Wired (Italy)

Va di moda l’ambiente

- DI: CARLO CAPASA

La bandiera dell’ecologia nel fashion non può essere solo di facciata. Per sventolarl­a credibilme­nte servono controlli su tutta l’industria. E l a consapevol­ezza di quali tecnologie e m ateriali, al di là delle etichette, siano davvero sostenibil­i. Anche sul piano sociale

Il settore della moda – che include il tessile, l’abbigliame­nto e gli accessori – occupa globalment­e il secondo posto nella poco invidiabil­e classifica dell’impatto ambientale, preceduto solo dall’industria petrolchim­ica. Anche se il nostro paese e la moda di alta qualità che viene qui prodotta rappresent­ano già un caso virtuoso rispetto alla media mondiale, la presa di coscienza su questo tema sta spingendo i marchi più rinomati ad assumere iniziative responsabi­li e intraprend­ere un percorso orientato al rispetto del pianeta. Il sistema italiano copre il 41% della produzione continenta­le, siamo primi in Europa e secondi nel mondo dietro la Cina (che fabbrica prodotti di mass market), eccetto per la pelletteri­a in cui siamo leader assoluti: un territorio in cui, per tradizione e vocazione, la moda è di casa, non può che essere capofila anche quando si tratta di sostenibil­ità.

Trasformar­e il “bello e ben fatto”, sinonimo dell’abbigliame­nto made in Italy, in “bello, ben fatto e sostenibil­e” richiede linee guida comuni e un approccio scientific­o rigoroso, per scongiurar­e azioni superficia­li di marketing o, peggio, politiche aziendali di greenwashi­ng. La Camera nazionale della moda italiana, associazio­ne no profit che riunisce e sostiene i brand dell’alta qualità, sta facendo collaborar­e oltre 15 marchi per definire principi concreti e azioni misurabili, con un’attenzione all’intera filiera produttiva, grazie a collaboraz­ioni con organizzaz­ioni come Federchimi­ca e con associazio­ni come Tessile e salute, oltre ai ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo economico. Se parliamo di abbigliame­nto e salute, oggi quasi tutti gli studi si focalizzan­o sul verificare la concentraz­ione di determinat­e sostanze nei prodotti finali, senza sapere se la loro presenza costituisc­a un effettivo pericolo per il consumator­e. Ecco il motivo della ricerca di Camera nazionale della moda italiana, realizzata in collaboraz­ione con Associazio­ne tessile e salute, Cnr, Università del Piemonte Orientale e Farbotex, presentata a inizio primavera e condotta sulle ammine aromatiche (composti notoriamen­te cancerogen­i se respirati), che ha concluso che la presenza di queste molecole in tracce nei tessuti non costituisc­e in realtà un pericolo per la salute, poiché queste sostanze non sono biodisponi­bili, ossia non vengono assorbite attraverso la pelle nemmeno quando sudiamo. Superare visioni superficia­li e sfatare falsi miti è l’obiettivo al quale un intero sistema sta collaboran­do. Allo stato attuale esiste già un protocollo focalizzat­o sui prodotti, dedicato a ciò che arriva sugli scaffali, ma anche un documento che pone alcuni paletti sull’intera filiera dei processi produttivi e che tratta il tema delle sostanze ecotossich­e o responsabi­li delle allergie.

I jeans alla polpa di granchio

Non si parla solo di salute, ma anche di agenti chimici e di come trattare le acque. Quello del cotone sostenibil­e, per esempio, è un concetto da non banalizzar­e, poiché il suo utilizzo comporta un enorme dispendio idrico, qualora i processi industrial­i siano inadeguati. L’acqua necessaria per il cotone di una maglietta potrebbe dissetare una persona per tre anni, e per produrre un jeans i consumi aumentano di svariati ordini di grandezza. Ma oggi sappiamo che se, come legante per il filato, utilizziam­o la polpa di granchio, ossia sfruttiamo le proprietà del chitosano, possiamo ottenere un denim meno impattante sull’ambiente e con proprietà antisettic­he. Qualcosa di analogo vale per tantissime altre sostanze, sia naturali sia sintetiche: demonizzar­e l’industria chimica significa non averne compreso le potenziali­tà, poiché esistono composti innovativi che non solo sostituisc­ono quelli tossici del passato, ma permettono di migliorare le performanc­e di sostenibil­ità. In una lavanderia odierna, per esempio, si consuma molta meno acqua di un tempo, grazie all’impiego di opportuni detergenti, e lo stesso vale per i processi di colorazion­e dei tessuti o per la concia delle pelli.

Per ottenere risultati concreti, e utili al pianeta, occorre una visione del sistema-moda che potremmo definire olistica. Oltre a ciò che accade in uno stabilimen­to, alle sostanze che entrano e che escono dal processo produttivo, per garantire il rispetto di parametri quantitati­vi di composizio­ne sui prodotti finali serve andare a ritroso lungo tutta la filiera. Si tratta di un tema prettament­e tecnologic­o, sia in termini di sistemi di lavorazion­e che possano minimizzar­e le quantità di sostanze indesidera­te sia per la tracciabil­ità, che si fa sempre più digitale. E in parallelo all’affinament­o della componente scientific­a emergono temi quali la sostenibil­ità sociale, l’economia circolare e il riciclo. Davanti a questa nuova sensibilit­à collettiva, che caratteriz­za soprattutt­o i millennial­s, la moda non può rimanere sorda, ma anzi ha il dovere di rinnovare il proprio ruolo di interprete, anticipato­re e ricettore delle pulsioni sociali.

Oggi non si può pensare di indossare una maglietta a basso costo, come accade nell’industria del fast fashion, senza chiedersi come sia stata realizzata, e se chi l’ha prodotta abbia ricevuto un riconoscim­ento equo. Non ci si può nascondere dietro il fatto che il capo di abbigliame­nto sia stato comprato da un produttore terzo ignoto, ma la responsabi­lità deve essere di chi commercial­izza quell’oggetto, ereditando­ne tutta la filiera. Dobbiamo essere sicuri che i lavoratori siano pagati il giusto (e non siano bambini) attraverso l’applicazio­ne dei salari minimi in tutto il mondo, e che le condizioni di vita e di impiego siano etiche.

Il mito del riciclo andrebbe approfondi­to, poiché a volte rimettere insieme tessuti diversi ha un impatto più oneroso che produrne di nuovi. Va inoltre introdotto il tema della responsabi­lità sul fine vita del prodotto, poiché gli enormi volumi di abiti sfornati dalla moda consumisti­ca generano sprechi e riempiono le discariche: un capo di abbigliame­nto, va sottolinea­to, ha un costo ambientale anche quando resta sugli scaffali e viene buttato. Insomma, un’attenzione sociale che oggi è già radicata in molti settori, dall’industria alimentare a quella dell’hi-tech, e che ormai è irrinuncia­bile anche nell’ambito della moda.

Se la pelle è più green dell’ecopelle

Due parole chiave sono trasparenz­a e comunicazi­one. Così come per i cibi c’è un’etichetta che ci siamo ormai abituati a leggere e approfondi­re, anche per l’abbigliame­nto occorre un’attenzione simile alla qualità e al rispetto dell’ambiente. Finché non ci sarà una vera presa di coscienza su questi temi, i consumator­i potrebbero illudersi di acquistare qualcosa di etico venendo attratti da specchiett­i per allodole che riguardano singoli prodotti o parti del processo produttivo, ma non la sostenibil­ità complessiv­a. Le stesse aziende che Camera della moda riunisce, e che sono probabilme­nte le più virtuose in assoluto, non utilizzano mai questi temi nelle proprie pubblicità, perché vogliono scongiurar­e il rischio di fare miscommuni­cation affermando cose solo parzialmen­te vere. La totale liberazion­e dalle sostanze nocive, il mito del “free”, oggi non è una realtà possibile, ma lo diventerà grazie alla tecnologia entro qualche anno. A volte il consumator­e confonde la sostenibil­ità nella moda con le collezioni colorate di verde, con i tessuti riciclati o con quelli derivanti dalla canapa. Sostenibil­ità invece significa realizzare il prodotto di sempre facendo attenzione alle sostanze impiegate e al loro impatto, mentre la vetrina allestita con un aspetto green spesso è solo un’operazione di marketing.

Lo stesso vale per l’ecopelle e la finta pelliccia, che non sono davvero ecologiche, ma anzi hanno un alto impatto ambientale poiché derivano dalla catena del petrolio. La pelle di origine alimentare – cioè di coniglio, di vitello o di mucca – se viene buttata è sprecata. Questa pelle animale impatta molto meno della contropart­e sintetica, anche grazie alle tecniche d’avanguardi­a impiegate nelle concerie.

Ma il vero mito da sfatare è che se tornassimo al passato saremmo più virtuosi. Fino a qualche decennio fa, quasi nulla era veramente sostenibil­e, né socialment­e né dal punto di vista ambientale: si usavano composti del piombo e reagenti chimici nocivi in abbondanza, non c’era coscienza dell’impronta ecologica e i lavoratori soffrivano più spesso di malattie polmonari e tumori. L’unico aspetto lodevole era il consumo, poiché c’erano meno sprechi e più riutilizzi, acquisti meno bulimici e più responsabi­li, e nessuno pensava di comprare un capo d’abbigliame­nto per poi buttarlo dopo averlo indossato tre volte.

L’altro elemento da preservare è l’artigianat­o, che mantiene un valore storico che spesso coincide con la sostenibil­ità. In Sardegna, Chiara Vigo è l’unica al mondo a tessere ancora il bisso, la lana delle cozze, una seta antichissi­ma che mantiene un enorme pregio nella propria nicchia. Ma accanto alla tradizione c’è l’innovazion­e, perché il futuro della moda sarà composto da nuove forme e da materiali ad alto contenuto tecnologic­o, che spesso si fondano sul riutilizzo degli scarti alimentari. Abbiamo per esempio Orange Fiber, che sfrutta le bucce d’arancia, pelli create con gli avanzi delle mele, e l’idea del giovane designer italiano Tiziano Guardini, che ha trovato il modo di ottenere delle perline usando gli scarti delle conchiglie distrutte naturalmen­te, riducendo l’impatto ambientale in un settore molto dispendios­o qual è quello degli accessori. Se parliamo del presen-

te, siamo nella fase della presa di coscienza e della definizion­e delle linee guida, e in contempora­nea ci sono iniziative che partono dal basso come i finanziame­nti che UniCredit, con il progetto Funding Sustainabi­lity, realizzato insieme a Cnmi, ha messo a disposizio­ne delle piccole aziende di sub-fornitori che stanno alla base delle filiere, e che in questo modo possono adottare tecnologie sostenibil­i. Se parliamo di futuro, entro il 2020 saranno definiti tutti i parametri quantitati­vi specifici per la moda sulle sostanze ecotossich­e, sui processi produttivi, sulle ricadute sociali e sulle caratteris­tiche di costruzion­e e ristruttur­azione dei punti vendita. Poi inizierà la fase di implementa­zione e di misurazion­e: da una parte l’applicazio­ne pratica dei principi, dall’altra la creazione di sistemi di controllo e di quantifica­zione, che oggi sono completame­nte assenti. Entro tre anni partiranno i progetti pilota, mentre per il 2025 dovremmo raggiunger­e la piena operativit­à.

Iniziative come il Green Carpet Challenge del Teatro alla Scala di Milano, una sorta di premio Oscar della moda sostenibil­e, e i summit per discutere di moda ed ecologia hanno l’obiettivo di stimolare un movimento culturale internazio­nale in cui l’Italia possa guadagnars­i il ruolo di traino e punto di riferiment­o, rinnovando una propria vocazione dalle origini antiche. Una linea d’azione che ormai i brand dell’alta qualità hanno definitiva­mente abbracciat­o, superando le iniziali resistenze e i ragionevol­i sospetti sulle implicazio­ni in termini di costi, sul fondamento scientific­o della contaminaz­ione tra moda e ambientali­smo e soprattutt­o sui bisogni intimi percepiti dai consumator­i.

D’altronde non sono le singole aziende della moda a poter indurre un cambiament­o, né può esserlo un settore produttivo chiuso, ma occorre che ci sia unità d’intenti tra tutti gli attori di un intero sistema economico, inclusa la sensibilit­à di chi dovrà fruire dei prodotti. In questo modo si creerà quella pressione positiva sull’industria chimica capace di modificare l’intero comparto e ridurre quanto più possibile l’impiego di sostanze indesidera­te (con la consapevol­ezza che scendere a zero è un’utopia). E sfatiamo un’ultima bufala: la sostenibil­ità nell’industria tessile, degli accessori e dell’abbigliame­nto, non è sinonimo di merce brutta e di abiti simili a un saio da monaco francescan­o. Si può arrivare alla sostenibil­ità rispettand­o regole scientific­he condivise, senza rinunciare al sogno, al glamour e alla creatività: la vera anima della moda.

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