LA TEORIA DEL VALORE
La disponibilità di dati, la democratizzazione dell’informazione e l ’evoluzione tecnologica, con l ’avvento di wearable che monitorano in tempo reale la salute di c iascuno, stanno rivoluzionando il rapporto medico- paziente
Solo il paziente conosce a sufficienza il proprio stato di salute, solo il medico sa a sufficienza cosa fare: è uno dei primi concetti che mi hanno insegnato alla facoltà di Medicina – e che poi io stesso ho sperimentato, in corsia. Si chiama asimmetria informativa: è un’idea abbastanza intuitiva, che ha dominato la medicina moderna fin dal principio. Ora però inizia a sgretolarsi, sotto la spinta di tre forze potenti: l’evoluzione del rapporto medico-paziente, la democratizzazione dell’informazione, il progresso tecnologico. Un processo che potrebbe rappresentare, per le persone in camice bianco e per quelle sulla lettiga, l’inizio di una rivoluzione. Partiamo da un dato: quasi l’80% dei pazienti vuole essere informato sugli esiti e il 50% sui trattamenti, ma meno di un quinto si aspetta di trovare queste informazioni.
È un dato particolarmente significativo perché, quando si entra in un ospedale, il non sapere è una delle cose che spaventano di più; ignorare che cosa stia per succedere, se quel numero con l’asterisco nasconda qualcosa di grave, quali saranno le conseguenze dei trattamenti, se e come cambierà la nostra vita. Che cosa significa, però, “paziente informato”? Pensiamo a un cardiopatico che viene operato a una valvola cardiaca: sarà interessato alla tecnica con cui abbiamo operato o all’impatto che l’operazione avrà sulla qualità della sua vita? Per il curante sarà probabilmente importante che il curato non abbia dolore sul momento; ma lui vorrà sapere che cosa accadrà nel lungo periodo o se dovrà tornare in sala operatoria e dopo quanto tempo. Proprio questo è il cuore della discussione e prende il nome di “teoria del valore”: si sposta il baricentro dal gesto tecnico (se vogliamo, almeno in parte ars mechanica) alla riuscita dell’intervento di cura ( ars liberalis), osservandolo con gli occhi del paziente. Che talvolta non ha, né vuole avere, informazioni tecniche sul gradiente o sull’insufficienza valvolare residua, ma desidera semplicemente “stare bene”. Quello che chiede è essere coinvolto nel comprendere quali benefici siano associati alle diverse opzioni che gli vengono proposte; e magari sapere con precisione come stanno gli ultimi 100 pazienti trattati in quel modo, in quel centro, da quell’équipe. Pazienti e medici hanno un livello di attenzione diverso nei confronti degli esiti, in particolare di quelli a medio termine, che impattano la qualità della vita.
Una facile analogia: a nessuno viene in mente di discutere con la propria officina l’alzata delle valvole, ma i migliori meccanici hanno capito che alcuni guidatori – i più esperti? – non si accontentano di pagare la fattura, ma vogliono comprendere la situazione e far parte del processo decisionale. Bisogna allora trovare il tempo e le parole adeguate a raccontare come e perché si è scelta una determinata strada. In altre parole, in medicina alcune decisioni sono sempre meno frutto di un atto di fede nei confronti del proprio curante. Seguendo la teoria del valore, stanno diventando protagonisti del mercato diversi nuovi operatori, che provano a “cucire” i vari componenti del sistema attorno al paziente. A chi non è capitato di dimenticare un fascicolo, andando dal medico, e dover raccontare per l’ennesima volta la propria storia, quella della famiglia, le indagini eseguite, l’inefficacia di alcuni trattamenti, gli effetti collaterali? È risolvendo questi problemi pratici che trovano sempre maggiore spazio startup che si occupano di telemedicina, symptom checker sempre più affidabili, documentazione clinica che ci segue sullo smartphone, servizi disponibili 24/7 a portata di click, presa in carico dei pazienti lungo l’intero percorso (cronico), tecnologia indossabile per facilitare il passaggio a stili di vita più salutari e chissà quant’altro farà presto capolino.
I pazienti stanno abbracciando questa tendenza. Basti pensare che il mercato dei dispositivi wearable è raddoppiato fino a superare i quattro miliardi di dollari, nell’ultimo biennio, e che la quantità di dati relativi alla salute generata negli ultimi dodici mesi è pari alla somma dei quarant’anni precedenti. Il numero di startup
in ambito digitale sta crescendo vertiginosamente, così come il livello di finanziamento: da circa un miliardo di dollari nel 2010 a otto volte tanto nel 2016. In questo contesto, però, sono i protagonisti più tradizionali, come le aziende farmaceutiche, a essere responsabili della maggiore spinta propulsiva, che si manifesta mettendo in discussione l’intero percorso del valore, dalla ricerca di nuove molecole fino al rapporto con i pazienti. Collaborazione più stretta con tutti gli attori del percorso, analisi dei dati dei pazienti, digitalizzazione e terapie personalizzate sono ormai in alcuni casi un realtà consolidata.
Già oggi, per esempio, un diabetico può beneficiare della misurazione in continuo della glicemia e ricevere costantemente la giusta quantità di insulina grazie a un microinfusore impiantabile, che ne migliora stato di salute e qualità di vita. Ancora: i pazienti affetti da patologie reumatiche possono ricevere prescrizioni personalizzate di farmaci e altri trattamenti a seconda dei sintomi, riportati ogni mattina su un’apposita app che li mette in contatto con i curanti. Questa raccolta continua di informazioni e parametri è codificata in un acronimo: Rwe, Real world evidence. L’Rwe non abbatte il pilastro portante dell’evoluzione scientifica degli ultimi decenni, il cosiddetto “studio clinico randomizzato e controllato”, ma integra quelle stesse informazioni scientifiche con osservazioni che provengono dalla vita quotidiana di persone e pazienti, per di più su una scala vastissima. Il beneficio? Gli anni diventano minuti: possiamo conoscere l’efficacia in tempi più brevi, valutare la sicurezza su scala più ampia, modificare le pratiche cliniche grazie a una verifica in tempo reale degli effetti. Il che significa, per esempio, dare migliore accesso a farmaci e terapie di ultima generazione in un tempo minore e – in sostanza – ridurre le disuguaglianze. Questo scenario, tuttavia, fa emergere la necessità di nuove professionalità in grado di navigare agevolmente in mezzo al mare di dati, e di ricavarne informazioni.
Come tutti gli esseri umani, i curanti non sono infallibili. L’analisi retrospettiva ci dimostra però che raramente il fallimento di una terapia deriva dall’errore di un singolo. In parallelo, le migliori pratiche ci dimostrano che un approccio multiprofessionale e multidisciplinare è in grado di migliorare gli esiti in modo indiscutibile. Il segreto è l’integrazione fra tutti gli attori, la costante messa in discussione dei risultati raggiunti alla ricerca del continuo progresso, l’allineamento verso un unico fine (il miglioramento dello stato di salute, misurato con gli occhi del paziente) e, non ultimo, la continuità fra tutti i cosiddetti “setting di cura”: la medicina di famiglia, il pronto soccorso, l’ospedale per acuti, i ricoveri riabilitativi. Perché un malato non concepisce il proprio problema di salute come una somma di momenti separati ma come un continuum. Qual è, a questo punto, la sfida per i prossimi dieci anni? Lavorare proprio su questa continuità, raggruppando in un unico ecosistema tutti gli attori attorno al paziente, integrando in modo nuovo competenze, prodotti e servizi.
Chi ci è riuscito ha già cambiato sensibilmente la vita di migliaia di persone. È questo uno dei fattori alla base della sorprendente variabilità degli esiti fra nazioni, ma anche all’interno dello stesso paese: andiamo da un rischio di mortalità cardiochirurgica 4-5 volte minore, rispetto alla media, nei migliori ospedali del Regno Unito a una probabilità di complicanze dopo chirurgia della cataratta trenta volte inferiore, rispetto alla media, nei migliori ospedali in Svezia. In Italia, la situazione non è differente, con variazioni anche di 10 o 20 volte fra i primi e gli ultimi della lista. Non esiste ancora un supercomputer capace di sostituire la sensibilità clinica, né un sofisticatissimo sistema diagnostico che comprenda la semeiotica – l’arte antica di interpretare i segni in medicina. Ma esisterà un mondo in cui quel supercomputer e quei sistemi diagnostici daranno al clinico un insieme più completo di informazioni per giungere più rapidamente a una soluzione migliore. Magari basata sull’esperienza di altre migliaia di medici e pazienti in analoghe condizioni.