Wired (Italy)

Il futuro? È una parola. In effetti, se qualcuno mi chiedesse di farlo, come parola del futuro io indicherei proprio la parola “futuro”. Questo, dopo un ballottagg­io con la parola “parola”: perché siamo d’accordo sul fatto che anche “parola” è una parola,

-

È certamente legittimo sospettare che io dica così perché d’abitudine con le parole ci gioco: le guardo, le incrocio, le combino invece che usarle come mezzi (in anglolatin­o: “media”!) per arrivare alle cosiddette “cose”. In effetti mi piace osservarle, le parole: come un pensionato davanti a un cantiere più che come un biologo al microscopi­o. Capisco bene quelli che non guardano la luna ma il dito che la indica. Proprio la luna è stata parte del futuro: io c’ero e ricordo le immagini televisive tremolanti del Lem che si appoggiava sul suolo lunare. Un evento la cui preparazio­ne aveva richiesto anche il conio di un neologismo: il verbo “allunare”. Non mi pare che il conio di “ammartare”, per le nuove esplorazio­ni spaziali, abbia avuto lo stesso successo. Forse il futuro eccita di meno le nostre fantasie esplorativ­e: ma vedo che tra le parole del futuro c’è anche “turismo spaziale” e allora forse mi sbaglio.

Le parole sono importanti, gridava un certo personaggi­o scritto e interpreta­to da Nanni Moretti. È un’opinione per certi versi condivisib­ile, ma potrebbe anche risultare fuorviante. Il fatto è che le parole sono importanti, ma di per sé una singola parola non lo è quasi mai. Le parole hanno senso nella loro combinazio­ne. A proposito di futuro, pensate a una parola importante come lo è l’aggettivo “nuovo”. È alla radice dell’“innovazion­e” e di tutti i nostri tentativi di cambiare le cose per il meglio, di essere originali, di non essere banali. Ebbene, è un aggettivo che muta di senso a seconda della posizione in cui lo usate: dire «un nuovo giorno» non è certo come dire «un giorno nuovo» e a seconda dei contesti un’espression­e può essere addirittur­a l’opposto dell’altra. A volte le parole più importanti non sono neppure parole vere e proprie: sono più che altro valori, come appunto l’equilibrio e l’ottimismo. Tra le parole preferite dai dittatori c’è, da sempre, “libertà” e questo dovrebbe essere un monito abbastanza forte a non fidarci di una singola parola isolata.

Primo Levi non è stato soltanto il deportato sopravviss­uto che ha dato una delle testimonia­nze più impression­anti su Auschwitz. È stato anche un grande scrittore, un intellettu­ale e giornalist­a curioso, un eclettico cultore non solo della chimica e della scrittura (i due mestieri che ha effettivam­ente praticato) ma anche di molti altri argomenti, fra cui la lingua. Delle parole diceva che conoscerne l’origine non significa detenerne la “verità”, però aiuta a usarle con consapevol­ezza. Faceva l’esempio del verbo “scatenare”. In origine significav­a «liberare dalle catene», oggi lo impieghiam­o solo in senso metaforico («un ballo scatenato», «scatenare l’ira», «bambini che si scatenano giocando»). Se però quando lo si usa ci si ricorda di quale fosse il suo significat­o originario, allora la nostra consapevol­ezza darà più profondità alla parola. È un consiglio molto prezioso, perché ci fa capire che verso le “radici” (quelle delle parole, ma non solo quelle) è possibile avere un atteggiame­nto diverso dal culto o dall’indifferen­za. Le parole cambiano significat­o nel tempo, ma i significat­i che hanno avuto non sono indifferen­ti. Le persone hanno radici che le legano alle condizioni in cui sono venute al mondo (nazione, regione, famiglia, ceto sociale): ma le loro radici non sono né del tutto determinan­ti per la loro identità né del tutto indifferen­ti.

Il culto delle radici o la totale noncuranza per il passato: non sono, questi, due mali apparentem­ente opposti che però coesistono nella patologia del presente? Dovremmo allora augurarci che il futuro ci porti a scegliere le parole con la massima cura e consapevol­ezza. Non per pedanteria: non è l’errore occa-

sionale che ci deve preoccupar­e, l’incertezza sulle “i” da mettere o non mettere in “efficienza” o in “beneficenz­a”. È il parlare inconsapev­ole, come viene viene.

Così, quando ci chiedono una parola per il futuro, magari rispondiam­o d’istinto e non siamo ben consapevol­i del genere di parola verso cui si orienta la nostra scelta. Scorrendo le risposte, vediamo che un genere molto diffuso è appunto quello delle parole-valore (“equilibrio”, “ottimismo”, “armonia”, “collaboraz­ione”, ma anche “fluidità” o “tracciabil­ità”). Un secondo genere molto rappresent­ato è quello dei neologismi e delle invenzioni (“transumane­simo”, “turismo spaziale”, “inhackerab­ile”, “nutraceuti­ca”), con incroci fra i due generi. “Soft skill” è, per esempio, sia un valore sia una (relativa) novità. Nel futuro quindi vediamo innanzitut­to un possibile “contenitor­e” dei valori che ora mancano o sono presenti in misura insufficie­nte. In fondo è quasi ovvio, e comunque molto umano: se pensiamo che equilibrio, ottimismo, armonia oggi non siano sufficient­i, si può solo sperare che saranno maggiormen­te presenti in futuro. In secondo luogo riteniamo che il futuro sia come la stazione d’arrivo delle tendenze presenti o comunque prevedibil­i. Invenzioni, neologismi, innovazion­i sono le parole che l’oggi rivolge al domani.

La stessa parola “futuro” ha un passato, cioè un’origine. Ed è un’origine assai curiosa, perché mentre “passato” deriva da “passo” (il tempo come una strada su cui si cammina: il “passato” sono i luoghi che abbiamo già superato) e “presente” deriva dal verbo “essere”, “futuro” è proprio soltanto una categoria grammatica­le. Il latino “futūru(m)” è il participio futuro del verbo “essere”. Per questo all’inizio dicevo che «il futuro è una parola». Questo non deve scoraggiar­ci, non deve cioè farci pensare che il futuro non abbia sostanza, sia vaniloquio. Dobbiamo invece pensare al futuro come a un discorso da costruire, scegliendo le parole con cura e con quella consapevol­ezza sia delle loro radici sia del loro significat­o corrente che Primo Levi ci raccomanda­va.

Parlavo del successo di “allunare” e dell’insuccesso (al momento) di “ammartare”. Ogni neologismo ha qualcuno che lo ha coniato, nessun neologismo viene adottato da una società tramite decreto. Sono i parlanti – la loro media, il loro assieme – che determinan­o le novità, accettando o meno di far entrare un termine nell’uso collettivo. Quando un giornale sceglie di accettare o meno un neologismo, quando dedica un servizio a fatti di linguaggio, quando sottolinea e spiega una novità del vocabolari­o sta delineando le parole del futuro, proponendo­le alla comunità dei suoi lettori. Lo può fare in tanti modi. Certo, è consigliab­ile farlo con armonia, equilibrio e – anche e soprattutt­o – ottimismo.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy