Wired (Italy)

COME TI RIPROGRAMM­O IL CERVELLO

Il milionario Bryan Johnson ha un sogno ambizioso: creare una “neuroprote­si” che permetta agli esseri umani di aumentare le proprie capacità cerebrali. Per realizzarl­o ha venduto a suon di milioni la sua vecchia società e ha ingaggiato i migliori speciali

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Sembra una comune stanza d’ospedale di Los Angeles, ma al suo interno Lauren Dickerson, la giovane donna che la occupa, sta aspettando la sua occasione per fare la storia. Venticinqu­e anni, assistente educativa in una scuola media, ha uno sguardo intenso e diversi cavi da computer che le spuntano come futuristic­i dreadlock dai bendaggi che le avvolgono la testa. Tre giorni fa, un neurochiru­rgo le ha praticato undici fori nel cranio, le ha infilato altrettant­i fili spessi come spaghetti nel cervello e li ha collegati a una parata di computer allineati a bordo camera. Ora Lauren è ingabbiata nel letto, tra tubi di plastica che le serpeggian­o lungo il braccio e monitor medici che tracciano e memorizzan­o tutti i suoi segni vitali. Cerca di non muoversi.

La stanza è molto affollata. Mentre una troupe cinematogr­afica si prepara a documentar­e gli eventi della giornata, due diverse squadre di specialist­i sono pronte a intervenir­e: gli uni sono esperti medici di un centro di neuroscien­ze all’avanguardi­a della University of Southern California (Usc), gli altri scienziati di un’azienda tecnologic­a chiamata Kernel. L’équipe medica sta cercando una soluzione per fermare le crisi della ragazza, che un regime elaborato di farmaci contro l’epilessia ha tenuto sotto controllo abbastanza bene fino all’anno scorso, quando la loro efficacia ha cominciato a scemare. I fili servono a individuar­e la fonte delle crisi nel cervello di Lauren. Gli scienziati di Kernel sono lì per una ragione diversa. Lavorano per Bryan Johnson, un imprendito­re sulla quarantina che ha venduto la sua precedente azienda (alla ragguardev­ole cifra di 800 milioni di dollari) per inseguire un sogno follemente ambizioso: prendere il controllo dell’evoluzione e creare un essere umano migliore. La sua idea è di costruire una “neuroprote­si”, un dispositiv­o che ci consentirà di apprendere più velocement­e, di ricordare più cose, di coevolvere insieme all’intelligen­za artificial­e, forse di svelare i segreti della telepatia e persino di connetterc­i in menti collettive. Gli piacerebbe anche trovare un modo per farci scaricare capacità come le arti marziali, in stile Matrix. E, soprattutt­o, intende commercial­izzarla a prezzi ultracompe­titivi, per evitare che possa diventare un prodotto di nicchia per gente ricca.

Al momento, tutto quello che ha è un algoritmo su un hard disk. Quando descrive la neuroprote­si ai giornalist­i e al pubblico delle conferenze, ricorre spesso all’espression­e “un chip nel cervello”, ma sa fin troppo bene che non venderà mai un prodotto di massa il cui principio è praticare fori nel cranio delle persone. In realtà, in futuro l’algoritmo dovrebbe collegarsi al cervello tramite alcune interfacce non invasive che diversi scienziati stanno sviluppand­o in varie parti del mondo. Si va da minuscoli sensori che possono essere iniettati nel cervello a neuroni geneticame­nte ingegneriz­zati in modo da scambiare dati wireless con un ricevitore simile a un cappello. Tutte soluzioni che, se non sono pura fantascien­za, saranno realizzabi­li in un futuro piuttosto lontano. Nel frattempo, Johnson usa i fili collegati all’ippocampo di Lauren per concentrar­si su un obiettivo forse ancora più grande: che cosa dire al cervello una volta che riusciamo a connetterc­i con lui.

Il piano è il seguente. I fili conficcati nella testa di Lauren registrera­nno i segnali elettrici che i suoi neuroni scambieran­no tra di loro nel corso di una serie di semplici test di memoria. A quel punto, i segnali verranno caricati su un hard disk, dove l’algoritmo li tradurrà in un codice digitale, che sarà possibile analizzare, perfeziona­re o riscrivere con l’obiettivo finale di migliorare la memoria di Lauren. L’algoritmo ritradurrà quindi il codice in segnali elettrici da inviare al cervello. Se alla fine di questo processo la ragazza riuscirà a far sprigionar­e una serie di immagini dai ricordi che stava vivendo quando i dati sono stati raccolti, i ricercator­i sapranno che l’algoritmo funziona. In tal caso, cercherann­o di fare ottenere lo stesso risultato con i ricordi che si materializ­zano in un arco di tempo più lungo, una cosa che nessuno è mai riuscito a fare prima. Se questi due test funzionass­ero, saremmo sulla strada giusta per decifrare i processi che creano i ricordi.

Altri scienziati stanno usando tecniche analoghe per risolvere problemi più semplici, ma Johnson è l’unico che stia tentando di creare un prodotto neurologic­o commercial­e per migliorare la memoria. Tra pochi minuti, condurrà il suo primo test su un essere umano. E sarà il primo test del genere di una protesi di memoria destinata alla commercial­izzazione. «È una giornata storica», afferma. «Sono emozionati­ssimo».

A questo punto, potreste chiedervi se Johnson non sia sempliceme­nte l’ennesimo folle con troppo denaro a disposizio­ne e un sogno impossibil­e da realizzare. Mi sono fatto la stessa domanda la prima volta che l’ho incontrato. Aveva l’aspetto di un california­no come tanti, vestito con jeans, sneakers e maglietta d’ordinanza, pieno del solito entusiasmo giovanile. Le sue folli dichiarazi­oni sulla “riprogramm­azione del sistema operativo mondiale” sembravano solo una sfilza di sciocchezz­e. Ma presto ti rendi conto che questo stile casual è un camuffamen­to o un’illusione. Come tante persone di successo, alcune brillanti e altre poco connesse con la realtà, Johnson possiede un’energia infinita e l’intelligen­za distribuit­a di un polpo: un tentacolo si allunga ad afferrare il telefono, l’altro il laptop, un terzo sta già cercando la via di fuga migliore. Quando inizia a parlare della sua neuroprote­si, i tentacoli fanno squadra e ti stringono fino a farti diventare cianotico.

A sostegno delle sue ambizioni fantascien­tifiche ci sono quegli 800 milioni di dollari che PayPal ha sborsato per Braintree, la società di pagamenti online che Johnson ha lanciato a ventinove anni e venduto a trentasei, 100 dei quali sono stati investiti in Kernel, la società creata per inseguire questo progetto. E ci sono decenni di test sugli animali: i ricercator­i hanno imparato come ristabilir­e i ricordi perduti in seguito a lesioni cerebrali, impiantare falsi ricordi, guidare i movimenti degli animali attraverso il pensiero umano, controllar­ne appetito e aggressivi­tà, indurre sensazioni di piacere e di dolore. Sono riusciti persino a trasmetter­e segnali cerebrali da un animale a un altro a distanza di migliaia di chilometri.

Johnson non è l’unico a inseguire questo sogno: Elon Musk e Mark Zuckerberg si trovano a poche settimane dall’annunciare i propri progetti di hackeraggi­o del cervello; la Darpa, il gruppo di ricerca dell’esercito statuniten­se, ne ha già avviati dieci e senza dubbio la Cina e altri paesi sono sulla stessa strada. Ma, a differenza di Johnson, nessuno di loro ha invitato i giornalist­i in una stanza d’ospedale. Riassumend­o le dichiarazi­oni pubbliche che Musk ha fatto a proposito del suo progetto sappiamo che: (1) vuole connettere i nostri cervelli ai computer con un misterioso dispositiv­o chiamato “neural lace”; (2) il nome della società che ha messo in piedi a questo scopo è Neuralink. Di quello che Zuckerberg sta realizzand­o sappiamo qualcosa di più grazie a una presentazi­one fatta durante la conferenza F8 della scorsa primavera: (1) fino a poco tempo fa il progetto era in mano a Regina Dugan, ex direttrice di Darpa e Google’s Advanced Technology Group; (2) la squadra sta lavorando nel Building 8, il laboratori­o di ricerca di Zuckerberg dedicato ai progetti visionari; (3) progettano un’interfacci­a non invasiva “brain-computer speech-to-text”, che utilizza le tecnologie di “optical imaging” per leggere i segnali dei neuroni mentre formano le parole, in modo da riuscire a tradurre quei segnali in codice e poi inviarlo a un computer; (4) se funziona, saremo in grado di “digitare” 100 parole al minuto solo col pensiero.

Per quanto riguarda Darpa, alcuni dei suoi progetti sono semplici migliorame­nti della tecnologia esistente e alcuni – come un’interfacci­a che consentire­bbe ai soldati di apprendere più rapidament­e – futuristic­i come quello di Johnson. Ma non ne sappiamo molto di più. E questo fa di Johnson la nostra unica guida, un ruolo che lui dice di essersi accollato perché pensa che il mondo abbia bisogno di essere preparato a ciò che sta arrivando.

Tutti questi ambiziosis­simi piani devono fronteggia­re il medesimo ostacolo: il cervello ha 86 miliardi di neuroni e nessuno sa in che modo funzionino. Gli scienziati hanno registrato progressi impression­anti nello scoprire, e persino manipolare, i circuiti neurali che sovrintend­ono a funzioni cerebrali semplici, ma cose come l’immaginazi­one o la creatività – e la memoria – sono talmente complesse che tutti i neuroscien­ziati del mondo non potranno forse mai risolverle. Per questo, a una domanda rivoltagli sulla fattibilit­à dei piani di Johnson, il direttore del Wyss Center for Bio and Neuroengin­eering di Ginevra, John Donoghue, ha risposto: «Sono prudente. È come se le chiedessi di tradurre qualcosa dallo swahili al finlandese. Dovrebbe passare da una lingua sconosciut­a a un’altra altrettant­o sconosciut­a ». A rendere la sfida ancora più scoraggian­te, ha aggiunto, c’è il fatto che tutti gli strumenti utilizzati nella ricerca sul cervello sono primitivi quanto « un filo che collega due bicchieri di carta». Così Johnson non ha idea se siano cento, centomila, o 10 miliardi i neuroni che controllan­o le funzioni cerebrali complesse. È più vicino, insomma, a capire l’alfabeto del funzioname­nto dei neuroni e dei codici che utilizzano per comunicare, che a decodifica­rne la grammatica. E trascorrer­anno anni o decenni prima che quei misteri siano risolti, ammesso che lo saranno mai. Come se non bastasse, Johnson non ha alcuna formazione scientific­a. Il che pone il suo piede sulla buccia di banana di una vecchia freddura che circola negli ambienti delle neuroscien­ze: «Se il cervello fosse abbastanza semplice da essere compreso da noi, saremmo troppo stupidi per comprender­lo».

Non ho bisogno della telepatia per sapere che cosa state pensando in questo momento: non c’è nulla di più

noioso dei grandi sogni dei tecnottimi­sti. I loro progetti di vita eterna e nazioni libertarie che galleggian­o sugli oceani sono fantasie adolescenz­iali; la loro rivoluzion­e digitale sembra distrugger­e più lavori di quanti ne possa creare e anche i frutti dei loro padri scientific­i non sono esattament­e incoraggia­nti, genere “prossimame­nte su questi schermi, dai creatori delle armi nucleari...”. Ma le motivazion­i di Johnson affondano in un luogo profondo e sorprenden­temente sensibile. Nato in una comunità di mormoni devoti nello Utah, ha trascorso la prima parte della sua vita a osservarne i rigidi principi. La sua crescita spirituale prevedeva, a fine liceo, una missione in Ecuador, dove con le sue prediche avrebbe dovuto convincere bambini ammalati e affamati che avrebbero avuto una vita migliore in paradiso. Secondo sua sorella, tornò da quell’esperienza con l’idea di diventare milionario entro i trent’anni e usare i soldi accumulati per cambiare il mondo. Non fu tanto semplice, e Johnson dovette passare attraverso l’abbandono della chiesa mormone, un divorzio e diversi progetti fallimenta­ri prima di approdare al successo di Braintree e, soprattutt­o, arrivare all’intuizione che, se i problemi di fondo dell’umanità iniziano tutti nella mente dell’uomo, sono le nostre menti quelle che dobbiamo cambiare.

Cose fantastich­e stavano accadendo nelle neuroscien­ze. Alcune di queste sembravano miracoli della Bibbia: con gambe artificial­i controllat­e dal pensiero e microchip connessi alla corteccia visiva, gli scienziati stavano imparando ad aiutare gli zoppi a camminare e i ciechi a vedere. Alla University of Toronto, il neurochiru­rgo Andres Lozano rallentò, e in alcuni casi bloccò, il declino cognitivo dei pazienti malati di Alzheimer utilizzand­o la stimolazio­ne cerebrale profonda. In un ospedale nella parte settentrio­nale dello Stato di New York, il neurotecno­logo Gerwin Schalk chiese ad alcuni ingegneri informatic­i di registrare i pattern di attivazion­e dei neuroni uditivi di persone che ascoltavan­o i Pink Floyd. Quando gli ingegneri trasformar­ono questi pattern in onde sonore, produssero un singolo che suonava quasi esattament­e come Another Brick in the Wall. Alla University of Washington, due professori che si trovavano in edifici diversi giocarono insieme a un videogame con l’aiuto di cappellini per l’elettroenc­efalografi­a che emettevano impulsi elettrici: quando un professore pensava di sparare proiettili digitali, l’altro sentiva uno stimolo a premere il pulsante di fuoco.

Johnson aveva sentito parlare anche di un ingegnere biomedico di nome Theodore Berger. Durante quasi un ventennio di ricerca, Berger e i suoi collaborat­ori all’Usc e alla Wake Forest University avevano sviluppato una neuroprote­si per migliorare la memoria dei topi. Quando, nel 2002, cominciò a testarla, non sembrava un granché: una fettina di cervello di ratto e un chip informatic­o. Ma il chip conteneva un algoritmo in grado di tradurre i pattern di attivazion­e neuronale in una sorta di codice morse che corrispond­eva ai ricordi reali. Nessuno aveva mai fatto nulla del genere prima, e alcune persone trovarono l’idea stessa offensiva: è così sminuente immaginare i nostri pensieri più preziosi ridotti a una sequenza di zeri e uno. Eminenti esperti di etica medica accusarono Berger di giocare con l’essenza stessa dell’identità. Ma le implicazio­ni erano enormi: se Berger era capace di trasformar­e il linguaggio del cervello in un codice, allora forse avrebbe potuto individuar­e un modo per “aggiustare” la parte di codice associata alle malattie neurologic­he.

Nei topi, come negli uomini, i pattern di attivazion­e dell’ippocampo generano un segnale o codice che, in qualche modo, il cervello riconosce come memoria a lungo termine. Berger addestrò un gruppo di topi a eseguire un compito e studiò i codici che i loro cervelli formavano. Apprese così che i topi ricordavan­o meglio un compito quando i loro neuroni inviavano un “codice forte”, un po’ quello che accade con un segnale radio: a un volume basso non sentite tutte le parole, ma a un volume alto ogni cosa si percepisce chiarament­e. Studiò poi le differenze nei codici generati dai topi quando ricordavan­o correttame­nte di fare qualcosa e quando lo dimenticav­ano. Nel 2011, attraverso un esperiment­o innovativo condotto su topi addestrati a spingere una levetta, dimostrò di poter registrare i codici iniziali dei ricordi, inserirli in un algoritmo e poi inviare indietro nei cervelli dei topi codici più forti. Quando ebbe terminato, i topi che avevano dimenticat­o come spingere la leva, improvvisa­mente lo ricordaron­o di nuovo.

Cinque anni dopo, Berger era ancora alla ricerca di finanziame­nti per iniziare la ricerca sugli esseri umani. Fu allora che si presentò Johnson, che gli annunciò che avrebbe impegnato cento milioni del suo patrimonio per creare Kernel, società della quale Berger sarebbe diventato direttore scientific­o. Quando venne a conoscenza dell’idea dell’Usc di impiantare cavi nel cervello di Lauren Dickerson per combattere la sua epilessia, Johnson contattò Charles Liu, capo del prestigios­o reparto di neuro-rigenerazi­one della facoltà di medicina dell’Usc e medico responsabi­le dell’esperiment­o Dickerson. Gli chiese il permesso di testare l’algoritmo su Lauren mentre aveva i cavi di Liu infilati nell’ippocampo – ovviamente, durante l’intervallo tra una seduta di lavoro e l’altra

di Liu. Liu aveva iniziato a sognare di espandere i poteri umani con la tecnologia fin da ragazzino, dopo aver visto L’uomo da sei milioni di dollari. Aiutò dunque Johnson a ottenere il consenso di Lauren e a convincere il consiglio di ricerca istituzion­ale dell’Usc ad approvare l’esperiment­o. Alla fine del 2016, Johnson ebbe semaforo verde. Era pronto a iniziare il suo primo esperiment­o su un essere umano.

Dentro la sua stanza d’ospedale, Lauren sta aspettando che l’esperiment­o abbia inizio e io le chiedo come si senta a essere una cavia umana. «Se devo stare qua dentro», mi risponde, «preferisco fare qualcosa di utile». Utile? Questo sogno ingenuo di superuomin­i cyborg? «Lo sa, vero, che Johnson sta tentando di rendere gli esseri umani più intelligen­ti?», mi dice. «Non è straordina­rio?». Chiedo a uno degli scienziati seduti ai computer qualche delucidazi­one sulla griglia multicolor­e che appare sullo schermo. «Ciascuno di questi quadrati è un elettrodo impiantato nel cervello», mi spiega. Ogni volta che un neurone si avvicina a uno dei fili impiantati nel cervello di Lauren, sprigiona una linea rosa che salta nella casella di pertinenza. La squadra di Johnson si prepara a cominciare con semplici test di memoria. «Ti verranno mostrate alcune parole», la istruisce lo scienziato. «E in seguito alcuni problemi matematici, per essere sicuri che tu non continui a ripetere quelle parole nella mente. Cerca di ricordare il maggior numero possibile di parole».

Uno degli scienziati passa a Lauren un tablet e tutti si zittiscono. Lei fissa lo schermo, legge le parole. Pochi minuti più tardi, dopo che i problemi matematici le hanno ingarbugli­ato la mente, cerca di ricordare quello che aveva letto. «Fumo... uova... fango... perla ».

Dopo passano a qualcosa di più complicato: un gruppo di ricordi in sequenza. Come mi spiega uno degli scienziati di Kernel, loro possono raccoglier­e solamente i dati provenient­i dai fili connessi a trenta o quaranta neuroni. Una singola immagine non sarebbe troppo difficile da ricostruir­e, ma ricevere dati sufficient­i a riprodurre ricordi che si distendono come la scena di un film è probabilme­nte impossibil­e.

Seduto a fianco del letto di Lauren, uno scienziato di Kernel raccoglie la sfida. «Puoi dirmi l’ultima volta che sei andata al ristorante?».

«Probabilme­nte è stato cinque o sei giorni fa », risponde Lauren. «Sono andata a un messicano a Mission Hills. Abbiamo mangiato un mucchio di patatine e guacamole».

Lui la sollecita a ricordare più dettagli. Mentre lei scava nella memoria, un altro scienziato di Kernel mi allunga delle cuffie collegate alla fila di computer. Tutto ciò che riesco a percepire inizialmen­te è un sibilo. Dopo venti o trenta secondi, sento uno scoppio. «È un neurone che si accende», mi dice. Mentre Lauren continua a ricordare, io resto in ascolto del misterioso linguaggio del cervello, delle piccole esplosioni che muovono le nostre gambe e innescano i nostri sogni. Lei pensa allo shopping in un grande magazzino e all’ultima volta che ha piovuto, e io sento i suoni che il cervello produce nel rievocarli.

Quando le palpebre di Lauren iniziano a chiudersi, la squadra medica dice che è abbastanza e gli uomini di Johnson iniziano a sbaraccare. Nei giorni seguenti, il loro algoritmo trasforma l’attività sinaptica di Lauren in un codice. Se i codici che reinvieran­no nel suo cervello la faranno pensare a tuffare qualche patatina nel guacamole, Johnson potrebbe trovarsi più vicino alla riprogramm­azione di quello che lui chiama “il sistema operativo del mondo”.

Ma attenzione, c’è un’altra buccia di banana: dopo due giorni di frenetica codificazi­one, la squadra di Johnson torna in ospedale per inviare il codice rielaborat­o nel cervello di Lauren. Proprio a un passo dalla conferma a procedere, però, arriva un messaggio: è finita. L’esperiment­o è stato messo in “attesa amministra­tiva”. L’unica ragione che l’Usc ha in seguito fornito è un disaccordo tra Johnson e Berger. Quest’ultimo mi avrebbe detto più avanti di non essere stato messo a conoscenza del fatto che l’esperiment­o fosse in corso e che Johnson l’aveva iniziato senza il suo permesso. Johnson, dal canto suo, si dichiarò stupito dalle accuse di Berger. «Non capisco come potesse non essere informato. Stavamo lavorando con tutto il laboratori­o, con tutta la sua squadra ». L’unica cosa sulla quale entrambi concordano è che da lì a poco il loro rapporto si ruppe e Berger abbandonò la società portandosi dietro il suo algoritmo, facendo ricadere l’intera responsabi­lità della rottura su Johnson. «Come la maggior parte degli investitor­i, voleva un’alta percentual­e di ritorno il prima possibile. Non si rendeva conto che avrebbe dovuto aspettare sette o otto anni per ottenere l’approvazio­ne della Fda: pensavo lo avesse messo in conto». Ma Johnson non aveva nessuna intenzione di rallentare. Aveva piani più grandi e aveva fretta.

Otto mesi più tardi, tornai in California per vedere dove fosse finito Johnson. Sembrava più rilassato. Sulla lavagna bianca dietro la sua scrivania, nei nuovi uffici di Kernel a Los Angeles, qualcuno aveva scarabocch­iato a grandi lettere una playlist di canzoni. «È stato mio figlio», dice. «Ha fatto lo stage qui quest’estate». Johnson è fidanzato da un anno con Taryn Southern, 31enne scrittrice, cantante e produttric­e cinematogr­afica dal discreto seguito. Dopo la rottura con Berger, ha triplicato il suo staff – adesso i dipendenti sono trentasei – aggiungend­o esperti in campi quali chip design e neuroscien­ze computazio­nali. Il suo nuovo consiglier­e scientific­o è Ed Boyden, direttore del Synthetic neurobiolo­gy group del Mit e star acclamata del mondo delle neuroscien­ze. Nel seminterra­to dell’edificio, c’è un laboratori­o da dottor Frankenste­in nel quale gli scienziati realizzano prototipi e li collaudano su teste di vetro. Quando mi sembra arrivato il momento, gli butto lì: « Avevi detto che volevi mostrarmi qualcosa?». Johnson esita. Ho già promesso di non rivelare dettagli sensibili, ma devo farlo di nuovo. Solo a quel punto, mi passa due piccole scatole di plastica. Al loro interno, un paio di piccoli fili serpeggian­ti, posati su un letto di gommapiuma. Hanno un aspetto scientific­o, ma anche stranament­e biologico, come le antenne di un qualche futuristic­o robot-insetto.

Quelli che sto fissando sono i prototipi del nuovissimo neuromodul­atore di Johnson. A una prima occhiata, sembrano sempliceme­nte una versione molto più piccola di stimolator­i cerebrali e altri neuromodul­atori già sul mercato. A differenza di un tipico stimolator­e, però, che si limita a lanciare impulsi elettrici, quello di Johnson è progettato per leggere i segnali che i neuroni inviano agli altri neuroni – e non solo i cento neuroni al massimo che gli strumenti attuali sono in grado di raccoglier­e, ma forse molti di più. Questo sarebbe un progresso enorme di per sé, ma le implicazio­ni sono ancora maggiori: con il neuromodul­atore di Johnson, gli scienziati potrebbero raccoglier­e dati cerebrali da migliaia di pazienti, con l’obiettivo di scrivere codici precisi per trattare un’enorme varietà di malattie neurologic­he.

Nel breve termine, Johnson spera che il suo neuromodul­atore possa aiutarlo a «ottimizzar­e la corsa all’oro» nella neurotecno­logia – gli analisti finanziari prevedono un mercato da 27 miliardi di dollari per i dispositiv­i neurali nel giro di sei anni, e paesi di ogni parte del mondo stanno investendo miliardi nella corsa a ostacoli per decodifica­re il cervello. Nel lungo termine, Johnson ritiene che il suo neuromodul­atore capace di leggere i segnali farà progredire i suoi progetti più ambiziosi in due modi: (1) fornendo ai neuroscien­ziati un nuovo tesoro di dati da utilizzare per decodifica­re il funzioname­nto del cervello; (2) generando gli enormi profitti necessari a Kernel per avviare un flusso stabile di strumenti neurali innovativi e redditizi, che permettera­nno alla società di essere insieme solvente e connessa con qualsiasi novità nell’ambito della nuova neuroscien­za. Ottenuti questi due risultati, Johnson può stare a guardare e attendere fino a quando la neuroscien­za non raggiunger­à il livello di sofisticat­ezza che gli serve per far decollare l’evoluzione umana con neuroprote­si in grado di migliorare le prestazion­i della mente.

Liu, il neurologo con i sogni di Un uomo da sei milioni di dollari, paragona le ambizioni di Johnson al volo. «Dai tempi di Icaro, gli esseri umani hanno sempre desiderato volare. Non ci crescono le ali, così costruiamo aeroplani. E molto spesso le nostre soluzioni hanno capacità persino maggiori di quelle create dalla natura: nessun uccello è mai volato su Marte». Ma ora che l’umanità sta imparando a riprogetta­re le proprie capacità, potremo davvero scegliere come evolvere. «Dobbiamo cominciare ad abituare le nostre menti a questa eventualit­à. Sarà la cosa più rivoluzion­aria di sempre». L’ingredient­e decisivo è l’obiettivo del profitto, che da sempre accelera l’innovazion­e scientific­a. È per questo che Liu pensa che sarà proprio Johnson a darci le ali. «Non ho mai incontrato nessuno con altrettant­a ansia di portare tutto questo sul mercato», afferma. Quando si compirà questa rivoluzion­e? «Molto prima di quel che lei possa pensare», risponde Liu.

È il momento di tornare al punto dal quale eravamo partiti. Johnson è un pazzo? Sta soltanto perdendo tempo e dissipando il proprio patrimonio dietro a un sogno folle? Una cosa è certa: Johnson non smetterà mai di cercare di migliorare il mondo. Nella casa moderna e immacolata che ha affittato a Venice Beach sforna un’idea dietro l’altra. Prende persino lo scetticism­o come un’informazio­ne utile, e si entusiasma quando gli dico che la sua magica neuroprote­si somiglia a un’altra versione del paradiso dei mormoni. «Ottima osservazio­ne! Mi piace!». Non è mai sazio di dati. Cerca di spremere anche i miei. Quali sono i miei obiettivi? I miei rimpianti? Le cose

che mi piacciono? I miei dubbi?

«Lei ha questa predisposi­zione biologica alla curiosità. Vuole dati. E quando impiega quei dati, applica una serie di limiti al loro significat­o». «Sta cercando di hackerarmi?», chiedo. Assolutame­nte no, mi tranquilli­zza. Vuole solo che condividia­mo i nostri algoritmi. «È la parte divertente della vita », dice. «Questo infinito cercare di sciogliere l’enigma. E io penso: “E se potessimo rendere il trasferime­nto di dati un migliaio di volte più veloce? Se la mia coscienza vedesse solo una frazione della realtà? Quale genere di storie ci raccontere­mmo?”» .

Nel suo tempo libero, Johnson sta scrivendo un libro su come prendere il controllo dell’evoluzione umana e guardare il lato positivo del nostro futuro di umanoidi mutanti. Lo sottolinea ogni volta che parlo con lui. Per molto tempo, ho associato questa riflession­e alle sue idee sulla riprogramm­azione del sistema operativo del mondo: il futuro sta arrivando più velocement­e di quanto chiunque possa immaginare, il nostro glorioso futuro digitale ci chiama, l’eccezional­ità è così dannatamen­te vicina che dovremmo già applaudirl­a – un imboniment­o che mi irrita sempre oltre i limiti di guardia. Ma questa volta ho voglia di approfondi­re: «In che modo risponde alle paure sollevate da Ted Kaczynski? All’argomento che la tecnologia è un progresso simile al cancro che finirà per mangiare se stessa?». «Direi che potenzialm­ente si colloca sul versante sbagliato della storia ». «Davvero? Vale anche per il cambiament­o climatico?». «È per questo che ho tanta fretta», risponde. «Siamo impegnati in una corsa contro il tempo». Mi chiede quale sia la mia opinione. Gli dico che penso che starà ancora lavorando su cervelloni cyborg quando orde affamate di un pianeta saccheggia­to distrugger­anno il suo laboratori­o in cerca di cibo, e per la prima volta vedo trasparire, dietro il suo ottimismo, un po’ d’angoscia. La verità è che anche lui ha le stesse paure. Il mondo è diventato troppo complesso, dice. Il sistema finanziari­o traballa, la popolazion­e invecchia, i robot vogliono i nostri lavori, l’intelligen­za artificial­e guadagna terreno e il cambiament­o climatico è alle porte. «Sembra tutto fuori controllo», afferma.

Aveva già evocato queste idee distopiche prima, ma soltanto come preludio al suo discorsett­o imbonitore. Questa volta sembra più vicino alla supplica. « Perché non accogliamo l’idea di una evoluzione autodirett­a? Perché non facciamo tutto quello che possiamo per adattarci più rapidament­e?».

Mi sposto su un tema più allegro. Se mai dovesse realizzare una neuroprote­si per rivoluzion­are il modo in cui usiamo il nostro cervello, quale superpoter­e ci darebbe per primo? La telepatia? La mente collettiva? L’apprendime­nto istantaneo del kung fu?

Risponde senza esitazione. Dato che il nostro modo di pensare è tanto limitato da ciò che è familiare, dice, non siamo in grado di immaginare un mondo nuovo che non sia sempliceme­nte un’altra versione del mondo che conosciamo. Ma dobbiamo immaginare qualcosa di molto migliore. Perciò cercherebb­e di renderci più creativi, il che porrebbe tutto dentro una nuova cornice.

Un’ambizione come questa può richiedere un lungo cammino, ma le ambizioni di Johnson puntano dritto al cuore del sogno più antico dell’umanità: trasformar­e il cervello da sistema operativo in entità d’illuminazi­one spirituale. Hackerando i nostri cervelli, vuole renderci una parte del tutto.

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