UNA TRIBÙ DI PIANTE
Lamentiamo l'assenza di verde nei nostri quartieri, ma i giardini sono circoscritti per prevenire ogni promiscuità tra uomo e piante. Alcuni stati stanno incentivando non nuovi parchi ma aree che formino un mosaico continuo e integrato nel tessuto urbano
Una delle ultime canzoni dei Talking Heads, (Nothing but) Flowers, racconta con sarcasmo un mondo sovrappopolato, in cui i confini tra metropoli e natura sono crollati come il Muro di Berlino, rimescolando le vite di tutti. Per sfamare un’umanità ipertrofica, autostrade e parcheggi hanno fatto posto all’agricoltura e invece di supermercati e fabbriche ci sono solo fiori: lo spazio contaminato dall’antropizzazione è stato riconquistato da piante e animali. Quello che prima era un rapporto da separati in casa, noi in città e loro in campagna, ora è alla pari e, anzi, tutti i segni del progresso urbano si sono dissolti. Il protagonista pare lieto del tripudio di bestie e verdure, ma in realtà rimpiange negozi, auto e tutto quanto fa progresso: bella la natura, ma solo quando sta a casa sua e fa quel che desidero, senza complicazioni sentimentali.
I numeri dicono che quello raccontato dai Talking Heads potrebbe essere uno scenario futuribile e gli studi recenti di tipo ecologico, comportamentale ed evoluzionistico provano a suggerire strategie educative e di gestione del verde urbano che possano facilitare il processo, sia per noi uomini sia per gli altri organismi viventi. Nel 1950, solo il 30% dell’umanità viveva in agglomerati urbani, per crescere poi al 54% nel 2014 e le stime prevedono che si arriverà al 66% nel 2050. Nel 2030 la superficie terrestre occupata da città potrebbe risultare triplicata rispetto al 2000, superando di molto il milione di chilometri quadrati. Sarà popolata dai bambini di oggi. Come si relazioneranno con la natura persone che nascono, crescono e vivono quasi solo in aree ad alta urbanizzazione? E, al contrario, piante e animali come rispondono alla vita in metropoli costruite a misura d’uomo? Cosa soddisfa le reciproche esigenze? La risposta, diciamolo subito, è mescolarsi di più.
Ho iniziato a canticchiare (Nothing but) Flowers osservando mio figlio alle prese con i primi sintomi della schizofrenia della canzone, rappresentati da come viviamo la cosiddetta “urban wilderness”, la natura selvaggia metropolitana. Lamentiamo l’assenza di verde nelle nostre città, ma l’area giochi in cui passiamo i pomeriggi è perfettamente denaturalizzata, per prevenire ogni promiscuità: pavimentazione sintetica, non una zona di terra o inerbita, nessun contatto fisico con rischi e magie della natura. La zona è sigillata da una cancellata, che preclude l’accesso a quel relitto di selvaticità costituito da un parco nel centro di Milano e risponde perfettamente alla visione della canzone: separati in casa è meglio, finché si può. La contaminazione, i bambini, però, la cercano e lo sport preferito è scappare rientrando con rami, foglie, fiori e semi con cui avviare giochi, scambi e relazioni. Questo comportamento è una gioia per chi, come lo scrittore Richard Louv, nell’ultimo decennio ha definito il cosiddetto Nature Deficit Disorder. Questo disagio deriverebbe da uno scarso contatto diretto con la natura e dalla limitata contaminazione con tutti i viventi non umani; ne soffrono i bambini che osservano il mondo dal finestrino di un’auto o attraverso uno schermo televisivo, senza sporcarsi mani, ginocchia e vestiti e senza vivere con sense of wonder la varietà della natura.
Per le nuove generazioni urbane, le esperienze naturalistiche dirette sono lentamente sostituite da quelle non pratiche ed è sempre più chiaro che questa dinamica contribuisce a una crescente incapacità nel relazionarsi con l’esperienza di vita altrui. Quando presente, l’esperienza è limitata a zone circoscritte e non realmente collegate alla natura: recinti urbani fatti di tante isole separate tra loro e a loro volta non comunicanti col mondo extraurbano, ovvero sempre uguali. Al contrario, studi condotti da dieci anni a questa parte rivelano che l’esposizione a contesti realmente naturali aumenta le capacità cognitive, di problem-solving e la concentrazione dei bambini. Dal momento che mio figlio e i suoi coetanei saranno gli abitanti delle città del 2030 e oltre, questo influenza la composizione della società, ma anche l’ambiente e i suoi bisogni.
L’attuale gestione del nostro rapporto a tre tra adulti, bambini e natura (sublimando le paure, minimizzando le fatiche quotidiane, modellando la natura in strutture isolate) significa guardare al benefit nell’immediato senza considerare il bonus a lungo termine. È l’uovo oggi, che fa perdere la gallina domani rinunciando a costruire un rapporto valoriale tra cittadini futuri e ambiente basato sul senso di meraviglia prodotto dall’esplorazione e dalla novità di un habitat vitale, biologicamente interconnesso e dinamico, ben diverso da un recinto giochi all’interno di un parco-recinto. Per chi non sviluppa questa emozione, l’ambiente non è in genere un valore, dicono gli studi psicologici: i bambini che hanno vissuto il sense of wonder naturalistico attraverso la contaminazione personale hanno una maggiore probabilità di essere adulti rispettosi dell’ambiente e saranno più facilmente in grado di portare questo valore nella gestione delle metropoli del 2030.
Mentre mio figlio cerca di sezionare la samara di un tiglio, osservo i giardini privati che si affacciano sul parco, notando la stessa schizofrenia tra bisogno di controllo e desiderio di esplorazione. Il giardino ha un forte valore identitario, una sorta di proiezione della personalità e di quel che si vuole mostrare agli altri. È spesso il primo biglietto da visita messo in mano a chi entra in casa, un’estensione dell’arredo interno che fa parte di quel complesso sistema di non detti con cui definiamo la nostra posizione nella società: gli economisti lo collocano tra i beni posizionali, luoghi gestiti per segnalare la propria condizione sociale e pertanto sottoposti agli stessi rischi simbolici di qualunque merce. Gli studiosi del comportamento hanno indagato a fondo le motivazioni che conducono alla scelta di uno stile di giardino rispetto a un altro: chi ama quello “manicure”, ordinato e preciso, è una persona con un forte bisogno di strutture interiori e riflette questa sua esigenza nella gestione di tutti i propri spazi pratici e mentali. Non gli piace il rischio e i suoi principi sono prioritari nelle relazioni col mondo esterno. Per queste persone, giardini e parchi sono l’anticamera per comunicare i valori che regolano l’interno della casa, e secondo le ricerche questo spazio non è una finestra aperta sul mondo, ma una porta socchiusa sull’interno della propria personalità, uno strumento da usare e non una realtà da condividere. Al contrario, chi prova passione per giardini più selvatici e meno vincolati a canoni sociali manifesta un maggiore bisogno di comprendere e scoprire; per lui il giardino, privato o pubblico, è una porta aperta sul mondo, un elemento connesso con l’ambiente più che con la società.
Questo bipolarismo spiega, secondo chi lo ha studiato, alcune tendenze. A una delle estremità si colloca la visione dominante, che isola il parco dall’ambiente circostante e lo tratta come un luogo su cui imporre parametri estetici sanciti dalla cultura del luogo e dalle dinamiche sociali, dal bisogno di definire il proprio prestigio e minimizzare qualsiasi rischio a prescindere dalle istanze della natura. In base a questo modello, le esigenze di scambio tipiche degli ambienti naturali (scambio genetico tramite riproduzione e dispersione, per esempio) sono secondarie rispetto alle esigenze di fruizione estetica e pratica: il giardino è lo specchio del proprietario, la pianta un suppellettile, l’albero un arredo, la vitalità della natura un elemento da recintare. All’estremità opposta vi sono i giardini più diffusi, interconnessi e meno formalizzati, dove la natura non è uno strumento da plasmare ma un’entità accolta per quello che è. I primi seguono la stessa logica con cui è stata costruita l’area giochi in cui sono con mio figlio e con cui funziona il mondo perduto di (Nothing but) Flowers: una stanza all’aperto con la natura tenuta a distanza.
LÕadattamento è un motore fondamentale per la sopravvivenza e in questo le metropoli si configurano come qualsiasi altro habitat: una serie di nicchie in cui alcuni organismi riescono a prosperare meglio di altri. E come la vita di città cambia la visione che noi e i nostri figli abbiamo della natura, così piante e animali stanno cambiando, rapidamente, per adattarsi ai nostri parchi urbani come se fossero isole di un arcipelago. Un’analisi condotta recentemente su oltre 1600 variazioni nel fenotipo di organismi viventi ha confermato che quello urbano è l’habitat capace di indurre più trasformazioni, accelerando in modo più marcato le dinamiche evolutive. In altre parole, gli esseri viventi di città cambiano di più e prima dei loro omologhi di campagna. Per esempio, i corvi di città manifestano una rapidità molto maggiore nello sviluppare strategie di recupero del cibo basate sull’uso di strumenti logici e di operazioni “manuali”. Nel caso delle piante, temperature più elevate, esposizione a sostanze inquinanti, ostacoli fisici, scarsità di risorse, impollinatori e frammentazione facilitano la formazione di tribù ben separate, che non si riproducono tra loro anche a poche centinaia di metri di distanza. Queste tribù possono avere caratteristiche trasversali, per esempio una minore produzione di foglie e maggiori capacità di trattenere acqua per sopravvivere a calore e siccità, e spesso ospitano meno piante native, per via della loro minore flessibilità rispetto a piante provenienti da altri climi più simili a quello metropolitano. In molte indagini condotte in città centroeuropee si è osservata una sempre maggiore biodiversità urbana rispetto alle campagne circostanti negli ultimi due secoli: la crescita delle nicchie urbane e il loro isolamento rispetto all’esterno hanno dato asilo a molte specie di varia origine, mentre l’uniformità agricola ha diminuito quelle presenti nei dintorni. Una differenza importante riguarda i semi, anche quelli delle comuni erbacce. Mentre in campagna piante rustiche come Crepis sancta e Lepidium virginicum tendono a produrre semi più leggeri per facilitarne la dispersione, perché la probabilità di trovare luoghi idonei alla crescita è alta, quelle metropolitane ne producono di più pesanti. In città i semi leggeri cadrebbero in zone inospitali e invece quelli pesanti sono destinati a germogliare vicino alla pianta madre, dove evidentemente la vita è possibile, creando però popolazioni endogamiche e chiuse. Paradossalmente, se
in campagna è meglio viaggiare e contaminarsi, per le piante di città sembra meglio restare immobili. Alcuni studi sull’evoluzione urbana mostrano proprio che le città elevano la forza della deriva genetica casuale e restringono il flusso genico tra le popolazioni a causa dei limiti alla dispersione e a quelli dell’accoppiamento. È una risposta vincente nell’immediato, ma a rischio nel medio-lungo termine, dato che riduce i vantaggi tipici di una riproduzione che mescola, scambia e contamina i patrimoni genetici delle generazioni future.
Aforza di pensare ai Talking Heads mi sono distratto e mio figlio ha scavalcato la staccionata, sorridendomi vincente tra le margherite, ma probabilmente i fiori che sta raccogliendo non sono neppure parenti di quelli del parco a pochi isolati da qui, con i quali non si mescolano. Giardini e parchi urbani dovrebbero invece formare un mosaico verde, capace di contaminare il reticolo urbano intrufolandosi tra gli edifici, creando una serie di corridoi comunicanti tra loro, per permettere al flusso genico di scambiarsi tra le diverse popolazioni e rendendo le città permeabili alla natura esterna, portandola all’interno delle metropoli nella sua forma più vera. Molte metropoli, come Chicago, Toronto, Los Angeles e nazioni come la Francia stanno legiferando per vincolare il mantenimento dei giardini esistenti e incentivare non tanto la creazione di grandi parchi, quanto di nuove aree distribuite a formare un mosaico il più possibile continuo che si integri progressivamente nel tessuto urbano e lo connetta all’esterno, permettendo agli impollinatori di muoversi e ai semi di viaggiare. Che possa funzionare lo racconta un esperimento fatto in Canada. Nel centro di Toronto è stata piazzata una serie di vasi vuoti; dopo alcune settimane, grazie a corridoi offerti dalla continuità del verde pubblico e privato, ospitavano la stessa fauna di insetti e la stessa flora di loro omologhi collocati in prati e foreste di aree rurali. Vi è una chiara necessità di avere strutture verdi che non solo permettano scambi tra noi e la natura, ma anche che consentano alla natura stessa di effettuare scambi al suo interno. Se la qualità del mosaico è elevata, la natura può mettere a disposizione quel sense of wonder che è capitale per lo sviluppo di una consapevolezza ecologica e per una vita che non sia quella dei separati in casa di (Nothing but) Flowers.