Biomateriali
sost. comp. ( pl. m.) – Sono sostanze sintetiche o organiche in grado di “riparare” parti del corpo danneggiate. Interagendo – e questa è la frontiera – con le cellule e crescendo con loro.
Cadere giocando a pallone e procurarsi una lesione al menisco. Oppure nascere con un disturbo al cuore, che fa fatica a spingere in circolo il sangue nei vari distretti del corpo. O, ancora, ritrovarsi con un danno molto esteso alla pelle, come succede con le ustioni gravi. Possiamo immaginare un futuro dove queste condizioni, e con loro tutto il dolore e i limiti che comportano, possano essere superate senza eccessivi travagli? La risposta è scritta nei biomateriali, sostanze capaci di interagire con i sistemi biologici (ossa, tessuti, organi...) e progettate in laboratorio per essere impiantate e riparare laddove l’organismo è stato colpito. La strategia dei biomateriali è ripristinare o sostituire le componenti danneggiate del nostro corpo imitando in tutto e per tutto i tessuti sani. Ce ne sono di sintetici, ideati e assemblati a partire da metalli come l’acciaio inox e il titanio o da leghe, polimeri, materiali ceramici. Altri sono invece di origine naturale, composti di elementi biologici: per esempio il collagene, che ritroviamo nelle cartilagini, nei tendini e nelle ossa.
È nei reparti di ortopedia che li troviamo già in azione, negli interventi all’anca in casi di osteoartrite, o alle articolazioni del ginocchio. In questo caso, i materiali fungono da elementi strutturali, sono cioè inerti e non si mescolano con il tessuto circostante. Anzi, la loro prerogativa è essere il più “silenziosi” possibile per l’organismo, che non deve accorgersi della loro presenza perché non si accendano le micce del sistema immunitario, che potrebbe riconoscerli come estranei e quindi rigettarli. «La situazione è diversa quando proviamo a formulare biomateriali che abbiano un ruolo attivo, che interagiscano cioè con le cellule circostanti e si integrino anche dal punto di vista funzionale con la parte da curare», spiega Cristina Gentilini, ricercatrice presso Orthox Ltd, dove sviluppa tecnologie nate tra le mura dell’Università di Oxford per la ricostruzione di menisco e cartilagine. «Ma c’è ancora tanta strada da fare perché entrino a far parte dello standard of care ». Parliamo di gel, fluidi, supporti e matrici porose che stimolano i tessuti dell’area danneggiata a proliferare, penetrare e “abbracciare” il biomateriale accogliendolo come una vera e propria unità vivente, fino a che il confine tra corpo e impianto svanisce.
L’architettura, le proprietà meccaniche e biologiche di queste nuove sostanze devono mimare perfettamente quelle dei tessuti umani sui quali si interviene, ed essere biocompatibili, cioè in sintonia con l’organismo, e atossiche. Non devono inoltre rilasciare particelle nocive nel caso dei metalli, il cui tallone d’Achille è andare incontro a corrosione, né sottoprodotti dovuti alla disgregazione dei polimeri, per citare alcuni esempi. Devono, insomma, essere stabili nel tempo all’interno di un habitat complesso. La strada è aperta e medici e scienziati pensano in grande: è possibile infatti immaginare, in un futuro non lontano, materiali capaci di riprodurre un intero organo, o tessuto, a partire da un numero piccolissimo di cellule. Queste, una volta “addestrate”, formerebbero un materiale così intelligente da potersi differenziare esattamente come avviene a livello naturale nella parte del corpo desiderata. «È il sogno della tissue engineering, che studia come ripetere artificialmente quello che la natura compie di fatto ogni giorno. E che è frutto di un’evoluzione incredibile, di migliaia e migliaia di anni», conclude Gentilini.