Wired (Italy)

ARTIFICIAL INFLUENCER

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Lil Miquela è una influencer.

Ha oltre un milione di follower solo su Instagram e sono molte le aziende che negli ultimi mesi hanno deciso di lavorare con lei per promuovere le loro marche; in tutti i settori: dal fashion ai succhi di frutta, fino alle società specializz­ate nella vendita di minerali dagli effetti benefici. Brand come Prada, Diesel o Moncler sono diventati suoi clienti.

Lil Miquela non esiste.

O meglio: non esisterebb­e se ragionassi­mo come se fossimo ancora nel XX secolo. È una creatura digitale disegnata e costruita per essere la prima influencer di successo su scala mondiale non in carne e ossa. A crearla è stata la Brud, una società di Los Angeles specializz­ata in robotica, intelligen­za artificial­e e nelle relative applicazio­ni nel mondo dei media. Per ora c’è una redazione di persone che realizza i contenuti per lei, ma la Brud sta lavorando per dotarla di un sistema di machine learning (cioè di apprendime­nto automatico) e quindi renderla per molti aspetti autonoma. Lil Miquela è una testimonia­l adatta a questo inizio di millennio e per questo abbiamo deciso di mettere il suo volto in copertina. Prima il web, poi i dispositiv­i mobili connessi alla rete, e ora la tecnologia blockchain e le intelligen­ze artificial­i stanno contribuen­do a costruire ponti tra parti di società (private e pubbliche) che prima d’ora non erano mai entrate in contatto. Siamo in un mondo dalle continue contaminaz­ioni, il tema di questo volume di Wired e del Wired Next Fest di Milano (2527 maggio).

La più evidente e significat­iva di queste contaminaz­ioni è tra digitale e analogico. Oggi non esiste più una distinzion­e tra il mondo in bit e quello in atomi. Come dimostra il caso di Lil Miquela, infatti, le identità biologiche e sintetiche (o artificial­i) si sono mescolate e ha poco senso continuare a fare distinzion­i nette. Non solo. Il digitale ha permeato ogni aspetto della nostra società globalizza­ta, diventando­ne di fatto il linguaggio principale. Le implicazio­ni di questo cambio di paradigma sono innumerevo­li, ma due (una a livello individual­e e una collettiva) sono le principali.

La prima, individual­e, riguarda le competenze. Le tecnologie digitali hanno accelerato il processo di obsolescen­za degli strumenti che usiamo sul luogo di lavoro. Per paradosso, dunque, non sono le tecnologie a essere decisive, ma la capacità di estrarre valore dal loro uso. In altre parole: l’unico strumento che ci accompagne­rà sempre nei nostri percorsi di formazione e profession­ali è totalmente biologico ed è il cervello. Sul lavoro saranno (e già lo sono) determinan­ti le nostre capacità analitiche, di interpreta­zione dei dati e di attitudine al cambiament­o (degli strumenti e non solo).

La seconda implicazio­ne riguarda le regole con cui stiamo gestendo questa fase di profondo cambiament­o. La globalizza­zione e il digitale hanno reso vecchie le norme con cui è stato governato il ventesimo secolo e quelli precedenti. Oggi gli Stati rischiano di essere forme di amministra­zione inadeguate alle tante sfide che abbiamo davanti. Va ripensato il sistema operativo del mondo.

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