Wired (Italy)

QUANTO TEMPO CI RESTA?

È possibile prevedere l’aspettativ­a di v ita di un malato e migliorare così i s uoi u ltimi giorni. Parola di un algoritmo e del suo creatore, un ricercator­e del pronto soccorso di Boston esperto di intelligen­za artificial­e

- (testo di Riccardo Saporiti)

«Se sapessi che mi restano sei mesi di vita, sarei in questa stanza a farmi intervista­re? Ovviamente no». Sta in queste parole il senso del lavoro di Ziad Obermeyer, uno dei pionieri nell’utilizzo del machine

learning in campo medico, a partire dal Brigham & Women’s Hospital di Boston, dove ha portato l’intelligen­za artificial­e dentro al pronto soccorso. Il primo passo è un algoritmo costruito su oltre tremila variabili, cui è affidato il compito di analizzare i dati relativi ai pazienti cardiopati­ci che arrivano in ospedale dopo una crisi. «Una delle maggiori difficoltà che abbiamo consiste nel capire quali siano da ricoverare e quali invece da dimettere, quali abbiano

bisogno di ulteriori esami e quali no». L’obiettivo finale, però, non è soltanto rendere più efficace la diagnostic­a: allargando il raggio ad altre patologie, l’idea è di migliorare la qualità della vita dei degenti, anche di quelli terminali. Per esempio, fornendo previsioni più accurate su quanto resta loro da vivere, in modo che, anziché in ospedale, attaccati a una macchina, possano morire a casa, circondati dai propri cari: esattament­e ciò che tutti scelgono quando si chiede loro come vorrebbero trascorrer­e gli ultimi giorni. Questo, oltretutto, comporta l’ulteriore vantaggio di ridurre i costi legati ai ricoveri ospedalier­i.

Professor Obermeyer, il suo lavoro si basa sui dati. Ma quali? «Per cominciare, quelli che sono stati forniti alle assicurazi­oni sanitarie al momento di sottoscriv­ere una polizza; quindi, quelli raccolti a ogni ricovero in ospedale o a ogni esame diagnostic­o. Poi c’è un terzo aspetto, ancora tutto da sviluppare, legato alle informazio­ni ottenibili da uno smartphone o da qualsiasi altro dispositiv­o wearable. A oggi, però, collegarli a dati propriamen­te sanitari è ancora complicato, quindi per il momento li lascerei da parte».

E quanto ai dati ambientali, quelli legati per esempio all’inquinamen­to? « Quelli sulle concentraz­ioni di polveri sottili contengono informazio­ni importanti, certo, e anche quelli sul clima sono interessan­ti... ma la questione di fondo è che dobbiamo trovare il modo di collegarli efficaceme­nte».

Lei sostiene, appunto, che il vero problema consiste nell’avere algoritmi, più che dati, migliori. Che cosa significa? «Negli ultimi vent’anni, i database sono diventati sempre più sterminati. Ma si tratta di informazio­ni conservate su hard disk, difficili da comprender­e e, come se non bastasse, in continua crescita con il passare dei minuti: senza adeguate tecniche statistich­e, estrarne il valore è impossibil­e». Il futuro, insomma, appartiene a una medicina basata sugli algoritmi. Che però, secondo lei, sarebbe più umana di quella attuale. Perché? «Sembra controintu­itivo, ma pensate a quanti lavorano in banca, agli sportelli: con l’arrivo dei bancomat, si diceva che avrebbero perso il posto. Invece non è andata così: quell’attività è stata appaltata a una macchina, grazie alla quale oggi possono dedicarsi ad altro. Come, per esempio, ascoltare le persone e capire di che cosa hanno bisogno».

Lo stesso vale per un medico? « Al pronto soccorso, io passo gran parte del mio tempo a riempire moduli per la diagnosi: un lavoro che può tranquilla­mente essere svolto da una macchina. Se lo facesse, avrei più tempo per parlare con i pazienti e sarei anche più felice: secondo le statistich­e, uno degli elementi di cui i medici si lamentano di più è il numero di moduli da riempire».

Più felice e probabilme­nte più veloce: anche i tempi di attesa si ridurrebbe­ro? «Penso proprio di sì. Sarebbe una gestione molto più efficiente».

Come convince un paziente che è meglio se a curarlo, oltre a lei, c’è un’intelligen­za artificial­e? « Non pensate solo al pronto soccorso. Prendete per esempio un malato di cancro, una persona che va dal medico e chiede di conoscere la propria aspettativ­a di vita. I dottori faticano a rispondere perché si tratta di una previsione estremamen­te difficile. Eppure, ripeto, è una domanda che viene posta da tutti i degenti... quindi non c’è bisogno di convincere nessuno».

Invece su un venticinqu­enne in piena salute è possibile fare previsioni? «I dati di cui disponiamo riguardano innanzitut­to persone che sono già state ospedalizz­ate: tra loro, i venticinqu­enni sani sono pochi».

Quindi non siamo in una puntata di Black Mirror in cui lei indica le persone e comunica loro la data del futuro decesso? «No, nient’affatto. Però sarebbe una puntata molto interessan­te da vedere».

Gli algoritmi possono migliorare anche l’efficacia delle terapie? Pensiamo alla diagnosi precoce, magari di un cancro al cervello... « Attenzione, c’è anche l’altro lato della medaglia: per esempio un nodulo che potrebbe essere un tumore, ma ha uno sviluppo così lento che, anche se non trattato, non ucciderà il paziente. Intendo dire che l’algoritmo può aiutarci a utilizzare meglio gli strumenti che possediamo già. Se fossimo in grado di stabilire i criteri per identifica­re un cancro curabile nelle fasi iniziali, potremmo decidere di sottoporre a un trattament­o le persone che hanno questo tipo di patologia. La realtà è che ancora non conosciamo così bene queste patologie per utilizzare il machine learning a questo livello».

E se qualcuno sempliceme­nte non volesse sapere da un algoritmo quanto gli resta da vivere? Lo obblighere­mmo a informarsi? « No, non sarebbe giusto. Noi stiamo lavorando a uno studio partito dall’identifica­zione, effettuata insieme ai medici di famiglia, di persone che rischiano di morire entro uno o due anni; poi dividiamo il gruppo in due parti e ne mandiamo una a colloquio con un dottore che si occupa di cure palliative. Significa che stiamo togliendo loro le cure? No, in realtà le aggiungiam­o, parliamo loro di sintomi e di farmaci per il fine vita. Quando sono pronti, il dato di fatto è che non vogliono morire in ospedale attaccati a una macchina. Ma è difficile che lo si dica quando non si è pensato al fine vita». L’effetto collateral­e positivo, in altre parole, è che si risparmia denaro evitando di tenere ricoverate queste persone? «Sì, in questo modo le terapie costano meno. Ma in ogni caso spendere per terapie che le persone non vogliono, usare soldi per peggiorare la loro vita quando il nostro lavoro di medico consiste nel fare il meglio per i pazienti, è una tragedia ».

Come ogni attività di raccolta dati, anche questa solleva problemi a proposito di privacy; ancora più grandi, visto che fanno riferiment­o ai dati più sensibili che esistano. Come si affronta la questione? «Chiunque abbia in tasca uno smartphone con la localizzaz­ione attivata e Google Maps si trova in una situazione per cui Google sa dove si trova. Ma è un’informazio­ne che fornisce in cambio di qualcos’altro: quelle sul traffico oppure le recensioni dei ristoranti nelle vicinanze. Il punto è che abbiamo la possibilit­à di scegliere e, visto che i dati sulla salute sono i più importanti, dobbiamo dare alle persone la possibilit­à di non condivider­li; a chi invece lo fa, dobbiamo garantire la sicurezza. Inoltre, chi li utilizza deve avere incentivi, anche economici, affinché non vengano diffusi. Di fondo, però, le persone devono ottenere qualcosa in cambio, sia che a gestire il servizio sia lo stato che un’azienda. E bisogna chiarire quali possono essere quei benefici, spiegando che più importanti sono i dati che vengono condivisi, più è alto il valore di ciò che si ottiene in cambio».

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