IL VACCINO CHE VERRË
In principio fu il vaiolo eci pensò direttamente la natura a trovare una contromisura. Da allora, l ’ idea ( e la pratica) della vaccinazione ha fatto passi da gigante. Ora va all’attacco dei v irus mutanti e prova a c ambiare prospettiva
Nella vita, anche quando accade qualcosa di brutto, esiste sempre un risvolto positivo. Pensate al morbillo. Chi lo contrae passa giornate molto spiacevoli, rischia pure la pelle, ma alla fine qualcosa di positivo rimane: non contrarrà mai più il morbillo. Il principio sul quale si basano le vaccinazioni è un’estensione di questa verità: quando vacciniamo un individuo, essenzialmente lo mettiamo nelle condizioni di chi ha avuto la malattia ed è guarito, senza però fargli correre gli stessi rischi e senza fargli patire le stesse sofferenze. Come si può mettere, in tutta sicurezza, un paziente nelle condizioni di chi ha avuto la malattia ed è guarito? Tradizionalmente esistono due strade: la prima è usare un microrganismo attenuato, che infetta il paziente ma non gli provoca nessun danno, stimolandogli allo stesso tempo in maniera intensa ed efficace il sistema immunitario. Dove li troviamo questi microrganismi attenuati? Il primo nella storia ce l’ha messo a disposizione la natura: era il virus del vaiolo delle mucche, la versione attenuata del vaiolo umano. Ci si accorse che chi contraeva per caso il vaiolo delle mucche era poi immune a quello umano: ecco la protezione senza la malattia, o meglio con una malattia immensamente più lieve. Il virus era “vaccino” (inteso come aggettivo: “canino”, “felino”, questo era delle vacche e quindi “vaccino”) e, con il passaggio da aggettivo a sostantivo, la prima vaccinazione era nata. Ebbe tanto successo da far scomparire il virus del vaiolo (quello vero) dalla faccia della terra.
Ma come fare per gli altri virus, quelli dei quali la natura non ci aveva generosamente regalato la versione attenuata? Non c’erano, quindi bisognava prepararseli. Per fortuna ci si accorse che, prendendo un virus e facendolo replicare a lungo in laboratorio, quello si “indeboliva”. Ora sappiamo il perché (si accumulano mutazioni nel genoma del virus, che ne diminuiscono la capacità di moltiplicarsi nel paziente), ma all’inizio, quando non si avevano le conoscenze necessarie di virologia molecolare, l’approccio era completamente empirico. Si provava, quindi si valutava la “cattiveria” dei virus sugli animali e infine si sperimentava sull’uomo. È grazie a questa metodologia che sono stati ottenuti importantissimi vaccini, come quelli attualmente in uso contro rosolia, morbillo, parotite e varicella. Certo, non sempre è andato tutto liscio: nel caso della parotite, per esempio, il primo virus “attenuato”, che sembrava sicurissimo – il ceppo Urabe –, si dimostrò più “cattivo” del previsto: un vaccinato su 10mila sviluppava una meningite, per cui fu prontamente sostituito. Non per tutti i virus, però, è possibile utilizzare questa strategia. Alcuni, per esempio, non si attenuano: in questi casi, si tenta di renderli inoffensivi in laboratorio, tagliando via pezzi di genoma o inserendo “ostacoli” alla loro replicazione, ma non è cosa facile e finora nessuno di questi vaccini è arrivato in farmacia.
Altre volte il virus è pericolosissimo e l’attenuazione è problematica. Provate a immaginare un virus Ebola attenuato: lo inietteremmo certamente con il fiato sospeso. Per questo si è scelta una strada completamente diversa: si è preso un pezzo di Ebola e lo si è trapiantato in virus meno pericolosi (che in questo caso vengono chiamati “vettori”, in quanto trasportano proteine estranee) che, infettando l’uomo, da un lato non causano nulla che possa lontanamente ricordare Ebola, dall’altro suscitano una risposta immune contro il pezzo di questo virus che viene trasportato. Questi vaccini non sono ancora in commercio, ma i risultati preliminari sono davvero entusiasmanti: uno di questi sembra avere un’efficacia del 100%! Quando queste strade non portano a nulla, bisogna fare diversamente: abbandonare i virus attenuati e preparare i vaccini in maniera diversa: utilizzando i virus inattivati. Accanto alla possibilità di usare un virus “vivo”, infatti, esiste quella di prenderlo, farlo crescere in coltura, e poi – utilizzando alcune sostanze chimiche – inattivarlo in modo che non sia più in grado di replicarsi, ma resti capace di stimolare correttamente il sistema immunitario. Capite che è una cosa piuttosto complicata: se il virus lo distruggiamo troppo, non è più in grado di stimolare una risposta; ma se lo distruggiamo troppo poco è ancora vivo e capace di provocare la malattia.
In passato, quando le tecniche erano meno raffinate, accaddero vere e proprie tragedie: nel 1955, la mancata inattivazione di 120.000 dosi di vaccino contro la poliomielite, dovuta a un errore di produzione da parte di una piccola azienda farmaceutica, causò decine di paralisi e addirittura diversi morti. Adesso siamo diventati più bravi, i controlli sono molto più serrati e questi incidenti non capitano più; molti vaccini sicuri ed efficaci sono costituiti da virus prodotti in laboratorio e poi inattivati (come quello contro l’epatite A). Nel caso, poi, di batteri che causano malattie attraverso la produzione di una tossina, ovvero una proteina che ha un effetto estremamente negativo sul nostro organismo – in poche parole, qualcosa di simile a un veleno –, lo stesso giochetto può essere fatto con la tossina stessa. La purifichiamo, la trattiamo chimicamente e poi la somministriamo al paziente che – se mai sarà infettato dal batterio che produce la tossina – sarà protetto. Le vaccinazioni contro il tetano e contro la difterite vengono effettuate proprio utilizzando una tossina inattivata (si chiama tossoide), e per fortuna inattivare le tossine è meno complicato che farlo con i virus, quindi non ci sono mai stati incidenti.
C’è però un problema: alcuni virus non si replicano in laboratorio. Cosa fare in questi casi? Da un lato non possiamo attenuarli (procedura che richiede la replicazione in colture cellulari), dall’altra non possiamo neanche produrli per poi inattivarli. Dovremmo lasciar perdere? Neanche per idea, visto che tra i virus che non si replicano ci sono patogeni pericolosissimi come il virus dell’epatite B! Fino a un certo momento, l’unico modo per produrre il vaccino contro l’epatite B era prendere il sangue dai pazienti infetti, purificare il virus e poi inattivarlo: una procedura complicata, costosissima e non priva di rischi (insieme al virus dell’epatite poteva essercene qualunque altro!).
La soluzione, in questo caso, arrivò dalla biologia molecolare e – incredibilmente – dal lievito che tutti i fornai usano per fare il pane, che noi scienziati chiamiamo pomposamente Saccharomyces cerevisiae. Una volta identificato il gene che codificava la proteina principale di questo virus, detto antigene S, si è riusciti a inserirlo nel genoma del lievito al posto di una proteina importantissima per la sua sopravvivenza e nutrizione. Così il lievito, opportunamente ingannato, pensando di produrre una cosa utile per sé, si è messo a produrre una gran quantità (si fa per dire) di proteine virali, che si sono assemblate in maniera non troppo dissimile dal virus “vero”. Ovviamente questi virus “falsi” (detti Vlp, virus-like particles, ovvero particelle che assomigliano ai virus) non sono in grado di replicarsi, ma somministrati a un paziente suscitano una risposta protettiva che sta facendo scomparire l’epatite B. La stessa cosa, concettualmente, è avvenuta per il vaccino contro il papilloma virus umano, che causa tumori del collo dell’utero e di altri distretti corporei. Esistono cellule eucariotiche che producono Vlp efficacissime, anche in questo caso, nell’indurre una risposta immune.
Le difficoltà però non finiscono mai. Ci sono batteri che hanno un tallone d’Achille nella loro capsula, ovvero nella loro principale arma di difesa dal nostro sistema immunitario; se riusciamo a produrre gli anticorpi contro questa struttura, sono finiti. Il problema è che le sostanze che compongono la capsula sono spesso quasi invisibili al sistema immunitario e non riescono a stimolarlo come si deve. Per esempio, il sistema immunitario dei bambini sotto ai due anni non sa reagire adeguatamente alla capsula di un batterio molto pericoloso, chiamato emofilo di tipo B. È chiaro che è inutile somministrare una molecola se il sistema immune non la vede. Ad alcuni ricercatori, però, è venuta un’idea brillantissima: legare (“coniugare” è il termine tecnico) le molecole della capsula ad alcuni stimolanti del sistema immune.
Hanno fatto centro. Il nuovo vaccino “coniugato” ha ridotto del 99% il numero dei casi di meningite provocati da questo batterio. Dato il successo, la stessa procedura è stata replicata per altri batteri, come lo pneumococco (che causa un sacco di malattie, tra le quali polmoniti, otiti e meningiti; non solo nei bambini ma anche negli anziani) e il meningococco (altra importante causa di meningite).
Qui è arrivata un’altra difficoltà, apparentemente insormontabile: la capsula del meningococco di tipo B è fatta di una sostanza identica a una molecola che è presente nel nostro corpo. Capite bene come indurre una risposta immune contro qualcosa che è un componente del nostro organismo sia una pessima idea e sia molto rischioso. La strada era chiusa, bisognava trovarne un’altra: l’ha individuata un italiano, Rino Rappuoli, che ha messo a punto il primo dei vaccini di una nuova generazione. Ha tralasciato la struttura del batterio e si è messo a studiare il suo dna, sequenziandolo tutto, ovvero “leggendolo” dal primo all’ultimo gene. Poi ha analizzato al computer ogni singola proteina prodotta da tutti quei geni e ha individuato quali di esse potessero essere un bersaglio ottimale per il sistema immunitario; le ha prodotte in laboratorio con un sistema non troppo diverso da quello usato per il vaccino contro l’epatite B ed è riuscito non solo a produrre un vaccino che prima non c’era, ma anche ad aprire nuovi orizzonti. Quali vaccini sono in vista oltre questi nuovi orizzonti?
Ripartiamo dall’inizio: i vaccini mettono le persone vaccinate nelle condizioni di chi ha avuto la malattia ed è guarito. Ma come la mettiamo per quelle malattie che possono essere contratte di nuovo anche da chi è guarito? In questi casi i vaccini non li abbiamo. Per esempio, chi si libera dal virus dell’epatite C (il 20% dei pazienti) non è per nulla protetto; chi è infettato dal virus che causa l’Aids addirittura non guarisce mai. Sono virus che mutano in modo esponenziale (immaginateli come bravissimi hacker dotati di programmi unlocker che girano continuamente finché non trovano la password giusta del sito da attaccare), che riescono a sfuggire agli attacchi degli anticorpi e delle cellule, superando le nostre difese, e che si sono evoluti per poter ingannare il nostro sistema immunitario. Mettere il paziente nelle condizioni di chi ha avuto la malattia ed è guarito non serve a nulla; dunque la sfida è fare meglio della natura: dobbiamo trovare il punto debole di questi virus e indurre nei pazienti non la risposta immunitaria che segue alla malattia, bensì una risposta molto più efficace.
Sono queste le Colonne d’Ercole della vaccinologia moderna: riuscire a fare meglio della natura. Ma come? Questi virus cambiano così tanto che non ne abbiamo, dentro una persona, uno uguale a un altro. Eppure, anche qui esiste un punto debole, perché c’è qualcosa che non si può cambiare. Pensate alle auto: sono molto differenti l’una dall’altra, ma tutte, dalla Formula 1 alla 500, si assomigliano in una cosa: le ruote, che devono essere rotonde altrimenti l’auto non si muove. In effetti la forma dei fari, degli specchietti, delle maniglie e persino del volante può essere variabile. Ma le ruote no. Sono sempre rotonde, perché hanno una funzione che dipende dalla loro forma. Ebbene, anche i virus hanno le ruote: una struttura molecolare che se viene modificata ne impedisce il funzionamento. Quello che sta facendo la ricerca è identificare le “ruote” dei virus, per poi tentare di costruire vaccini che possano indurre la produzione di anticorpi diretti contro queste strutture, che i virus non possono cambiare e che naturalmente tengono ben nascoste. Questo potrebbe metterci a disposizione un vaccino universale contro l’influenza, che non debba essere somministrato ogni anno con efficacia imprevedibile, e anche vaccini utili contro il virus che causa l’Aids e contro quello dell’epatite C.
Veder arrivare in farmacia un vaccino, tuttavia, sarebbe ancora complicato, lungo e costosissimo. Infatti bisognerebbe produrre in laboratorio i suoi componenti, purificarli, saggiarne l’efficacia e infine la sicurezza, che nel caso dei vaccini deve essere altissima. Tutto questo è un problema non solo in termini economici, ma anche di tempo: un nuovo virus potrebbe saltar fuori in modo inaspettato e – mentre noi produciamo il vaccino – infettare nel frattempo un gran numero di persone. Dobbiamo dotarci di strumenti che ci mettano in grado di rispondere tempestivamente a un’eventuale minaccia. Per questo, alcuni ricercatori hanno tentato un approccio rivoluzionario: i vaccini sono spesso costituiti da proteine, e le proteine vengono prodotte dalle cellule sulla base di informazioni che sono contenute in molecole chiamate “Rna messaggero”.
Ebbene, questi scienziati hanno pensato di far arrivare alcune molecole di Rna messaggero all’interno delle cellule del paziente, mettendole nelle condizioni di sintetizzare loro stesse le proteine del vaccino. Potenzialmente, qualcosa di strabiliante! Gli Rna messaggeri sono facilissimi e velocissimi da produrre, si possono modificare in tempi rapidi per adattarli alle mutazioni del virus (pensate all’influenza!) e, se ne venisse dimostrata sul campo l’efficacia e la sicurezza, saremmo davanti a un grandissimo passo in avanti: i pazienti che si vaccinano non più ricevendo molecole dall’esterno, ma producendole nelle loro cellule. Tuttavia, ci sono alcuni problemi non facili da risolvere: grazie agli avanzamenti della medicina, la popolazione sta invecchiando e il sistema immune degli anziani è molto meno efficiente; inutile somministrare un vaccino (anche il più efficace del mondo) se poi l’organismo non è in grado di attivarsi e sviluppare una difesa immune. Nessuno può dare quello che non ha. Ma se il sistema immunitario non è più in grado di produrre anticorpi protettivi, questi anticorpi protettivi possiamo identificarli, produrli in laboratorio, purificarli per poi somministrarli al paziente che non è più in grado di produrli autonomamente. Insomma, accanto alla vaccinazione “attiva” (nella quale il paziente produce gli anticorpi dopo la somministrazione del vaccino) esiste la possibilità di una vaccinazione “passiva”, quando invece di immunizzare con un vaccino che suscita la produzione di anticorpi, somministriamo direttamente gli anticorpi. Singolarmente, è un ritorno alle origini: il primo premio Nobel per la medicina fu vinto nel 1901 da Emil Adolf von Behring per aver capito che, somministrando anticorpi di cavallo, si potevano salvare i bambini dalla difterite. Ora possiamo pensare di usare anticorpi umani, prodotti artificialmente, immensamente più efficaci e sicuri, ma il concetto di fondo è identico.
Certo, von Behring non avrebbe potuto sicuramente immaginare, quando somministrò per la prima volta il suo siero intorno al Natale del 1891, che inaspettatamente, oltre a vaccini nuovi, sicuri ed efficaci, i suoi colleghi degli anni 2000 avrebbero dovuto pure scoprire il modo per convincere la gente ad accettarli e utilizzarli. Purtroppo, sarà invece necessario scoprire anche un “vaccino” contro la diffidenza e la superstizione che porta le persone a rifiutare le vaccinazioni. I ricercatori potranno dare il loro contributo, ma ho la sensazione che dovremo metterlo a punto tutti insieme.