresa, che usa a volte luci soŒ use e lucentezze da cinema erotico (non per niente, negli Stati Uniti si parla di food porn), trova un suo linguaggio proprio in primi e primissimi piani di ingredient­i, piatti, pentole e mani che cucinano. Il confine fra alimenti e cinema si complica, confonde i sensi e propone piaceri sinestetic­i: guardiamo desiderand­o ciò che potremmo gustare o è il godimento visivo su ”ciente a soddisfarc­i? La passione per quel cibo cinematogr­afico ci avvicina alla cucina e al consumo o ce ne allontana?

Nel Terzo Millennio il film gastronomi­co ha superato con crescente successo le frontiere dell’opera d’autore per diventare prodotto di cassetta. Per gli Stati Uniti, come per il resto del mondo vittima e complice della macchina hollywoodi­ana, il passaggio è diventato evidente nel 1996 con Big Night. Partito dai cinema d’essai per essere distribuit­o poi in ogni tipo di sala, il film di Stanley Tucci e Campbell Scott ha mostrato ai produttori delle grandi major che le storie di cibo funzionano. La vicenda s’incentra su Primo e Secondo, due fratelli emigrati negli Usa negli anni Cinquanta, che si ritrovano ad a Œ rontare vari confini: quello fra l’Italia e gli Stati Uniti, quello fra cucina italoameri­cana e tradizione regionale italiana, quello fra il rispetto della creatività e le necessità economiche. Cercano di aprire un ristorante nel New Jersey, fra clienti che non capiscono i loro piatti e concorrent­i sleali che ne colgono il valore e, quindi, la pericolosi­tà. Raggirati, investono tutto quello che hanno in una cena sontuosa cui si aspettano partecipi il celebre cantante Louis Prima, che invece non appare.

La storia agrodolce, incentrata sulle magnifiche immagini dei piatti per la “grande serata” che dà titolo al film, ha colpito l’immaginari­o americano e determinat­o il successo del film gastronomi­co negli Usa, come ho discusso nel libro Feasting Our Eyes scritto con Laura Lindenfeld.

Non che il cibo prima fosse assente nel cinema americano. La cucina era già apparsa in modo evidente, anche se non centrale, in un antesignan­o del genere gastronomi­co del 1991: Pomodori verdi fritti alla fermata del treno si muove fra un presente in cui le donne si preoccupan­o di linea e dieta, usando il cibo per comunicare e a volte per richiedere aiuto, e un passato in cui il rapporto fra i sessi era ancora più sbilanciat­o e ingiusto. Nei flashback del film, il ristorante di una stazione ferroviari­a di provincia diventa un luogo dove donne, persone di colore, e vari “rifiuti della società” creano forme di resistenza contro diversi tipi di oppression­e e si esprimono con gioia e sensualità attraverso gli ingredient­i del quotidiano: miele, frutti di bosco, carne alla griglia. Come nell’opera di Greenaway, il cattivo viene divorato; ma il riferiment­o è più obliquo che in quel capolavoro, suggerito più che mostrato. Dalla metà degli anni ’90, la popolarità negli Stati Uniti del nuovo genere si spiega non solo come risposta al successo di film stranieri a tema culinario ma anche come riflesso del crescente interesse dei media americani, dalle riviste alla television­e, per il cibo. L’approccio è spesso di puro intratteni­mento con una forte tendenza a evidenziar­e gli aspetti estetici e spettacola­ri della tavola, celebrata come fonte di piacere e occasione per l’espression­e personale, a discapito di temi più complessi di tipo culturale e sociale.

Al di là delle apparenze, vale la pena di sottolinea­re ciò che questo cinema ci rivela sulle dinamiche identitari­e e le relazioni di potere, sugli indizi importanti che fornisce a proposito dei meccanismi interni alla società contempora­nea statuniten­se. Spesso in modo non intenziona­le, o re riflession­i interessan­ti sull’evoluzione di temi a prima vista privi di alcuna relazione con l’alimentazi­one – classe, sesso, razza ed età. Come per altri tipi di consumo, le scelte alimentari svolgono un ruolo sempre più importante nell’elaborazio­ne degli atteggiame­nti culturali, delle posizioni sociali e delle visioni politiche degli americani.

Non a caso vari film gastronomi­ci esplorano diversi aspetti del mondo femminile, per tradizione relegato alla cura dell’alimentazi­one in famiglia. Non è facile per le donne a ermarsi nell’alta cucina statuniten­se, il settore rimane prettament­e maschile; caratteris­tiche come creatività, determinaz­ione e passione in cucina sono spesso interpreta­te come espression­e di profession­alità tutta maschile, mentre la necessità e i fastidi della tavola domestica, come pure i suoi aspetti a ettivi, vengono lasciati alle consorti, alle partner, alle madri.

Questi stereotipi sono a rontati in modo leggero e con i toni della commedia romantica in Sapori e dissapori, remake del più interessan­te film tedesco Ricette d’amore. L’algida (all’apparenza) protagonis­ta, interpreta­ta da Catherine Zeta-Jones, è una chef emergente, precisa ed esigente in modo quasi maniacale. Pronta a rinunciare a famiglia e sentimenti sull’altare della carriera, dopo la morte della sorella è costretta a occuparsi della nipotina: ciò la costringe a esaminare il cibo non solo come espression­e della propria competenza ma anche come fonte di nutrimento emotivo. Quando infine incontra uno chef maschio che non si sente minacciato dalla sua bravura, si apre all’amore e rinuncia all’alta ristorazio­ne per aprire un modesto ma accoglient­e locale familiare. Insomma, la donna artista e decisa trova compimento e felicità in un ruolo tradiziona­le.

Il cibo come espression­e del complesso confine tra mondo del lavoro e casa è anche al centro di Julie & Julia, del 2009. Meryl Streep interpreta il ruolo di Julia Child, una delle prime star dei programmi gastronomi­ci della tv degli Stati Uniti, che ebbe un ruolo centrale nel rendere la cucina francese più accessibil­e per l’americano medio. L’opera si ispira anche alla blogger Julie Powell, che eseguì 365 ricette tratte dal suo volume Mastering the Art of French Cooking, una al giorno per un anno. Nelle vite delle due donne, esaminate in parallelo anche se in momenti storici diversi, la cucina esprime le tensioni fra il desiderio di a ermazione profession­ale e personale da una parte e le aspettativ­e sociali proiettate sulle donne dall’altra. Il film gastronomi­co made in Usa esamina anche il rapporto fra uomini e cucina: in particolar­e la figura dello chef, di cui espone nevrosi e fragilità. La ricetta perfetta narra la caduta e la redenzione culinaria di uno chef in un food truck di successo grazie al figlio, un bambino che usa i social media per dare visibilità e nuova dignità al padre. Le insicurezz­e maschili sono al centro anche di Sideways - In viaggio con Jack, road movie in cui due amici girano per le terre del vino california­ne prima del matrimonio di uno dei due. Il protagonis­ta, un indimentic­abile Paul Giamatti, usa le sue conoscenze enologiche per nascondere frustrazio­ni, sconfitte, e l’incapacità di costruire rapporti paritari con le donne. Spesso in queste opere cibo e vino diventano territorio di confine fra modelli di mascolinit­à accettati, solidi ma a volte opprimenti, e nuove modalità di espression­e. Gli stessi temi emergono in lungometra­ggi animati come Kung Fu Panda, Piovono Polpette e soprattutt­o Ratatouill­e, uno dei film gastronomi­ci di maggior successo degli ultimi anni. In essi lo sviluppo da bambini a uomini, i conflitti con il padre e le figure d’autorità, la ricerca della propria identità individual­e ed etnica sono discussi attraverso il rapporto dei protagonis­ti con la cucina in modo spensierat­o e a volte comico.

I film gastronomi­ci, attraverso temi quali il multicultu­ralismo e il pluralismo etnico, l’uguaglianz­a di genere e le tensioni di classe, per promuovere dei punti di vista progressiv­i sembrano utilizzare un tema divertente e piacevole come il cibo, che diventa una no man’s land, una zona di frontiera in cui realtà molto diverse possono esprimersi. Ma basta andare oltre la superficie per rendersi conto che ria ermano approcci convenzion­ali tipici delle impostazio­ni culturali e sociali dominanti. I media consentono così alla cultura statuniten­se di celebrare un presunto impegno a favore della diversità mentre contempora­neamente posizionan­o donne, persone di colore e altri soggetti deboli ai margini costringen­doli alla funzione di oggetti di consumo.

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