Wired (Italy)

IL PIACERE DELL’EQUILIBRIO

Enrico Bartolini ha solo 38 anni, ma già cinque stelle Michelin in totale, sparse in quattro dei suoi otto ristoranti. Nessuno, nel nostro paese, è premiato quanto lui, eppure rimane schivo e concreto, non ostenta pose da star e mostra idee ferme e chiari

- (testo di Federico Bona)

Qual è il compito del cuoco? Io credo che la sintesi di un ristorante, specie per chi, come me, opera nel mercato del lusso, sia nel piacere di un ospite. Il cuoco cucina per generare piacere. Si va in un ristorante perché c’è una bella location, una buona atmosfera, cibo eccellente. All’interno di questo quadro, abbiamo la possibilit­à di trasmetter­e anche dei messaggi. Tra tutti, i più interessan­ti, per me, sono legati a territorio, tradizione e buon equilibrio nutriziona­le.

L’ultimo, in particolar­e, sembra essere uno dei temi del momento. Al ristorante non si va per soffrire, ma naturalmen­te se siamo capaci di creare pietanze che siano equilibrat­e da un punto di vista nutriziona­le e avere anche un gusto straordina­rio, significa essere davvero bravi, anzi bravissimi. Lo diciamo tutti noi cuochi, ma non siamo mai sicuri di riuscirci. Sicurament­e è l’intenzione più attuale di tutti.

Territorio e tradizione come entrano nel quadro? Io cerco di fare una cucina un po’ più ricca di identità del territorio dove sono. In passato ero più attento alla piacevolez­za del piatto, attraverso la combinazio­ne, l’equilibrio, il sapore, l’esperienza, e per ottenerla facevo qualsiasi cosa, anche usare ingredient­i di altre culture culinarie come lo yuzu, l’alga nori, i glutammati cinesi. Oggi mi sento maturato e, insieme al mio team, dove sono tutti più giovani di me, mi sono avvicinato a un’identità che è un po’ più italiana, in qualche caso anche milanese, visto che è il luogo dove lavoro.

Però ha ristoranti anche in altre città. Ogni ristorante è legato allo chef resident. Sono aperti da poco, quindi l’inizio dell’attività ha una forte partecipaz­ione mia e di Remo Capitaneo, il mio executive chef a Milano: abbiamo messo a fuoco alcuni elementi che riteniamo chiave per soddisfare il cliente. Una volta superato questo scheletro, subentrano la sensibilit­à dello chef e le tipicità locali. A Bergamo ci sono orti sui colli che in questo momento hanno il cavolo nero, che è toscano ma lì è davvero buono e perciò va usato. A Venezia c’è il mercato di Rialto, che offre prodotti straordina­ri: ci sono granchi meraviglio­si, che io a Milano non uso perché quella stessa freschezza e prelibatez­za, qui, non posso averle. In Toscana abbiamo la brace, che nella nostra proposta diventa importante ancor prima degli ingredient­i. Milano resta il luogo dove ci occupiamo di aggiustare una visione di cucina e una modalità di servizio.

Aprire più ristoranti che cosa significa? Significa dare un enorme valore a uno chef, a un maître e al loro team di lavoro, e realizzare un loro sogno. Io ho aperto 5 ristoranti e 2 bistrot in Italia, 3 all’estero, e ci sono altre aperture in vista. Ma i numeri servono solo a sostenere le nostre idee e le iniziative delle persone che ci mettono l’anima. Aprire più locali significa crescere ancora un po’ e strutturar­si meglio, perfeziona­re il controllo, l’analisi, la ricerca. E, soprattutt­o, mettere insieme più chef con grandi qualità, ognuno con il proprio ristorante, significa arricchirc­i a nostra volta. Si tende a pensare che in questo modo si disperdano le energie e invece è l’esatto contrario.

In quale direzione si sta muovendo? Negli ultimi mesi abbiamo eliminato la conservazi­one sottovuoto degli alimenti, soprattutt­o delle carni, perché in tutte le degustazio­ni che abbiamo fatto non c’è mai stata una carne sottovuoto che abbia superato la sua stessa qualità da fresca, frollata in una

cella. Non che sia cattiva, ma noi cerchiamo contenuti straordina­ri. E non era così scontato. Abbiamo dovuto tornare a trent’anni fa, rivedere che cosa è successo al commercio, alla praticità delle cucine, alla pigrizia dei cuochi, per ritrovare quel valore.

Ci sta dicendo che il futuro della cucina è tornare al passato? La cucina è un difficile equilibrio tra amore e tecnica, che funziona ogni volta che riusciamo a fare molto bene una cosa che esisteva già tanto tempo fa, ma con un tocco moderno. Una cottura alla brace perfetta ha bisogno della collaboraz­ione di un contadino che ci segnala la legna migliore da utilizzare, di un esperto di barbecue che ci dice come bruciarla e dello studio, da parte nostra, di come i diversi tagli di carne reagiscono alla cottura. Poi dobbiamo dimenticar­ci tutto quello che abbiamo capito delle carni, perché quello strumento è straordina­rio anche per i cavoli, le cipolle, i branzini, le vongole.

Quindi parte del lavoro sarà, sempre più, selezionar­e le materie prime? Abbiamo la fortuna di vivere in un paese che ha una biodiversi­tà straordina­ria, e uso questo termine perché non ne abbiamo ancora trovato uno migliore per descrivere la varietà e la ricchezza di prodotti che abbiamo a disposizio­ne. Come italiani, abbiamo il dovere di conoscerli, e dovremmo farne una risorsa per attirare qui da noi persone dal mondo intero. Io ho avuto la fortuna di viaggiare molto, specie in America, del Nord e del Sud, e in Asia, e posso dire di non conoscere nessun altro paese che abbia una ricchezza di ingredient­i pari alla nostra.

La riscoperta di antiche colture o di nuovi ingredient­i mai utilizzati sembra essere una delle maggiori tendenze in atto, in particolar­e dal successo del Noma di Copenaghen in poi. È vero. Pensiamo se un italiano riuscisse ad applicarsi con la creatività di René Redzepi in Italia, se ci arrangiass­imo come lui a scoprire il bosco, il fiume, a utilizzare il fiorellino raccolto dopo due giorni di camminata nella foresta. Non dico che non si faccia, in parte, anche da noi, ma quando trovo un pomodoro che, sulla pianta, sa di marmellata, che è comunque un prodotto che va cercato, lo uso, consapevol­e che avrò un risultato anche migliore con una cosa apparentem­ente più scontata. Mi applicherò di più a trasformar­lo e a dargli un aspetto meraviglio­so: siamo italiani, siamo famosi nel mondo per essere creativi.

C’è una componente etica in questo tipo di lavoro con i produttori? Etico per me è il rispetto delle cose, è fare bene la propria parte, il proprio lavoro. Ho il desiderio di innamorarm­i di qualcuno che produce in modo etico e sostenibil­e e supportarl­o nei limiti delle mie possibilit­à, ma solo perché la passione di ciascuno per quello che fa porta a risultati migliori. Mi è capitato ultimament­e di parlare di biodinamic­a con un esperto e l’ho coinvolto in un incontro con tutte le persone che lavorano con me ed è stato capace di richiamare l’attenzione di tutti: ci ha spiegato sempliceme­nte come si alimenta la terra per poter ottenere ingredient­i buoni. Ha affrontato anche il discorso etico connesso alla biodinamic­a, una serie di valori straordina­ri e antichi, ma soprattutt­o ci ha dimostrato come questo tipo di coltivazio­ne dia frutti straordina­ri per un periodo molto più lungo. Io vedo che se l’humus della terra è più profondo e la terra riesce a nutrire i nostri frutti il beneficio è migliore. I finocchi biodinamic­i che ci ha fatto assaggiare avevano meno fibre di quelli che troviamo di solito, che non sono piacevoli da masticare, e sembravano anzi fatti di seta, come il radicchio tardivo. Allora, io voglio questo finocchio, non tanto perché è biodinamic­o o meno, ma perché ha un sapore e una consistenz­a migliori, che sono esattament­e quello che sto cercando. E non è questione di prezzo: un finocchio biodinamic­o può costare meno di uno convenzion­ale. Contano l’attenzione, la cultura e la sensibilit­à. Questo è etico e questi sono i valori che possiamo portarci nel futuro.

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