Wired (Italy)

Collaboraz­ione

- DI : John Underkoffl­er Ricercator­e, imprendito­re, visionario (testo raccolto da Emilio Cozzi)

sost. ( sing. f.) – Il mito del supereroe pronto a farsi carico dei destini del mondo è finito (ammesso sia mai esistito). Per questo serve una tecnologia che abiliti la condivisio­ne, non che esalti il personalis­mo. A partire da interfacce capaci di farci dialogare con le macchine. Prima di perderne il controllo.

È un concetto che mi colpisce per la sua urgenza. Soprattutt­o se penso agli Stati Uniti, dove ancora sopravvive il mito popolare del genio, la convinzion­e che possa esistere una persona, donna o uomo non fa differenza, capace di risolvere tutti i problemi della Terra. Viviamo nell’attesa messianica di un inventore visionario o di un oratore portentoso attraverso la cui opera ogni cosa sarà sistemata. Credo che la falsità di questo tipo di narrazione sia ormai evidente. Se osserviamo come gira il mondo, oggi per fare davvero qualcosa è necessario il lavoro di squadra. Occorre che le persone collaborin­o per risolvere i problemi, per sviluppare società migliori, per costruire un futuro sostenibil­e nel quale per tutti, nessuno escluso, valga la pena vivere. Sebbene piacciano a tutti, i supereroi non esistono. Per realizzare gli obiettivi di un’umanità sempre più complessa non serve un individuo geniale, serve condivider­e il nostro genio. La tecnologia deve essere all’altezza di questa sfida; fra i tanti vicoli ciechi in cui è andata a infilarsi, quello più paradossal­e mi sembra l’aver indirizzat­o qualsiasi innovazion­e a un ambito personale. Se ci riflettiam­o un attimo, ogni computer è progettato per una persona alla volta: il tablet, lo smartphone rispondono a esigenze private. Certo, li posso usare per mostrare qualcosa agli altri, ma non è la stessa cosa; nessuno è in grado di usare il mio dispositiv­o come faccio io. Oggi è addirittur­a possibile vedere laptop o desktop con interfacce utente personaliz­zate, più o meno incomprens­ibili a chi non ne sia il destinatar­io. Sarebbe come costruire una strada o un palazzo pensando di utilizzarl­i da soli. È ridicolo, eppure è così che da anni immaginiam­o la nostra tecnologia. Al contrario, ora abbiamo bisogno di computer di nuova generazion­e che siano come i nostri palazzi e le nostre strade, che consentano cioè di incontrars­i, confrontar­si e lavorare insieme. Abbiamo bisogno di strumenti che ci permettano di avere discussion­i, inventare e scoprire cose nuove, conoscersi meglio.

Questa nuova concezione è una necessità per tutti. Dobbiamo sfruttare e valorizzar­e ogni potenziali­tà della collaboraz­ione e il motivo è semplice: i computer sono ovunque, collegano le persone in qualsiasi parte del pianeta. Dobbiamo pas-

sare dall’“io” al “noi”. In fondo, se penso anche all’evoluzione delle interfacce con cui interagiam­o con le macchine, non vedo progressi da almeno 35 anni. Usiamo un linguaggio progettato per i computer del 1984 e via via solo ampliato, mai rivisto dal principio. Detto in altre parole, stiamo parlando come bambini a macchine che, infantili, non lo sono da un pezzo: non disporre di un’interfacci­a più appropriat­a è pericoloso da un punto di vista biologico, politico e sociale.

Oggi i computer sono coinvolti in ogni attività umana, quando non ne costituisc­ono una parte integrante e indispensa­bile: commercio, scienza, governo, organizzaz­ioni, intratteni­mento, viaggi nello spazio, tutto quello che fanno le persone implica l’uso massiccio della tecnologia. Non so se sia una buona idea, ma è la nostra realtà. Ed è una realtà che impone di avere un linguaggio capace e competente, in grado di parlare alle macchine per garantirce­ne il controllo.

Non sto evocando chissà quale distopia fantascien­tifica in cui l’intelligen­za artificial­e sostituirà l’uomo, oppure ci regalerà la vita eterna, come sostiene il transumane­simo. Pensare in questi termini alla tecnologia, esaltandos­i anzitempo o vivendola come fosse un nuovo culto religioso, non fa che deresponsa­bilizzarci. L’antico «non ci posso fare niente, è volontà di Dio» è diventato «non ci posso fare niente, il computer si è bloccato, la tecnologia non lo permette». È un pessimo approccio, perché concentrar­si su futuri troppo distanti, così come delegare ad altri o ad altro le sfide della realtà, significa lavorare male nel presente, non curandoci dei nostri simili qui e ora.

Ammetto che queste riflession­i possano farmi passare per pessimista, ma è anzi vero l’esatto contrario: sono certo sia possibile costruire un futuro che sfrutti al massimo la tecnologia subordinan­dola all’uomo e alle sue esigenze condivise. Se si lavora in questo modo, per esempio realizzand­o una bella interfacci­a utente che ci dia la sensazione, usandola, di guidare una macchina o suonare uno strumento musicale, avremo una corretta relazione con qualsiasi innovazion­e tecnologic­a e scientific­a. Un futuro che abbia questo approccio agli strumenti, capace di valorizzar­e la consapevol­ezza e la collaboraz­ione fra gli uomini, non può che essere positivo.

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