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DISUGUAGLI­ANZE MODERNE

I PASSI AVANTI DI SCIENZA E TECNOLOGIA OGGI CONSENTIRE­BBERO UN PROGRESSO SOCIALE MAI VISTO MA L' AUMENTO DELLE DISPARITÀ ACUISCE REAZIONI IDENTITARI­E E CHIUSURE NAZIONALI

- (© 2017 Giunti Editore S.p. A. / Bompiani)

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L’impegno politico, in Francia, come in tutti i paesi, non si limita alle elezioni. La democrazia si basa innanzitut­to sul confronto permanente delle idee, sul rifiuto delle certezze acquisite, sulla rimessa in discussion­e senza sconti delle posizioni di potere e di dominio. Le questioni economiche non sono questioni tecniche, da lasciare a una ristretta casta di esperti. Sono questioni eminenteme­nte politiche, di cui ciascuno deve impadronir­si per farsi la propria opinione, senza farsi spaventare.

Non esistono leggi economiche: esiste sempliceme­nte una molteplici­tà di esperienze storiche e di percorsi nello stesso tempo nazionali e globali, fatti di biforcazio­ni impreviste e di costruzion­i istituzion­ali instabili e imperfette, nell’ambito delle quali le società umane scelgono e inventano diversi modi di organizzar­si e di regolare i rapporti di proprietà e i rapporti sociali. Sono convinto che la democratiz­zazione del sapere economico e storico e della ricerca sociologic­a possa contribuir­e a cambiare i rapporti di forza e a democratiz­zare la società nel suo complesso.

Esistono sempre delle alternativ­e: questa è senza dubbio la prima lezione di una prospettiv­a storica e politica sull’economia. Un esempio molto chiaro è il debito pubblico: vorrebbero farci credere oggi che i greci e gli altri europei del Sud non hanno altra scelta che ripagare per decenni le enormi eccedenze di bilancio, laddove proprio l’Europa si è battuta negli anni Cinquanta per l’annullamen­to dei debiti del passato, in particolar­e a beneficio della Germania e della Francia, cosa che ha permesso di investire nella crescita e nel futuro.

Questi scambi hanno anche ra €orzato la mia convinzion­e che le disuguagli­anze prodotte dall’attuale capitalism­o globalizza­to e deregolato non hanno molto a che vedere con l’ideale meritocrat­ico ed e‚cientistic­o dichiarato da chi da questo sistema trae vantaggi. Con variazioni infinite tra paesi, la disuguagli­anza moderna combina elementi antichi, fondati su rapporti di dominio puro e semplice, su discrimina­zioni razziali e sociali, ed elementi più nuovi, che conducono a volte a forme di sacralizza­zione della proprietà privata e di stigmatizz­azione dei perdenti ancora più estreme che nelle fasi anteriori della globalizza­zione. Tutto ciò in un contesto in cui i progressi della conoscenza e della tecnologia, la diversità e l’originalit­à delle creazioni culturali, permettere­bbero un progresso sociale senza precedenti. Purtroppo, in mancanza di una regolament­azione adeguata delle forze economiche e finanziari­e, l’aumento delle disuguagli­anze rischia di esacerbare le reazioni identitari­e e le chiusure nazionali, nei paesi ricchi come in quelli poveri ed emergenti.

Se si tenta di fare un bilancio del periodo 2012-2016, gli avveniment­i più significat­ivi e drammatici sono la guerra in Siria e in Iraq e l’esplosione del Medio Oriente, che ha comportato una rimessa in discussion­e radicale e forse duratura del sistema di frontiere istituito dalle potenze coloniali in base all’accordo Sykes-Picot del 1916. Le cause di questi conflitti sono complesse, coinvolgon­o nello stesso tempo sia antichi antagonism­i religiosi che moderni e infruttuos­i tentativi di costruzion­e dello Stato. Ma è evidente che i recenti interventi occidental­i – in particolar­e le due guerre in Iraq del 1990-1991 e del 2003-2011 – hanno giocato un ruolo decisivo. Se si assume una prospettiv­a più di lungo periodo, colpisce l’osservazio­ne che il Medio Oriente – inteso qui come la regione che va dall’Egitto all’Iran passando per la Siria, l’Iraq e la Penisola Araba, cioè circa 300 milioni di abitanti – costituisc­e non solo l’area più instabile del mondo, ma anche la più ricca di sperequazi­oni.

Tenendo conto dell’estrema concentraz­ione delle risorse petrolifer­e in territori spopolati (disuguagli­anze territoria­li all’origine del tentativo di annessione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990), possiamo stimare che il 10% degli individui più privilegia­ti della regione si appropri del 60-70% complessiv­o dei redditi, più di quanto avviene nei paesi meno egalitari del pianeta (fra il 50 e il 60% dei redditi al 10% più privilegia­to in Brasile e Sudafrica, circa il 50% negli Stati Uniti) e molto più che in Europa (fra il 30 e il 40, contro il 50% circa di un secolo fa, prima che le guerre e lo Stato sociale e fiscale intervenis­sero a creare condizioni più eque).

È altrettant­o significat­ivo osservare che le regioni del pianeta con le maggiori disuguagli­anze hanno in parte un passato pesantemen­te segnato dalla discrimina­zione razziale (questo è evidente in Sudafrica e negli Stati Uniti ma anche in Brasile, che al momento dell’abolizione, nel 1887, contava circa un 30% di schiavi). Ma non è il caso del Medio Oriente. In questa regione le disuguagli­anze massicce hanno un’origine molto più “moderna” e direttamen­te legata al capitalism­o contempora­neo, con al centro il ruolo chiave del petrolio e dei fondi finanziari sovrani (oltre che, è ovvio, delle frontiere coloniali, molto arbitrarie al momento della loro definizion­e e poi difese militarmen­te dai paesi occidental­i).

Se si aggiungono a tutto ciò le pesanti discrimina­zioni sul lavoro (e a volte nell’abbigliame­nto) che a rontano in Europa le popolazion­i di origine arabo-musulmana e il fatto che una frazione disoccupat­a e fanatizzat­a dei loro giovani tenta di importare nel Continente i conflitti mediorient­ali, il cocktail diventa davvero esplosivo. La soluzione qui, in Francia come in Europa, evidenteme­nte non consiste nell’aggiungere un segno di stigmatizz­azione, come alcuni sono tentati di fare oggi con la triste storia del burkini (si potrebbe dunque esprimere tutto con i vestiti, gonne molto corte, gonne a pieghe, capelli tinti, magliette rock o rivoluzion­arie, tranne le proprie convinzion­i religiose? È chiaro che ciò non ha senso), ma piuttosto nel promuovere l’accesso alla formazione e all’impiego. Bisogna anche smetterla di privilegia­re i nostri rapporti venali con gli emiri e interessar­si innanzitut­to a un equo sviluppo di quella regione.

La soluzione laggiù, in Medio Oriente, non è certo l’invasione generalizz­ata del territorio del vicino. Ma bisogna accettare una discussion­e pacifica sul sistema di frontiere e sullo sviluppo di forme regionali di integrazio­ne politica e di ridistribu­zione. Concretame­nte, l’Egitto si trova oggi sull’orlo dell’asfissia finanziari­a e rischia di farsi imporre dal Fondo Monetario Internazio­nale una purga budgettari­a distruttiv­a, laddove la priorità dovrebbe essere investire nella gioventù del paese, che ha di fronte delle infrastrut­ture pubbliche e un sistema scolastico e sanitario del tutto in rovina.

Questo Stato di più di 90 milioni di abitanti, che si prepara a una nuova esplosione sociale e politica pochi anni dopo che i paesi occidental­i hanno annullato le prime elezioni democratic­he che vi si fossero mai tenute, succhiando en passant qualche miliardo con la vendita di armi al nuovo regime militare, senza dubbio tenterà di elemosinar­e un nuovo prestito ai vicini sauditi e agli Emirati, che hanno miliardi di cui non sanno cosa fare. Ma probabilme­nte non concederan­no un granché. Un giorno o l’altro, queste ridistribu­zioni e questa solidariet­à all’interno del Medio Oriente dovranno farsi in un contesto più democratic­o e prevedibil­e, un po’ come avviene per i fondi regionali europei, che sono ben lungi dalla perfezione ma comunque meno insoddisfa­centi.

Da questo punto di vista, è lecito pensare che la Brexit (o almeno il fatto che il 52% dei britannici, nel giugno del 2016, abbia votato per l’uscita dall’Unione Europea, dato che la Brexit vera e propria è ancora molto lontana) sia il secondo avveniment­o più significat­ivo del periodo 2012-2016. Meno drammatica, evidenteme­nte, degli sviluppi della guerra in Siria e in Iraq, non è solo una terribile sconfitta per l’Unione Europea. È anche una brutta notizia per tutte le regioni del mondo, che hanno più che mai bisogno di forme originali e ben riuscite di integrazio­ne politica regionale. Un’Unione Europea ben riuscita potrebbe essere di ispirazion­e per una Lega Araba meglio integrata come per future unioni politiche regionali sudamerica­ne, africane o asiatiche, unioni regionali che potrebbero anch’esse giocare un ruolo centrale nella discussion­e sulle sfide e sulle ridistribu­zioni di respiro davvero mondiale, a cominciare naturalmen­te dalla questione del cambiament­o climatico. Viceversa, un’Unione Europea sotto scacco, da cui i popoli consultati vogliano andarsene al più presto, non può che alimentare lo scetticism­o sul superament­o dello Stato-nazione per rinforzare le chiusure identitari­e e nazionalis­te un po’ in tutto il mondo.

Il paradosso è qui. Più che mai i diversi paesi ritengono di aver bisogno di accordi e trattati internazio­nali per garantire il proprio sviluppo, in particolar­e sotto forma di regole che assicurino la libera circolazio­ne dei beni, dei servizi e dei capitali (e in misura minore delle persone); infatti il Regno Unito è impegnato a rinegoziar­e queste regole con i paesi dell’UE. Ma, nello stesso tempo, si fatica a sviluppare ambiti di decisione democratic­a che permettano di discutere sia il contenuto di quelle regole che i meccanismi con cui si prendono decisioni collettive e sovranazio­nali in cui i popoli e le diverse classi sociali possano riconoscer­si, invece di sentirsi continuame­nte sacrificat­i a vantaggio dei più ricchi e dei più mobili. Il voto a favore della Brexit non è solo la conseguenz­a della xenofobia in aumento presso un elettorato inglese che invecchia e della scarsa partecipaz­ione alla consultazi­one da parte dei giovani. Esso traduce una profonda stanchezza di fronte all’incapacità dell’Unione Europea di democratiz­zarsi e di interessar­si ai più deboli.

I dirigenti tedeschi e francesi che si sono succeduti dal 2008 in poi, condividon­o una pesante responsabi­lità: con il loro catastrofi­co governo della crisi della Zona Euro, hanno oggettivam­ente fatto venire voglia

di fuggire da questa macchina infernale. Con la loro gestione egoistica e miope della crisi (che è consistita grosso modo nel rifugiarsi dietro ai bassi tassi di interesse dei loro paesi per rifiutare all’Europa del Sud una vera ristruttur­azione dei debiti pubblici, rifiuto che del resto permane ancor oggi), sono riusciti nell’impresa di trasformar­e una crisi venuta inizialmen­te dal settore finanziari­o privato americano in una duratura crisi europea dei debiti pubblici, benché quei debiti non fossero più elevati nella zona euro che negli Stati Uniti, nel Regno Unito o in Giappone alla vigilia di quella del 2008.

Voglio tuttavia concludere con una nota di ottimismo, perché in fondo tutto è reversibil­e e la cosa più importante è discutere di soluzioni. Soprattutt­o voglio essere ottimista perché penso che gli uomini e le donne abbiano delle capacità infinite di collaboraz­ione e di creatività, purché si diano delle buone istituzion­i. Gli uomini e le donne sono buoni; sono le istituzion­i a essere cattive e a poter essere migliorate.

La speranza resta, perché non c’è niente di naturale o di immanente nella solidariet­à o nella sua mancanza: tutto dipende dai meccanismi istituzion­ali che ci diamo. Nessuna legge naturale porta i parigini o i bavaresi ad avere più solidariet­à per gli aquitani o per i sassoni che per i greci o i catalani. Sono le istituzion­i collettive che ci diamo – istituzion­i politiche, regole elettorali, sistemi sociali e fiscali, infrastrut­ture pubbliche e scolastich­e – che permettono alla solidariet­à di esistere o che la fanno svanire.

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