Ottimismo
sost. ( sing. m.) - Deve diventare un atteggiamento militante con cui affrontare la vita, perché il cambiamento è un bene. Andando oltre i pessimisti di professione, e riconoscendo come, grazie alla tecnologia, ogni giorno l’umanità compie un piccolo o grande passo in avanti.
Quando lanciammo Wired, ci accusarono di essere degli “ottimisti panglossiani”. Lo presi come un motivo di vanto: la Rivoluzione Digitale stava reinventando tutto e questo era un bene. Venticinque anni dopo, quell’ottimismo non è solo giustificato, è necessario. Ottimismo militante, quindi. Il presupposto di Wired era che le persone più potenti del pianeta non erano più i politici o i generali, i sacerdoti o gli esperti, ma coloro che creavano e utilizzavano le nuove tecnologie. Lo Stato e i politici erano diventati obsoleti. Non avevamo più bisogno di subappaltare le nostre responsabilità verso la società a governi distanti. Grazie a nuovi strumenti che conferivano pieno potere agli individui, potevamo noi stessi impegnarci direttamente per realizzare un mondo migliore.
Naturalmente, le istituzioni consolidate, il cui destino sembrava segnato, non si sarebbero arrese così facilmente. Lo stesso valeva per i media principali. Scherzando, allora, dicevamo che il New York Times avrebbe proposto una variante ogni settimana del titolo: Internet: pericolo o minaccia? (questo a dispetto del fatto di avere il miglior giornalista della Silicon Valley, John Markoff). Di fronte all’ostilità istintiva, avevamo sviluppato una replica istintiva: il cambiamento è un bene. Ovviamente sapevamo che non tutti i cambiamenti sarebbero stati positivi. Ma era comunque meglio dell’alternativa: troppe cose erano obsolete e andavano spazzate via. Sostenevamo, come diceva la canzone dei Timbuk3, che il futuro era «così brillante che avremmo dovuto mettere gli occhiali da sole».
Poi esplose la bolla del dotcom. E arrivò l’11 settembre. Il nostro modello di organizzazione decentrata che utilizzava pc e reti per cambiare il mondo aveva generato un incubo: i giovani di al Qaeda che lanciavano una guerra asimmetrica per abbattere l’ultima superpotenza. La nostra risposta come società
«La storia è la testimonianza del fallimento della politica. Il progresso è la marcia della scienza e della tecnologia. Penicillina, traffico aereo, informatica, internet, genetica... hanno prodotto più libertà di qualunque guerra o legge»
equivalse a quella della scimmia allo zoo che, trovando la gabbia aperta, si guarda intorno, poi la chiude e vi si rifugia dentro. Noi ci rifugiammo nella sicurezza che ci garantivano lo Stato e la politica. I subappaltatori erano tornati in carica. E l’ottimismo che era stato il fondamento della Rivoluzione Digitale entrò in letargo, sostituito da un pessimismo così pervasivo da diventare saggezza convenzionale. Alcuni anni fa ho partecipato a una cena a Cambridge, Massachusetts, organizzata da un’accademica all’avanguardia e dalla moglie con le conoscenze giuste. Il gruppo degli invitati, formato da giovani e brillanti professori e ricercatori, faceva supporre una serata stimolante. Le cose andarono in modo diverso.
Dopo il breve discorso introduttivo a tema politico, l’atmosfera si saturò di lamentele su ineguaglianze e povertà, razzismo, sessismo, repubblicani fascisti e su come, in generale, tutto stesse volgendo al peggio. Mi trattenni il più a lungo possibile, ma alla fine presi la parola: la realtà non era quella. Avete guardato bene i numeri? Negli ultimi 25 anni il mondo non ha fatto che migliorare. La gente è più sana, più ricca, più istruita, vive più a lungo e meglio di come gli umani abbiano mai vissuto. Silenzio. Tutti gli occhi erano puntati su di me. Chi aveva fatto entrare quel rompiscatole? Poi si scatenò la tempesta. Sbagli, le cose non vanno meglio, basta guardarsi intorno, è un peggioramento continuo e infinito... Zittito all’istante. Più tardi riflettei su come avrei dovuto rispondere. Innanzi tutto, la politica – che ormai ha infettato ogni aspetto della nostra vita – non è una risposta razionale alla realtà. In parte perché consiste nell’ingraziarsi il favore dei gruppi sociali desiderati; ma peggio ancora perché si tratta di una patologia emotiva.
In Psicologia di massa del fascismo, Wilhelm Reich scriveva che «la politica può rappresentare la manifestazione esteriore di problemi emotivi personali. Invece di lavorare sui propri problemi, insomma, taluni preferiscono rovesciarli sulla società nel suo complesso». Vi suona familiare? Viviamo in un’epoca nella quale questo fenomeno è evidente: si nota dal malessere diffuso tra le élite del primo mondo, dallo stress emotivo palpabile dei nostri amici, nei due minuti di odio quotidiano dei media, nei flash mob dei social network, nel tribalismo, nel modo in cui ogni singolo aspetto delle nostre vite è diventato politica. Le innovazioni che hanno un impatto
positivo sulla condizione umana si realizzano al di fuori della politica. La storia è la testimonianza del fallimento della politica; il progresso è la marcia della scienza e della tecnologia. È sufficiente pensare agli ultimi cento anni: comunicazione di massa, penicillina, traffico aereo commerciale, frigoriferi, informatica, computer portatili, internet, smartphone, sequenza genica, fracking. Tutte insieme, queste tecnologie hanno prodotto più libertà e benessere di qualunque guerra, o legge.
Eppure oggi siamo prigionieri di un pessimismo inesorabile. Abbiamo vinto la rivoluzione, che in realtà non è mai davvero finita, e viviamo ancora con i suoi effetti solo parzialmente dispiegati. Venticinque anni di sconvolgimenti sono stati difficili da digerire, specie considerando che i professionisti dell’informazione impegnati a modellare le nostre percezioni vivono nel terrore esistenziale di perdere il lavoro a causa del tifone digitale che sta inondando il loro mondo obsoleto.
In che modo possiamo, dunque, liberarci del pessimismo che ci circonda? Cominciamo col riconoscere che abbiamo molti motivi per essere ottimisti. Persino più di quando Jane (Metcalfe, moglie di Rossetto, ndr) e io abbiamo dato vita a Wired per raccontare la Rivoluzione Digitale. Gli individui che oggi utilizzano nuove tecnologie stanno innescando almeno cinque rivoluzioni: 1. La rivoluzione neobiologica sta già curando, migliorando ed estendendo la nostra vita. 2. La rivoluzione energetica – nucleare, fracking, solare – sta rendendo possibile una vita confortevole per più persone in tutto il pianeta. 3. La blockchain consente transazioni friction-free non solo tra istituzioni finanziarie, ma anche tra tutte le persone e i dispositivi che hanno bisogno di comunicare tra di loro. Immaginate di porre un freno ai monopoli dei social media tornando in possesso dei vostri dati... 4. Spazio. L’idea fantascientifica di un futuro in cui potremo lavorare e vivere nello spazio si realizza a ogni lancio di SpaceX e Blue Origin. 5. Intelligenza aumentata. Non “artificiale”, ma del tipo immaginato da Doug Engelbart pensando alla nostra relazione con i computer: l’IA non sostituisce gli umani, offre assistenti idioti-sapienti che ci permettono di tirare fuori il meglio da noi stessi.
Se vogliamo costruire un mondo migliore per i nostri figli, dobbiamo continuare a credere che il futuro possa esserlo. Come ha scritto Noam Chomsky, «se non credi che il futuro possa essere migliore, difficilmente ti metterai in gioco e ti prenderai le responsabilità per renderlo tale». L’ottimismo oggi non è soltanto giustificato, è una strategia di vita. Il cambiamento è un bene. Ottimismo militante.