Va di moda l’ambiente
La bandiera dell’ecologia nel fashion non può essere solo di facciata. Per sventolarla credibilmente servono controlli su tutta l’industria. E l a consapevolezza di quali tecnologie e m ateriali, al di là delle etichette, siano davvero sostenibili. Anche sul piano sociale
Il settore della moda – che include il tessile, l’abbigliamento e gli accessori – occupa globalmente il secondo posto nella poco invidiabile classifica dell’impatto ambientale, preceduto solo dall’industria petrolchimica. Anche se il nostro paese e la moda di alta qualità che viene qui prodotta rappresentano già un caso virtuoso rispetto alla media mondiale, la presa di coscienza su questo tema sta spingendo i marchi più rinomati ad assumere iniziative responsabili e intraprendere un percorso orientato al rispetto del pianeta. Il sistema italiano copre il 41% della produzione continentale, siamo primi in Europa e secondi nel mondo dietro la Cina (che fabbrica prodotti di mass market), eccetto per la pelletteria in cui siamo leader assoluti: un territorio in cui, per tradizione e vocazione, la moda è di casa, non può che essere capofila anche quando si tratta di sostenibilità.
Trasformare il “bello e ben fatto”, sinonimo dell’abbigliamento made in Italy, in “bello, ben fatto e sostenibile” richiede linee guida comuni e un approccio scientifico rigoroso, per scongiurare azioni superficiali di marketing o, peggio, politiche aziendali di greenwashing. La Camera nazionale della moda italiana, associazione no profit che riunisce e sostiene i brand dell’alta qualità, sta facendo collaborare oltre 15 marchi per definire principi concreti e azioni misurabili, con un’attenzione all’intera filiera produttiva, grazie a collaborazioni con organizzazioni come Federchimica e con associazioni come Tessile e salute, oltre ai ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo economico. Se parliamo di abbigliamento e salute, oggi quasi tutti gli studi si focalizzano sul verificare la concentrazione di determinate sostanze nei prodotti finali, senza sapere se la loro presenza costituisca un effettivo pericolo per il consumatore. Ecco il motivo della ricerca di Camera nazionale della moda italiana, realizzata in collaborazione con Associazione tessile e salute, Cnr, Università del Piemonte Orientale e Farbotex, presentata a inizio primavera e condotta sulle ammine aromatiche (composti notoriamente cancerogeni se respirati), che ha concluso che la presenza di queste molecole in tracce nei tessuti non costituisce in realtà un pericolo per la salute, poiché queste sostanze non sono biodisponibili, ossia non vengono assorbite attraverso la pelle nemmeno quando sudiamo. Superare visioni superficiali e sfatare falsi miti è l’obiettivo al quale un intero sistema sta collaborando. Allo stato attuale esiste già un protocollo focalizzato sui prodotti, dedicato a ciò che arriva sugli scaffali, ma anche un documento che pone alcuni paletti sull’intera filiera dei processi produttivi e che tratta il tema delle sostanze ecotossiche o responsabili delle allergie.
I jeans alla polpa di granchio
Non si parla solo di salute, ma anche di agenti chimici e di come trattare le acque. Quello del cotone sostenibile, per esempio, è un concetto da non banalizzare, poiché il suo utilizzo comporta un enorme dispendio idrico, qualora i processi industriali siano inadeguati. L’acqua necessaria per il cotone di una maglietta potrebbe dissetare una persona per tre anni, e per produrre un jeans i consumi aumentano di svariati ordini di grandezza. Ma oggi sappiamo che se, come legante per il filato, utilizziamo la polpa di granchio, ossia sfruttiamo le proprietà del chitosano, possiamo ottenere un denim meno impattante sull’ambiente e con proprietà antisettiche. Qualcosa di analogo vale per tantissime altre sostanze, sia naturali sia sintetiche: demonizzare l’industria chimica significa non averne compreso le potenzialità, poiché esistono composti innovativi che non solo sostituiscono quelli tossici del passato, ma permettono di migliorare le performance di sostenibilità. In una lavanderia odierna, per esempio, si consuma molta meno acqua di un tempo, grazie all’impiego di opportuni detergenti, e lo stesso vale per i processi di colorazione dei tessuti o per la concia delle pelli.
Per ottenere risultati concreti, e utili al pianeta, occorre una visione del sistema-moda che potremmo definire olistica. Oltre a ciò che accade in uno stabilimento, alle sostanze che entrano e che escono dal processo produttivo, per garantire il rispetto di parametri quantitativi di composizione sui prodotti finali serve andare a ritroso lungo tutta la filiera. Si tratta di un tema prettamente tecnologico, sia in termini di sistemi di lavorazione che possano minimizzare le quantità di sostanze indesiderate sia per la tracciabilità, che si fa sempre più digitale. E in parallelo all’affinamento della componente scientifica emergono temi quali la sostenibilità sociale, l’economia circolare e il riciclo. Davanti a questa nuova sensibilità collettiva, che caratterizza soprattutto i millennials, la moda non può rimanere sorda, ma anzi ha il dovere di rinnovare il proprio ruolo di interprete, anticipatore e ricettore delle pulsioni sociali.
Oggi non si può pensare di indossare una maglietta a basso costo, come accade nell’industria del fast fashion, senza chiedersi come sia stata realizzata, e se chi l’ha prodotta abbia ricevuto un riconoscimento equo. Non ci si può nascondere dietro il fatto che il capo di abbigliamento sia stato comprato da un produttore terzo ignoto, ma la responsabilità deve essere di chi commercializza quell’oggetto, ereditandone tutta la filiera. Dobbiamo essere sicuri che i lavoratori siano pagati il giusto (e non siano bambini) attraverso l’applicazione dei salari minimi in tutto il mondo, e che le condizioni di vita e di impiego siano etiche.
Il mito del riciclo andrebbe approfondito, poiché a volte rimettere insieme tessuti diversi ha un impatto più oneroso che produrne di nuovi. Va inoltre introdotto il tema della responsabilità sul fine vita del prodotto, poiché gli enormi volumi di abiti sfornati dalla moda consumistica generano sprechi e riempiono le discariche: un capo di abbigliamento, va sottolineato, ha un costo ambientale anche quando resta sugli scaffali e viene buttato. Insomma, un’attenzione sociale che oggi è già radicata in molti settori, dall’industria alimentare a quella dell’hi-tech, e che ormai è irrinunciabile anche nell’ambito della moda.
Se la pelle è più green dell’ecopelle
Due parole chiave sono trasparenza e comunicazione. Così come per i cibi c’è un’etichetta che ci siamo ormai abituati a leggere e approfondire, anche per l’abbigliamento occorre un’attenzione simile alla qualità e al rispetto dell’ambiente. Finché non ci sarà una vera presa di coscienza su questi temi, i consumatori potrebbero illudersi di acquistare qualcosa di etico venendo attratti da specchietti per allodole che riguardano singoli prodotti o parti del processo produttivo, ma non la sostenibilità complessiva. Le stesse aziende che Camera della moda riunisce, e che sono probabilmente le più virtuose in assoluto, non utilizzano mai questi temi nelle proprie pubblicità, perché vogliono scongiurare il rischio di fare miscommunication affermando cose solo parzialmente vere. La totale liberazione dalle sostanze nocive, il mito del “free”, oggi non è una realtà possibile, ma lo diventerà grazie alla tecnologia entro qualche anno. A volte il consumatore confonde la sostenibilità nella moda con le collezioni colorate di verde, con i tessuti riciclati o con quelli derivanti dalla canapa. Sostenibilità invece significa realizzare il prodotto di sempre facendo attenzione alle sostanze impiegate e al loro impatto, mentre la vetrina allestita con un aspetto green spesso è solo un’operazione di marketing.
Lo stesso vale per l’ecopelle e la finta pelliccia, che non sono davvero ecologiche, ma anzi hanno un alto impatto ambientale poiché derivano dalla catena del petrolio. La pelle di origine alimentare – cioè di coniglio, di vitello o di mucca – se viene buttata è sprecata. Questa pelle animale impatta molto meno della controparte sintetica, anche grazie alle tecniche d’avanguardia impiegate nelle concerie.
Ma il vero mito da sfatare è che se tornassimo al passato saremmo più virtuosi. Fino a qualche decennio fa, quasi nulla era veramente sostenibile, né socialmente né dal punto di vista ambientale: si usavano composti del piombo e reagenti chimici nocivi in abbondanza, non c’era coscienza dell’impronta ecologica e i lavoratori soffrivano più spesso di malattie polmonari e tumori. L’unico aspetto lodevole era il consumo, poiché c’erano meno sprechi e più riutilizzi, acquisti meno bulimici e più responsabili, e nessuno pensava di comprare un capo d’abbigliamento per poi buttarlo dopo averlo indossato tre volte.
L’altro elemento da preservare è l’artigianato, che mantiene un valore storico che spesso coincide con la sostenibilità. In Sardegna, Chiara Vigo è l’unica al mondo a tessere ancora il bisso, la lana delle cozze, una seta antichissima che mantiene un enorme pregio nella propria nicchia. Ma accanto alla tradizione c’è l’innovazione, perché il futuro della moda sarà composto da nuove forme e da materiali ad alto contenuto tecnologico, che spesso si fondano sul riutilizzo degli scarti alimentari. Abbiamo per esempio Orange Fiber, che sfrutta le bucce d’arancia, pelli create con gli avanzi delle mele, e l’idea del giovane designer italiano Tiziano Guardini, che ha trovato il modo di ottenere delle perline usando gli scarti delle conchiglie distrutte naturalmente, riducendo l’impatto ambientale in un settore molto dispendioso qual è quello degli accessori. Se parliamo del presen-
te, siamo nella fase della presa di coscienza e della definizione delle linee guida, e in contemporanea ci sono iniziative che partono dal basso come i finanziamenti che UniCredit, con il progetto Funding Sustainability, realizzato insieme a Cnmi, ha messo a disposizione delle piccole aziende di sub-fornitori che stanno alla base delle filiere, e che in questo modo possono adottare tecnologie sostenibili. Se parliamo di futuro, entro il 2020 saranno definiti tutti i parametri quantitativi specifici per la moda sulle sostanze ecotossiche, sui processi produttivi, sulle ricadute sociali e sulle caratteristiche di costruzione e ristrutturazione dei punti vendita. Poi inizierà la fase di implementazione e di misurazione: da una parte l’applicazione pratica dei principi, dall’altra la creazione di sistemi di controllo e di quantificazione, che oggi sono completamente assenti. Entro tre anni partiranno i progetti pilota, mentre per il 2025 dovremmo raggiungere la piena operatività.
Iniziative come il Green Carpet Challenge del Teatro alla Scala di Milano, una sorta di premio Oscar della moda sostenibile, e i summit per discutere di moda ed ecologia hanno l’obiettivo di stimolare un movimento culturale internazionale in cui l’Italia possa guadagnarsi il ruolo di traino e punto di riferimento, rinnovando una propria vocazione dalle origini antiche. Una linea d’azione che ormai i brand dell’alta qualità hanno definitivamente abbracciato, superando le iniziali resistenze e i ragionevoli sospetti sulle implicazioni in termini di costi, sul fondamento scientifico della contaminazione tra moda e ambientalismo e soprattutto sui bisogni intimi percepiti dai consumatori.
D’altronde non sono le singole aziende della moda a poter indurre un cambiamento, né può esserlo un settore produttivo chiuso, ma occorre che ci sia unità d’intenti tra tutti gli attori di un intero sistema economico, inclusa la sensibilità di chi dovrà fruire dei prodotti. In questo modo si creerà quella pressione positiva sull’industria chimica capace di modificare l’intero comparto e ridurre quanto più possibile l’impiego di sostanze indesiderate (con la consapevolezza che scendere a zero è un’utopia). E sfatiamo un’ultima bufala: la sostenibilità nell’industria tessile, degli accessori e dell’abbigliamento, non è sinonimo di merce brutta e di abiti simili a un saio da monaco francescano. Si può arrivare alla sostenibilità rispettando regole scientifiche condivise, senza rinunciare al sogno, al glamour e alla creatività: la vera anima della moda.