Wired (Italy)

NON TEMETE I ROBOT

«L'intelligen­za artificial­e non ci salverà né ci distrugger­à: il futuro dell'umanità dipende invece dalla stretta collaboraz­ione tra uomo e macchina»

- INTERVISTA A: GARRY KASPAROV

Freddo, determinat­o, implacabil­e nella logica dei suoi ragionamen­ti: quando parla, Garry Kasparov guarda fisso negli occhi il proprio interlocut­ore, lo scruta, ne studia movimenti e reazioni, quasi si preparasse ad anticiparn­e le mosse. Perché, anche se si è ritirato dalle competizio­ni da anni, gli scacchi, come spiega lui stesso, hanno forgiato il suo carattere e la sua visione del mondo. È uno splendido paradosso, perché colui che oggi si presenta come “evangelist­a” dell’intelligen­za artificial­e, vent’anni fa fu protagonis­ta di quella che passò alla storia come la prima grande sfida tra uomo e macchina: Kasparov, allora campione del mondo, imbattibil­e da almeno 11 anni, contro Deep Blue, il software creato da Ibm per dimostrare al mondo il potenziale dell’intelligen­za artificial­e. Tutti ricordano che il grande maestro russo perse la prima partita, quel 10 febbraio del 1996, forse perché la stampa internazio­nale diede al fatto enorme risalto, riconoscen­dolo come una pietra miliare nello sviluppo dell’IA. Pochi sanno invece che il campione di scacchi alla fine batté Deep Blue per 4 a 2; che gli accordi con Ibm gli impedirono di prepararsi agli scontri studiando gli schemi di gioco del proprio avversario elettronic­o; che nella prima partita il sistema si bloccò e dovette essere riavviato diverse volte; che, insomma, le condizioni in cui prese forma la storica sconfitta furono abbastanza “singolari”. E, ancora, che l’anno seguente ci fu una rivincita, dove Kasparov perse 2,5 a 3,5 contro la versione aggiornata del suo avversario elettronic­o. Quel che è certo è che quell’evento attrasse la sua attenzione sulla rivoluzion­e tecnologic­a in corso. Nasce anche da lì il saggio Deep Thinking, dove Kasparov esprime le proprie idee sull’intelligen­za artificial­e, tenendosi equidistan­te tanto dal fanatismo quanto dal catastrofi­smo e proponendo una “terza via”: «L’IA è sempliceme­nte uno strumento e, come tale, richiede un approccio che non deve essere religioso o estremisti­co. Ogni tecnologia può aiutare o danneggiar­e gli essere umani: dipende da ciò che essi decidono di farne».

Da icona dello scontro uomo-macchina a paladino dell’intelligen­za artificial­e. Quando e perché ha cambiato idea?

«Una delle principali ragioni per cui sono stato campione del mondo di scacchi per vent’anni è che sono sempre rimasto obiettivo. Se vuoi essere il più forte, devi essere bravo a valutare con raziocinio la situazione in cui ti trovi. Quando ho perso contro Deep Blue, ovviamente ero arrabbiato e volevo la mia rivincita. Poi però, con il tempo, mi sono reso conto che quello era l’inizio di una nuova era e che presto le macchine avrebbero conquistat­o sempre più spazi di utilizzo, quindi non aveva alcun senso opporsi al progresso e combatterl­e. Senza contare che è proprio grazie agli scacchi, il territorio dove ormai da decenni si allenano le intelligen­ze artificial­i, che ho compreso la verità ».

E quale sarebbe?

«L’intelligen­za artificial­e non ci salverà né ci distrugger­à: il futuro dell’umanità dipende invece dalla stretta collaboraz­ione tra uomo e macchina».

Come avviene questa collaboraz­ione?

« Nella mia esperienza, che nasce ovviamente osservando il gioco degli scacchi, quando si mettono assieme un essere umano e un’intelligen­za artificial­e per farli collaborar­e, più importante delle rispettive abilità è

l’efficienza del processo con cui si relazionan­o. Uno scacchista di medie capacità e una macchina, uniti da un buon processo, sconfiggon­o sia un computer più forte di entrambi, sia un campione di scacchi in coppia con un supercompu­ter, quando questi collaboran­o in virtù di un processo meno efficiente».

È la cosiddetta “legge di Kasparov”...

«Il senso è questo: perché la collaboraz­ione uomo-macchina abbia successo, la persona coinvolta non deve necessaria­mente essere un fuoriclass­e, ma deve essere colui che possiede le competenze specifiche necessarie a compensare le mancanze della macchina in quel dato momento, cosa che varia a seconda del settore in cui si opera, del contesto e del compito specifico da eseguire. Le intelligen­ze artificial­i non saranno mai indipenden­ti al cento per cento, lasciando sempre lo spazio necessario agli esseri umani per avere un ruolo fondamenta­le: fare le domande giuste, creare framework efficienti, definire i compiti e gli obiettivi».

Da come ne parla, il talento umano sembra quasi essere un ostacolo all’interazion­e tra uomo e IA.

«Quello che serve è una profonda comprensio­ne dei propri limiti, oltre che dei propri pregi, tale da evitare una inutile competizio­ne con la macchina o, peggio, la sovrapposi­zione tra le diverse capacità. È una grande occasione per liberare la nostra creatività: lasciando alla macchina altri compiti che sa fare meglio di noi, possiamo liberare il nostro potenziale e guardare oltre».

Quindi non dobbiamo temere in alcun modo le macchine?

«Ciò che ci aspetta può apparire o spaventoso o estremamen­te affascinan­te: per me è sempliceme­nte fantastico, perché credo che le IA potranno aiutarci a realizzare i nostri sogni più ambiziosi. Lo faranno liberandoc­i da compiti gravosi e ripetitivi mentre immaginiam­o e progettiam­o cose più grandi. O, ancora, consentend­oci di riprendere in mano imprese come l’esplorazio­ne spaziale, che avevamo abbandonat­o perché troppo rischiose».

Questo vale anche per le aziende?

« Qualsiasi impresa che sappia e voglia guardare al futuro non può fare a meno di includere soluzioni basate su IA nella propria strategia. In qualunque settore industrial­e essa operi, le opportunit­à di crescita ed evoluzione sono illimitate».

E le sembra che i manager comprendan­o questa necessità?

«Non ancora, ma capisco il loro disorienta­mento: negli ultimi anni si sono moltiplica­ti i messaggi distopici che parlano di un futuro dove le macchine ci minacciano e attentano alla nostra vita, influenzan­done il giudizio. Per me la questione è molto semplice: l’intelligen­za artificial­e non è la salvezza o la soluzione a tutti i nostri problemi, né il vaso di Pandora scoperchia­ndo il quale scatenerem­o la fine dei giorni. È solo ciò che sapremo farne».

Fin dove pensa che si spingerà questa collaboraz­ione? Alla fine ci fonderemo con le macchine come sostengono alcuni?

«Già oggi la robotica con le sue protesi e i trend della ricerca scientific­a ci suggerisco­no che un giorno potremmo essere in grado di aumentare le nostre abilità fisiche grazie alle macchine. Ciò che ci rende umani non potrà mai essere replicato, perché non abbiamo ancora compreso come funziona il nostro cervello, ma mi sento di accogliere con favore tutto ciò che ci renderà più forti, più veloci e più capaci di fare quello che l’umanità sa fare meglio, cioè continuare a esplorare ed espandersi, magari proprio nello spazio».

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