NELLE PIEGHE DI UN MONDO MIGLIORE
Ava DuVernay, la regista di Selma, mette al centro della propria poetica l ' essere umano, le mutazioni e la diversità. Per favorire un futuro di uguaglianza e integrazione. Perchè se puoi immaginarlo, puoi realizzarlo. Subito
A fine autunno, nelle foreste di sequoia della California settentrionale, comincia a fare freddo. Non tanto da mettersi una pelliccia – ci sono ancora una decina di gradi – ma da costringerti a vestirti a strati sì, se non vuoi che ti penetri nelle ossa. Eppure, nel novembre del 2016, quando sono andato a trovarla sul set, vicino a Eureka, la regista Ava DuVernay era senza cappotto. Solo una maglia termica e, sopra, una camicia di cotone, jeans, un cappello di lana. Le giovani star del suo film, smarrite per finzione in boschi sconosciuti (e, verrebbe da dire, molto più caldi) indossavano camicie leggerissime e lei non si sognava neppure di lasciarle soffrire il freddo da sole. «Ha notato? Ogni volta che devono togliersi le giacche, lo fa anche lei. Un classico», mi ha bisbigliato il produttore Jim Whitaker, mentre poco più in là DuVernay pronunciava l’inevitabile « Azione!».
Ava, un’ex press agent di Hollywood molto abile, sa bene quali tasti toccare. La palpabile complicità che ho percepito sul set – gli scambi giocosi e sempre incoraggianti con gli interpreti, la varietà della troupe, l’allegria da summer camp (ma con i soldi Disney) – è una perfetta metafora dello spirito che la regista sta trasferendo al suo adattamento di A wrinkle in time ( Nelle pieghe del tempo) di Madeleine L’Engle.
Il libro racconta le avventure di una ragazza di nome Meg Murry, impegnata a salvare il padre scienziato, che è stato imprigionato da una forza oscura dell’universo decisa a sopprimere libertà d’opinione e d’espressione. Ad assisterla nell’impresa, il compagno di scuola Calvin O’Keefe, il fratello Charles Wallace e tre creature celesti (la signora Cos’è, la signora Quale, la signora Chi) che l’aiutano a “saltare” all’interno della dimensione spazio-temporale con il “tesseratto”, una specie di wormhole.
Sin dal primo lungometraggio, This is the life del 2008, DuVernay ha usato il successo per dare alle donne e alle persone di colore un’opportunità, da una parte e dall’altra della cinepresa. Così, quando nel 2016 Disney ha annunciato che sarebbe stata lei a dirigere A wrinkle in time, diventando la prima donna afroamericana a prendere il timone di una produzione da oltre 100 milioni di dollari – «Ma certo non la prima in grado di farlo», ha puntualizzato lei – DuVernay ha promesso una nuova interpretazione del testo originale. «Bisogna, in un certo senso, fare un remix del libro», ha detto al Wall Street Journal. E ha cominciato a farlo partendo dal casting: Meg, interpretata dalla quattordicenne Storm Reid, è diventata biracial, mentre Oprah Winfrey e Mindy Kaling sono rispettivamente la signora Quale e la signora Chi.
DuVernay non è certo nota come regista di cinema di genere: i suoi film e le sue serie tv sono sempre stati ancorati a concetti quali razza, potere, politica. Ma la sua idea, impegnarsi per creare un mondo migliore per le persone di colore, s’intreccia alla perfezione con uno dei temi tipici della science fiction: la costruzione di mondi. Spettacolo, missili e pistole a raggi sono sempre andati a braccetto con un esercizio di pensiero sperimentale. Secondo i canoni più rigidi del western, i signori fascisti che dominano stati distopici vengono sfidati dalla gente comune, quella che lavora la terra: ragazzi abituati a vivere nelle fattorie, che credono fermamente in ideali profondi. Lo sci-fi può prendere quello stesso presupposto, scuoterlo come se fosse un globo di vetro pieno di neve e creare spazi per “il Perdente”, per “gli Altri”. È un genere in cui la gente può costruire futuri e realtà alternative; poi schiacciare “play” e vedere come funzionano.
Ava ne è cosciente. «Ha catturato l’essenza del libro, i personaggi, la storia, le scene: solo che li ha immaginati leggermente diversi», spiega Catherine Hand, produttrice che per decenni ha cercato di portare A wrinkle in time a teatro. «Rispetto al modo in cui l’aveva concepito Madeleine L’Engle nel ’62, tutto è cambiato. Tutti siamo cambiati». La stessa Hollywood in cui Nelle pieghe del tempo si è “tesserattato”, è mutata, anche se con infinita lentezza.
Raramente le donne, soprattutto se giovani, sono al centro di una storia. Fra i 100 film dai migliori incassi del 2016, solo otto avevano una donna protagonista o co-protagonista di età compresa fra sei e vent’anni. Sapete quante non erano bianche? Due. Per DuVernay, portare sullo schermo persone dalla pelle nera o asiatica è essenziale – quasi come sfidare i sistemi che ne hanno causato l’esclusione. Lei lo fa attraverso la scelta dei temi: il suo documentario 13th, che ha ottenuto una nomination agli Oscar, traccia una linea che parte dalla schiavitù e arriva alla carcerazione di massa di uomini di colore; il film Selma, secondo i canoni di Hollywood una biografia di Martin Luther King Jr., era anche una critica delle leggi e delle strutture sociali che hanno privato i neri del Sud del diritto di voto. La sfida agli “Hollywood systems” si concretizza anche nel modo in cui gestisce i suoi progetti. Solo donne dirigono la sua serie televisiva Queen Sugar; il collettivo Array, che ha fondato nel 2010, è oggi una società di distribuzione di opere cinematografiche realizzate da o focalizzate su persone di colore. «Lei non perde tempo a parlare di inclusione», ha detto Oprah, «la vive».
DuVernay, che ha 45 anni, è cresciuta a Compton, in California. La madre era insegnante di scuola materna, il padre installava moquette e pavimenti. Con quattro tra fratelli e sorelle, si divertiva a creare storie “epiche” insieme alle sue Barbie («Erano vere soap opera con location e suspense tutte particolari: è lì che ho cominciato a giocare con i personaggi») senza per questo chiudere mai gli occhi su quanto accadeva al di là delle mura di casa. All’università, Ava ha seguito Inglese e Studi afro-americani a Ucla. Pensava di specializzarsi in giornalismo ma, dopo uno stage a Cbs News in cui ha dovuto letteralmente frugare in mezzo alla spazzatura di uno dei giurati del processo a O. J. Simpson, ha cambiato idea: si è dedicata alla creazione di filmati pubblicitari fino ad aprire una propria società, la DuVernay Agency, nel ’99 e a prestare consulenza per vari film, fra cui Spy Kids e Collateral.
Era una brava promoter ma, in realtà, voleva iniziare a girare per conto proprio. Nessuno le avrebbe mai dato una simile opportunità, ne era certa, per cui se l’è creata da sola. In fretta. Nel 2008, a 35 anni, ha autoprodotto This is the life, un documentario sul mondo hip hop underground del Good Life Cafe di Los Angeles, e nel 2010 My mic sounds nice sulle donne rapper. In quello stesso anno, con i 50mila dollari messi da parte per comprarsi una casa, ha finanziato la sua prima opera di fiction, I will follow, su una donna in lutto per la morte della zia. Ad attrarre l’attenzione generale è stato il film seguente, Middle of nowhere, su una donna che cercava di cavarsela nonostante il fidanzato in carcere: le è costato 200mila dollari e le ha fruttato il premio per la miglior regia di un’opera drammatica al Sundance Festival del 2012. Il protagonista, David Oyelowo, convinse Oprah Winfrey a guardarlo. Come risultato, Oprah ha deciso di affidarle la direzione di Selma, da lei co-prodotto (e recitato): 128 minuti sulle battaglie di Martin Luther King e della gente dell’Alabama per assicurarsi il Voting Rights Act del 1965, poi nominato all’Oscar come miglior film.
Dopo Selma è iniziata una pioggia di offerte. DuVernay è stata candidata alla direzione di Black Panther ma ha rinunciato. Poi si è parlato di un thriller sci-fi. Diversi grandi studios hanno cercato di sedurla ma si parlava sempre di una semplice regia, non di una vera e propria collaborazione. «Molti dei progetti che ho valutato non prevedevano la mia impronta, ma solo che fungessi da custode delle idee di qualcun altro», spiega.
Una delle ragioni per cui ha accettato A Wrinkle in time, spiega, è che siede nel consiglio di amministrazione del Sundance insieme a Sean Bailey, presidente della divisione cinematografica della Disney. Agli inizi, quando Ava ancora stava imparando come funziona Hollywood, ha assistito a infiniti casi di clientelismo. «Hai in mente le occasioni sociali in cui le persone dell’industria cinematografica si incontrano? Le mogli che si conoscono, i figli che si conoscono? No, io sono fuori dal giro, la mia vita è tutta diversa », spiega. «Fra i miei amici non c’è un solo agente...». Bailey invece lo è diventato e l’ha convinta: le avrebbe lasciato fare il film che voleva con la gente con cui voleva farlo.
Con A wrinkle in time Ava, che lavora su una sceneggiatura di Jennifer Lee ( Frozen), cerca di portare la sua idea di universalità in un testo che non l’anticipava. «Il pubblico non deve aspettarsi la versione cinematografica pagina per pagina del libro», dice, «bensì che io abbracci pagina per pagina quello che io sento che l’autrice voleva raccontare, cioè la storia di un “perdente”». Una cosa è certa: cosa volesse dire L’Engle con il suo libro è rimasto per decenni un mistero. Lo stesso manoscritto ha lasciato perplessi molti editori, che non riuscivano a capire se fosse per adulti o per bambini, tanto che in 26 l’hanno rifiutato. Oltretutto era una storia di sci-fi con una giovane donna come protagonista, roba mai vista negli Anni Sessanta. Immaginava un mondo in cui scienza e religione potessero coesistere, e ciò la rendeva troppo blasfema per alcuni e troppo clericale per altri. Per anni è stato messo all’indice da alcuni e un amatissimo bestseller per altri: il libro, come l’autrice, era un outsider di successo.
Ma in fondo, questa è la fiction di genere: ciò che mezzo secolo fa risultava impensabile – una ricerca avventurosa nel tempo e nello spazio guidata da una ragazzina – oggi è diventato normale. La fantascienza, tanto a lungo sottovalutata dal punto di vista culturale, perché considerata infantile e irrilevante, oggi costituisce la prima fonte di ricavi della Hollywood mainstream: 14 dei 20 film campioni d’incassi di tutti i tempi sono di genere fantasy o sci-fi.
La materia prima della fantascienza sono l’immaginazione e il gioco dell’«e se...»; ma l’infrastruttura che la regge è la metafora. C’è una ragione precisa per cui i ragazzi Lgbtq – Lesbian, gay, bisexual, transgender, questioning (incerti) – si appassionano agli X-Men, i supereroi mutanti caratterizzati da un’alterità che si manifesta sin dalla pubertà, mentre intere generazioni di donne ancora si attaccano a una Buffy interiore ogni
volta che attraversano una crisi. La letteratura, poi, ha sempre aggiunto più colore a quella tavolozza di quanto abbiano fatto tv e cinema: autori come Samuel R. Delany e Octavia Butler (più recentemente anche Nnedi Okorafor, N. K. Jemisin e altri) hanno sfruttato a pieno gli ampi spazi lasciati dalla sci-fi per inserire persone di colore all’interno della storia e costruire per loro nuove culture. Ma se lo sfondo è distopico? Non importa. Il domani potrebbe derivare dall’oggi, dice la fantascienza, ma ci consentirà sempre di essere migliori di oggi.
La rappresentazione del mondo di cui DuVernay è paladina ha ricevuto una spinta importante dall’approdo dell’immaginazione di mondi fantastici nei multisala: i casting di Star Wars sembrano quasi delegazioni dell’Onu. Anche i fumetti, che una volta sopravvivevano alla periferia di quella che veniva considerata sci-fi, si sono adattati. La prima di A wrinkle in time arriva un mese dopo quella di Black Panther, un film Marvel ambientato in un’utopia afro-futuristica con un cast quasi del tutto di origini afroamericane (e africane). E l’idea a volte un po’ ingenua della fantascienza di un progresso umano che fosse pensato per tutti si è allargata… proprio a tutti. «Il libro, la storia stessa assumono un significato differente nel contesto di oggi», spiega DuVernay. «I temi della luce e dell’oscurità, il tema di un mondo diviso».
Secondo Victoria Mahoney, che ha ottenuto grazie ad Ava la sua prima regia nella serie tv Queen Sugar, alle persone di categorie discriminate che entrano a Hollywood viene detto di adattarsi alle “abitudini” esistenti, anziché fare in modo che il sistema cambi per includerle. Mindy Kaling – che si era già creata un proprio spazio scrivendo, producendo, e interpretando la sitcom The Mindy project – dice che la proposta di Ava di recitare in A wrinkle in time è stata una delle prime di un ruolo per lei. Questo collaborare, questo tutelarsi reciprocamente, ricorda il modo in cui in passato le donne di colore hanno cominciato a costruire consapevolezza e senso di comunità. Ava sembra avere tutta l’intenzione di promuoverlo per cambiare Hollywood dall’interno. È previsto che diriga un film per Hbo sulla cruciale sfilata del 1973 a Versailles in cui gli stilisti americani e le modelle di colore hanno sovvertito le convenzioni del mondo della moda. Per Netflix, dopo 13th, sta lavorando a una serie in cinque puntate sui Central Park Five, i ragazzi erroneamente incarcerati per aggressione e stupro di una donna a New York, nel 1989; e, si dice, anche a un film con Rihanna e Lupita Nyong’o (la sceneggiatura dovrebbe essere firmata da Issa Rae di Insecure), basato su un’idea nata su Twitter.
Tre decenni differenti, tre diverse storie di perdenti tutte create dalla stessa eroina “perdente”. Solo perché nel futuro saremo migliori, non dobbiamo per forza star fermi ad aspettare che il futuro cominci.