QUANTO TEMPO CI RESTA?
È possibile prevedere l’aspettativa di v ita di un malato e migliorare così i s uoi u ltimi giorni. Parola di un algoritmo e del suo creatore, un ricercatore del pronto soccorso di Boston esperto di intelligenza artificiale
«Se sapessi che mi restano sei mesi di vita, sarei in questa stanza a farmi intervistare? Ovviamente no». Sta in queste parole il senso del lavoro di Ziad Obermeyer, uno dei pionieri nell’utilizzo del machine
learning in campo medico, a partire dal Brigham & Women’s Hospital di Boston, dove ha portato l’intelligenza artificiale dentro al pronto soccorso. Il primo passo è un algoritmo costruito su oltre tremila variabili, cui è affidato il compito di analizzare i dati relativi ai pazienti cardiopatici che arrivano in ospedale dopo una crisi. «Una delle maggiori difficoltà che abbiamo consiste nel capire quali siano da ricoverare e quali invece da dimettere, quali abbiano
bisogno di ulteriori esami e quali no». L’obiettivo finale, però, non è soltanto rendere più efficace la diagnostica: allargando il raggio ad altre patologie, l’idea è di migliorare la qualità della vita dei degenti, anche di quelli terminali. Per esempio, fornendo previsioni più accurate su quanto resta loro da vivere, in modo che, anziché in ospedale, attaccati a una macchina, possano morire a casa, circondati dai propri cari: esattamente ciò che tutti scelgono quando si chiede loro come vorrebbero trascorrere gli ultimi giorni. Questo, oltretutto, comporta l’ulteriore vantaggio di ridurre i costi legati ai ricoveri ospedalieri.
Professor Obermeyer, il suo lavoro si basa sui dati. Ma quali? «Per cominciare, quelli che sono stati forniti alle assicurazioni sanitarie al momento di sottoscrivere una polizza; quindi, quelli raccolti a ogni ricovero in ospedale o a ogni esame diagnostico. Poi c’è un terzo aspetto, ancora tutto da sviluppare, legato alle informazioni ottenibili da uno smartphone o da qualsiasi altro dispositivo wearable. A oggi, però, collegarli a dati propriamente sanitari è ancora complicato, quindi per il momento li lascerei da parte».
E quanto ai dati ambientali, quelli legati per esempio all’inquinamento? « Quelli sulle concentrazioni di polveri sottili contengono informazioni importanti, certo, e anche quelli sul clima sono interessanti... ma la questione di fondo è che dobbiamo trovare il modo di collegarli efficacemente».
Lei sostiene, appunto, che il vero problema consiste nell’avere algoritmi, più che dati, migliori. Che cosa significa? «Negli ultimi vent’anni, i database sono diventati sempre più sterminati. Ma si tratta di informazioni conservate su hard disk, difficili da comprendere e, come se non bastasse, in continua crescita con il passare dei minuti: senza adeguate tecniche statistiche, estrarne il valore è impossibile». Il futuro, insomma, appartiene a una medicina basata sugli algoritmi. Che però, secondo lei, sarebbe più umana di quella attuale. Perché? «Sembra controintuitivo, ma pensate a quanti lavorano in banca, agli sportelli: con l’arrivo dei bancomat, si diceva che avrebbero perso il posto. Invece non è andata così: quell’attività è stata appaltata a una macchina, grazie alla quale oggi possono dedicarsi ad altro. Come, per esempio, ascoltare le persone e capire di che cosa hanno bisogno».
Lo stesso vale per un medico? « Al pronto soccorso, io passo gran parte del mio tempo a riempire moduli per la diagnosi: un lavoro che può tranquillamente essere svolto da una macchina. Se lo facesse, avrei più tempo per parlare con i pazienti e sarei anche più felice: secondo le statistiche, uno degli elementi di cui i medici si lamentano di più è il numero di moduli da riempire».
Più felice e probabilmente più veloce: anche i tempi di attesa si ridurrebbero? «Penso proprio di sì. Sarebbe una gestione molto più efficiente».
Come convince un paziente che è meglio se a curarlo, oltre a lei, c’è un’intelligenza artificiale? « Non pensate solo al pronto soccorso. Prendete per esempio un malato di cancro, una persona che va dal medico e chiede di conoscere la propria aspettativa di vita. I dottori faticano a rispondere perché si tratta di una previsione estremamente difficile. Eppure, ripeto, è una domanda che viene posta da tutti i degenti... quindi non c’è bisogno di convincere nessuno».
Invece su un venticinquenne in piena salute è possibile fare previsioni? «I dati di cui disponiamo riguardano innanzitutto persone che sono già state ospedalizzate: tra loro, i venticinquenni sani sono pochi».
Quindi non siamo in una puntata di Black Mirror in cui lei indica le persone e comunica loro la data del futuro decesso? «No, nient’affatto. Però sarebbe una puntata molto interessante da vedere».
Gli algoritmi possono migliorare anche l’efficacia delle terapie? Pensiamo alla diagnosi precoce, magari di un cancro al cervello... « Attenzione, c’è anche l’altro lato della medaglia: per esempio un nodulo che potrebbe essere un tumore, ma ha uno sviluppo così lento che, anche se non trattato, non ucciderà il paziente. Intendo dire che l’algoritmo può aiutarci a utilizzare meglio gli strumenti che possediamo già. Se fossimo in grado di stabilire i criteri per identificare un cancro curabile nelle fasi iniziali, potremmo decidere di sottoporre a un trattamento le persone che hanno questo tipo di patologia. La realtà è che ancora non conosciamo così bene queste patologie per utilizzare il machine learning a questo livello».
E se qualcuno semplicemente non volesse sapere da un algoritmo quanto gli resta da vivere? Lo obbligheremmo a informarsi? « No, non sarebbe giusto. Noi stiamo lavorando a uno studio partito dall’identificazione, effettuata insieme ai medici di famiglia, di persone che rischiano di morire entro uno o due anni; poi dividiamo il gruppo in due parti e ne mandiamo una a colloquio con un dottore che si occupa di cure palliative. Significa che stiamo togliendo loro le cure? No, in realtà le aggiungiamo, parliamo loro di sintomi e di farmaci per il fine vita. Quando sono pronti, il dato di fatto è che non vogliono morire in ospedale attaccati a una macchina. Ma è difficile che lo si dica quando non si è pensato al fine vita». L’effetto collaterale positivo, in altre parole, è che si risparmia denaro evitando di tenere ricoverate queste persone? «Sì, in questo modo le terapie costano meno. Ma in ogni caso spendere per terapie che le persone non vogliono, usare soldi per peggiorare la loro vita quando il nostro lavoro di medico consiste nel fare il meglio per i pazienti, è una tragedia ».
Come ogni attività di raccolta dati, anche questa solleva problemi a proposito di privacy; ancora più grandi, visto che fanno riferimento ai dati più sensibili che esistano. Come si affronta la questione? «Chiunque abbia in tasca uno smartphone con la localizzazione attivata e Google Maps si trova in una situazione per cui Google sa dove si trova. Ma è un’informazione che fornisce in cambio di qualcos’altro: quelle sul traffico oppure le recensioni dei ristoranti nelle vicinanze. Il punto è che abbiamo la possibilità di scegliere e, visto che i dati sulla salute sono i più importanti, dobbiamo dare alle persone la possibilità di non condividerli; a chi invece lo fa, dobbiamo garantire la sicurezza. Inoltre, chi li utilizza deve avere incentivi, anche economici, affinché non vengano diffusi. Di fondo, però, le persone devono ottenere qualcosa in cambio, sia che a gestire il servizio sia lo stato che un’azienda. E bisogna chiarire quali possono essere quei benefici, spiegando che più importanti sono i dati che vengono condivisi, più è alto il valore di ciò che si ottiene in cambio».