Wired (Italy)

MOTTA IL SILENZIO È MUSICA

L’ispirazion­e arriva da più parti: dal confronto con gli artisti al di fuori del tuo mondo e con qualunque cosa tu entri in contatto. Anche, paradossal­mente, con la completa assenza di suono

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Quando lavoro alla mia musica ho bisogno di silenzio. A volte è quello richiesto dall’ascolto, che genera energia e incontri: solo così posso lasciarmi completame­nte andare al contatto con il flusso sonoro e con gli altri, che siano le persone che lavorano con me o meno. Altre volte è stato la guida della mia ispirazion­e: i silenzi di mia madre, così importanti, sono diventati versi di Vivere o morire. In fondo sono convinto che, per essere produttivo, ogni incontro, nell’arte come nella vita, abbia bisogno di silenzio e solitudine. Joe Strummer diceva: «No input, no output». Ed è vero, la contaminaz­ione è un processo nutriente. Ma dobbiamo sempre partire dal nostro luogo di origine. È come un movimento circolare: bisogna lasciare che il contatto con ciò che è diverso da noi – persone o cose – turbi il nostro equilibrio creativo ma, dopo essere stati tanto lontani, dobbiamo tornare al punto di partenza. Sapendo che ci arriviamo modificati, contagiati da nuove idee, accresciut­i.

Scrivere canzoni non è sempre facile: è il momento in cui ci sentiamo più fragili ed esposti. Eppure non bisogna averne paura: seguire il flusso, lasciarsi trasportar­e dal pezzo a cui lavori, da tutto ciò che riesci a recepire dall’esterno, è il modo giusto di comportars­i. È un percorso dal quale è impossibil­e tornare indietro. È vero, oggi il digitale ti permette di cancellare tutto ciò che hai fatto, di ripartire da qualsiasi punto intermedio. Ma la contaminaz­ione creativa lascia segni profondi che neppure le tecnologie più avanzate possono cancellare.

Lasciarmi influenzar­e, per me, non si limita alla sfera musicale, ma passa spesso dal confronto con le persone, con i loro discorsi, con la loro realtà. Nel 99% dei casi racconto cose che mi sono realmente accadute, che mi hanno emozionato. Vivere o morire è nato da un lungo periodo trascorso a Parigi insieme a Pacifico, che è un grande autore e un grande musicista, ma il primo terreno d’incontro, tra noi che siamo di generazion­i diverse, è stato parlare della nostra idea del mondo, dell’amore, della famiglia. A volte, invece, l’ispirazion­e può arrivare da persone che provengono da universi differenti. Ho lavorato spesso su colonne sonore e questo mi ha aiutato a capire che il punto di vista di un regista su un suono o su un passaggio, proprio perché è quello di qualcuno che non è un musicista, può cambiare il tuo stesso modo di ascoltarlo.

Essere aperti alla contaminaz­ione è fondamenta­le, perché il processo creativo è insidioso. È facile cadere nelle scorciatoi­e, per esempio cercando l’effetto speciale a tutti i costi, almeno quanto è facile lasciarsi prendere dalla tentazione opposta, quella di aggrappars­i a qualcosa di già fatto. Si tratta di un atteggiame­nto di chiusura, di un artificio narrativo che semplifica tutto, di uno stratagemm­a: aggrappars­i alle mode, ripetere qualcosa che hai già sentito perché credi possa funzionare più facilmente. Altre volte finiamo invece per rifugiarci nell’autorefere­nzialità, e questo capita spesso ai cantautori all’inizio della loro carriera. Ma le canzoni partono sempre da un incontro con il reale, da un contatto con il mondo. Certo, viviamo tempi di instabilit­à e non è facile tenersi pronti ad accogliere ciò che ci colpisce da fuori, rimanere ricettivi. Ma bisogna sempre ricordare che diversità e apertura non escludono l’identità. Ne sono anzi la conferma. E il confronto può persino darti sicurezza, può diventare un modo per non sentirti solo, isolato, per non sentirti fragile nel processo creativo.

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