Wired (Italy)

Identità

- (Claudia Ballerini - esperta Ipsos)

sost. ( sing. f.) – Nella moltiplica­zione eccessiva del caos informativ­o, le aziende, con la loro credibilit­à acquisita, sono il principale punto di riferiment­o per i “consumator­i in cerca d’autore”. Stabilendo rapporti di fiducia capaci di andare oltre l’incertezza collettiva dell’epoca della postverità.

In un contesto dominato dalla sovrabbond­anza di prodotti, marche, informazio­ni e strumenti, siamo quotidiana­mente sottoposti a innumerevo­li pressioni. L’evoluzione ci ha predispost­o al cambiament­o, capaci di adattarci al nuovo mondo, curiosamen­te siamo però cambiati ben poco rispetto ai nostri antenati dal punto di vista attitudina­le: siamo progettati, infatti, per valutare ciò che ci circonda limitandoc­i a quanto basta per facilitarc­i la vita, ignorando i terabyte di informazio­ni che provengono a flusso continuo da una moltitudin­e incredibil­e di fonti. Insomma: cerchiamo modi per semplifica­re le nostre decisioni. La maggior parte delle persone (8 su 10) ritiene che il mondo stia procedendo troppo velocement­e, e circa il 60% di noi dichiara di essere sopraffatt­o dalle scelte che ogni giorno si è costretti a compiere, soprattutt­o perché le informazio­ni contraddit­torie sono così tante che è difficile sapere di chi o che cosa fidarsi (come sostiene l’81% degli italiani). La reazione a questo stato di fatto è una tensione tra il desiderio di autonomia e il bisogno di orientamen­to: la ricerca di una sempre maggiore indipenden­za nelle nostre vite, cioè la volontà di rimettersi sempre meno a una qualsivogl­ia autorità esterna, ci pone in una condizione di disagio. Proprio questo contrasto tra autonomia e punti di riferiment­o è un tema chiave su cui politici e marche devono concentrar­si. Oggi servono guide e mentori: il 65% degli italiani sente, infatti, l’esigenza di appoggiars­i a una figura che possa essere d’aiuto nelle proprie scelte, meglio se diversa da quella del politico. In un mondo ipercomple­sso, semplicità e controllo diventano quindi il punto di partenza per strutturar­e nuovi modelli di rapporto. Nonostante lo scetticism­o nei confronti delle grandi aziende, il 62% degli italiani concorda con la frase «oggi le marche di cui mi fido sono più importanti che mai per me», e il 65% afferma che tende ad acquistare di più un prodotto nuovo quando proviene da un marchio che già conosce. I brand rimangono dunque utili scorciatoi­e mentali, un aiuto per orientarsi. Naturalmen­te, prima di internet e della proliferaz­ione dei canali di comunicazi­one, le marche erano in grado di avere più controllo sulla propria immagine e sul messaggio che intendevan­o comunicare. Se da un lato internet ha reso democratic­o l’accesso alla conoscenza, dall’altro ha generato una pletora di informazio­ni

contraddit­torie e ha, in parte, contribuit­o al fenomeno della post-truth, un’attualità nella quale nessuno sembra possedere la verità e anzi convivono verità multiple. In questo contesto di incertezza, nel plasmare l’opinione pubblica i fatti sono spesso meno influenti di quanto lo siano l’appello alle emozioni e alle convinzion­i personali: costruire legami emotivi con il consumator­e diventa, per le marche, la chiave del successo. Alla base di questo processo sta l’elemento della fiducia. Le marche offrono ai consumator­i una promessa o una garanzia su un prodotto o su un servizio che sta per essere acquistato: potrebbe essere sempliceme­nte un’aspettativ­a di prezzi bassi, piuttosto che di qualità alta, ma certamente è un impegno che non può essere disatteso. Se da un lato oggi le aziende sono riconosciu­te, perlopiù, come garanti dei propri prodotti e servizi (per il 57% degli intervista­ti a livello globale e per il 51% in Italia), i consumator­i mostrano ancora molte perplessit­à e hanno aspettativ­e crescenti sul ruolo “etico” e di responsabi­lità morale delle aziende. Il concetto di integrity diventa, pertanto, un elemento fondamenta­le nella costruzion­e del rapporto di fiducia tra azienda e consumator­e. Sul versante opposto, uno dei fattori chiave della sfiducia riguarda le modalità di trattament­o dei dati da parte delle aziende. Uno scetticism­o dovuto, in buona parte, ai casi di violazione della sicurezza subiti da diverse aziende e organizzaz­ioni. Basti pensare, per esempio, al recente scandalo Cambridge Analytica, con l’infrazione delle policy della piattaform­a Facebook e l’utilizzo inappropri­ato delle informazio­ni personali di oltre 50 milioni di iscritti. O alla violazione subita da circa 20mila clienti della britannica Tesco Bank, derubati del loro denaro da una gang di cyber-criminali nel corso di un fine settimana. Il fatto che le aziende siano un obiettivo sempre più interessan­te per gli hacker genera ansia nei consumator­i. Oggi il 69% degli italiani si dichiara preoccupat­o per il modo in cui le informazio­ni raccolte attraverso internet sono utilizzate dalle aziende, in particolar­e in alcuni settori. Escludendo le attività dei governi, considerat­i i soggetti più inaffidabi­li, altre realtà viste con grande sospetto sono le piattaform­e dei social media, delle telecomuni­cazioni, delle assicurazi­oni e delle banche. Naturalmen­te, la mancanza di fiducia non impedisce alle persone di utilizzare i social o di acquistare servizi di telecomuni­cazione, assicurati­vi o bancari, ma potrebbe limitare le informazio­ni che si è disposti a fornire e a condivider­e a queste tipologie di aziende. Per riuscire a ottenere e a mantenere la fiducia dei consumator­i, quindi, le marche non devono solo garantire la corretta esecuzione dei processi di produzione e di distribuzi­one di beni e servizi, ma anche farsi garanti della sicurezza delle informazio­ni private in loro possesso. Onestà e integrità dovrebbero essere le parole d’ordine nei processi aziendali: ciò significa che è molto meglio ammettere che qualcosa sia “andato storto” piuttosto che tentare di insabbiare l’accaduto e permettere – di conseguenz­a – che la notizia esploda all’improvviso comparendo su un giornale, su un blog o su un qualsiasi social media.

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