DISUGUAGLIANZE MODERNE
I PASSI AVANTI DI SCIENZA E TECNOLOGIA OGGI CONSENTIREBBERO UN PROGRESSO SOCIALE MAI VISTO MA L' AUMENTO DELLE DISPARITÀ ACUISCE REAZIONI IDENTITARIE E CHIUSURE NAZIONALI
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L’impegno politico, in Francia, come in tutti i paesi, non si limita alle elezioni. La democrazia si basa innanzitutto sul confronto permanente delle idee, sul rifiuto delle certezze acquisite, sulla rimessa in discussione senza sconti delle posizioni di potere e di dominio. Le questioni economiche non sono questioni tecniche, da lasciare a una ristretta casta di esperti. Sono questioni eminentemente politiche, di cui ciascuno deve impadronirsi per farsi la propria opinione, senza farsi spaventare.
Non esistono leggi economiche: esiste semplicemente una molteplicità di esperienze storiche e di percorsi nello stesso tempo nazionali e globali, fatti di biforcazioni impreviste e di costruzioni istituzionali instabili e imperfette, nell’ambito delle quali le società umane scelgono e inventano diversi modi di organizzarsi e di regolare i rapporti di proprietà e i rapporti sociali. Sono convinto che la democratizzazione del sapere economico e storico e della ricerca sociologica possa contribuire a cambiare i rapporti di forza e a democratizzare la società nel suo complesso.
Esistono sempre delle alternative: questa è senza dubbio la prima lezione di una prospettiva storica e politica sull’economia. Un esempio molto chiaro è il debito pubblico: vorrebbero farci credere oggi che i greci e gli altri europei del Sud non hanno altra scelta che ripagare per decenni le enormi eccedenze di bilancio, laddove proprio l’Europa si è battuta negli anni Cinquanta per l’annullamento dei debiti del passato, in particolare a beneficio della Germania e della Francia, cosa che ha permesso di investire nella crescita e nel futuro.
Questi scambi hanno anche ra orzato la mia convinzione che le disuguaglianze prodotte dall’attuale capitalismo globalizzato e deregolato non hanno molto a che vedere con l’ideale meritocratico ed ecientistico dichiarato da chi da questo sistema trae vantaggi. Con variazioni infinite tra paesi, la disuguaglianza moderna combina elementi antichi, fondati su rapporti di dominio puro e semplice, su discriminazioni razziali e sociali, ed elementi più nuovi, che conducono a volte a forme di sacralizzazione della proprietà privata e di stigmatizzazione dei perdenti ancora più estreme che nelle fasi anteriori della globalizzazione. Tutto ciò in un contesto in cui i progressi della conoscenza e della tecnologia, la diversità e l’originalità delle creazioni culturali, permetterebbero un progresso sociale senza precedenti. Purtroppo, in mancanza di una regolamentazione adeguata delle forze economiche e finanziarie, l’aumento delle disuguaglianze rischia di esacerbare le reazioni identitarie e le chiusure nazionali, nei paesi ricchi come in quelli poveri ed emergenti.
Se si tenta di fare un bilancio del periodo 2012-2016, gli avvenimenti più significativi e drammatici sono la guerra in Siria e in Iraq e l’esplosione del Medio Oriente, che ha comportato una rimessa in discussione radicale e forse duratura del sistema di frontiere istituito dalle potenze coloniali in base all’accordo Sykes-Picot del 1916. Le cause di questi conflitti sono complesse, coinvolgono nello stesso tempo sia antichi antagonismi religiosi che moderni e infruttuosi tentativi di costruzione dello Stato. Ma è evidente che i recenti interventi occidentali – in particolare le due guerre in Iraq del 1990-1991 e del 2003-2011 – hanno giocato un ruolo decisivo. Se si assume una prospettiva più di lungo periodo, colpisce l’osservazione che il Medio Oriente – inteso qui come la regione che va dall’Egitto all’Iran passando per la Siria, l’Iraq e la Penisola Araba, cioè circa 300 milioni di abitanti – costituisce non solo l’area più instabile del mondo, ma anche la più ricca di sperequazioni.
Tenendo conto dell’estrema concentrazione delle risorse petrolifere in territori spopolati (disuguaglianze territoriali all’origine del tentativo di annessione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990), possiamo stimare che il 10% degli individui più privilegiati della regione si appropri del 60-70% complessivo dei redditi, più di quanto avviene nei paesi meno egalitari del pianeta (fra il 50 e il 60% dei redditi al 10% più privilegiato in Brasile e Sudafrica, circa il 50% negli Stati Uniti) e molto più che in Europa (fra il 30 e il 40, contro il 50% circa di un secolo fa, prima che le guerre e lo Stato sociale e fiscale intervenissero a creare condizioni più eque).
È altrettanto significativo osservare che le regioni del pianeta con le maggiori disuguaglianze hanno in parte un passato pesantemente segnato dalla discriminazione razziale (questo è evidente in Sudafrica e negli Stati Uniti ma anche in Brasile, che al momento dell’abolizione, nel 1887, contava circa un 30% di schiavi). Ma non è il caso del Medio Oriente. In questa regione le disuguaglianze massicce hanno un’origine molto più “moderna” e direttamente legata al capitalismo contemporaneo, con al centro il ruolo chiave del petrolio e dei fondi finanziari sovrani (oltre che, è ovvio, delle frontiere coloniali, molto arbitrarie al momento della loro definizione e poi difese militarmente dai paesi occidentali).
Se si aggiungono a tutto ciò le pesanti discriminazioni sul lavoro (e a volte nell’abbigliamento) che a rontano in Europa le popolazioni di origine arabo-musulmana e il fatto che una frazione disoccupata e fanatizzata dei loro giovani tenta di importare nel Continente i conflitti mediorientali, il cocktail diventa davvero esplosivo. La soluzione qui, in Francia come in Europa, evidentemente non consiste nell’aggiungere un segno di stigmatizzazione, come alcuni sono tentati di fare oggi con la triste storia del burkini (si potrebbe dunque esprimere tutto con i vestiti, gonne molto corte, gonne a pieghe, capelli tinti, magliette rock o rivoluzionarie, tranne le proprie convinzioni religiose? È chiaro che ciò non ha senso), ma piuttosto nel promuovere l’accesso alla formazione e all’impiego. Bisogna anche smetterla di privilegiare i nostri rapporti venali con gli emiri e interessarsi innanzitutto a un equo sviluppo di quella regione.
La soluzione laggiù, in Medio Oriente, non è certo l’invasione generalizzata del territorio del vicino. Ma bisogna accettare una discussione pacifica sul sistema di frontiere e sullo sviluppo di forme regionali di integrazione politica e di ridistribuzione. Concretamente, l’Egitto si trova oggi sull’orlo dell’asfissia finanziaria e rischia di farsi imporre dal Fondo Monetario Internazionale una purga budgettaria distruttiva, laddove la priorità dovrebbe essere investire nella gioventù del paese, che ha di fronte delle infrastrutture pubbliche e un sistema scolastico e sanitario del tutto in rovina.
Questo Stato di più di 90 milioni di abitanti, che si prepara a una nuova esplosione sociale e politica pochi anni dopo che i paesi occidentali hanno annullato le prime elezioni democratiche che vi si fossero mai tenute, succhiando en passant qualche miliardo con la vendita di armi al nuovo regime militare, senza dubbio tenterà di elemosinare un nuovo prestito ai vicini sauditi e agli Emirati, che hanno miliardi di cui non sanno cosa fare. Ma probabilmente non concederanno un granché. Un giorno o l’altro, queste ridistribuzioni e questa solidarietà all’interno del Medio Oriente dovranno farsi in un contesto più democratico e prevedibile, un po’ come avviene per i fondi regionali europei, che sono ben lungi dalla perfezione ma comunque meno insoddisfacenti.
Da questo punto di vista, è lecito pensare che la Brexit (o almeno il fatto che il 52% dei britannici, nel giugno del 2016, abbia votato per l’uscita dall’Unione Europea, dato che la Brexit vera e propria è ancora molto lontana) sia il secondo avvenimento più significativo del periodo 2012-2016. Meno drammatica, evidentemente, degli sviluppi della guerra in Siria e in Iraq, non è solo una terribile sconfitta per l’Unione Europea. È anche una brutta notizia per tutte le regioni del mondo, che hanno più che mai bisogno di forme originali e ben riuscite di integrazione politica regionale. Un’Unione Europea ben riuscita potrebbe essere di ispirazione per una Lega Araba meglio integrata come per future unioni politiche regionali sudamericane, africane o asiatiche, unioni regionali che potrebbero anch’esse giocare un ruolo centrale nella discussione sulle sfide e sulle ridistribuzioni di respiro davvero mondiale, a cominciare naturalmente dalla questione del cambiamento climatico. Viceversa, un’Unione Europea sotto scacco, da cui i popoli consultati vogliano andarsene al più presto, non può che alimentare lo scetticismo sul superamento dello Stato-nazione per rinforzare le chiusure identitarie e nazionaliste un po’ in tutto il mondo.
Il paradosso è qui. Più che mai i diversi paesi ritengono di aver bisogno di accordi e trattati internazionali per garantire il proprio sviluppo, in particolare sotto forma di regole che assicurino la libera circolazione dei beni, dei servizi e dei capitali (e in misura minore delle persone); infatti il Regno Unito è impegnato a rinegoziare queste regole con i paesi dell’UE. Ma, nello stesso tempo, si fatica a sviluppare ambiti di decisione democratica che permettano di discutere sia il contenuto di quelle regole che i meccanismi con cui si prendono decisioni collettive e sovranazionali in cui i popoli e le diverse classi sociali possano riconoscersi, invece di sentirsi continuamente sacrificati a vantaggio dei più ricchi e dei più mobili. Il voto a favore della Brexit non è solo la conseguenza della xenofobia in aumento presso un elettorato inglese che invecchia e della scarsa partecipazione alla consultazione da parte dei giovani. Esso traduce una profonda stanchezza di fronte all’incapacità dell’Unione Europea di democratizzarsi e di interessarsi ai più deboli.
I dirigenti tedeschi e francesi che si sono succeduti dal 2008 in poi, condividono una pesante responsabilità: con il loro catastrofico governo della crisi della Zona Euro, hanno oggettivamente fatto venire voglia
di fuggire da questa macchina infernale. Con la loro gestione egoistica e miope della crisi (che è consistita grosso modo nel rifugiarsi dietro ai bassi tassi di interesse dei loro paesi per rifiutare all’Europa del Sud una vera ristrutturazione dei debiti pubblici, rifiuto che del resto permane ancor oggi), sono riusciti nell’impresa di trasformare una crisi venuta inizialmente dal settore finanziario privato americano in una duratura crisi europea dei debiti pubblici, benché quei debiti non fossero più elevati nella zona euro che negli Stati Uniti, nel Regno Unito o in Giappone alla vigilia di quella del 2008.
Voglio tuttavia concludere con una nota di ottimismo, perché in fondo tutto è reversibile e la cosa più importante è discutere di soluzioni. Soprattutto voglio essere ottimista perché penso che gli uomini e le donne abbiano delle capacità infinite di collaborazione e di creatività, purché si diano delle buone istituzioni. Gli uomini e le donne sono buoni; sono le istituzioni a essere cattive e a poter essere migliorate.
La speranza resta, perché non c’è niente di naturale o di immanente nella solidarietà o nella sua mancanza: tutto dipende dai meccanismi istituzionali che ci diamo. Nessuna legge naturale porta i parigini o i bavaresi ad avere più solidarietà per gli aquitani o per i sassoni che per i greci o i catalani. Sono le istituzioni collettive che ci diamo – istituzioni politiche, regole elettorali, sistemi sociali e fiscali, infrastrutture pubbliche e scolastiche – che permettono alla solidarietà di esistere o che la fanno svanire.