Identità
sost. ( sing. f.) – Nella moltiplicazione eccessiva del caos informativo, le aziende, con la loro credibilità acquisita, sono il principale punto di riferimento per i “consumatori in cerca d’autore”. Stabilendo rapporti di fiducia capaci di andare oltre l’incertezza collettiva dell’epoca della postverità.
In un contesto dominato dalla sovrabbondanza di prodotti, marche, informazioni e strumenti, siamo quotidianamente sottoposti a innumerevoli pressioni. L’evoluzione ci ha predisposto al cambiamento, capaci di adattarci al nuovo mondo, curiosamente siamo però cambiati ben poco rispetto ai nostri antenati dal punto di vista attitudinale: siamo progettati, infatti, per valutare ciò che ci circonda limitandoci a quanto basta per facilitarci la vita, ignorando i terabyte di informazioni che provengono a flusso continuo da una moltitudine incredibile di fonti. Insomma: cerchiamo modi per semplificare le nostre decisioni. La maggior parte delle persone (8 su 10) ritiene che il mondo stia procedendo troppo velocemente, e circa il 60% di noi dichiara di essere sopraffatto dalle scelte che ogni giorno si è costretti a compiere, soprattutto perché le informazioni contraddittorie sono così tante che è difficile sapere di chi o che cosa fidarsi (come sostiene l’81% degli italiani). La reazione a questo stato di fatto è una tensione tra il desiderio di autonomia e il bisogno di orientamento: la ricerca di una sempre maggiore indipendenza nelle nostre vite, cioè la volontà di rimettersi sempre meno a una qualsivoglia autorità esterna, ci pone in una condizione di disagio. Proprio questo contrasto tra autonomia e punti di riferimento è un tema chiave su cui politici e marche devono concentrarsi. Oggi servono guide e mentori: il 65% degli italiani sente, infatti, l’esigenza di appoggiarsi a una figura che possa essere d’aiuto nelle proprie scelte, meglio se diversa da quella del politico. In un mondo ipercomplesso, semplicità e controllo diventano quindi il punto di partenza per strutturare nuovi modelli di rapporto. Nonostante lo scetticismo nei confronti delle grandi aziende, il 62% degli italiani concorda con la frase «oggi le marche di cui mi fido sono più importanti che mai per me», e il 65% afferma che tende ad acquistare di più un prodotto nuovo quando proviene da un marchio che già conosce. I brand rimangono dunque utili scorciatoie mentali, un aiuto per orientarsi. Naturalmente, prima di internet e della proliferazione dei canali di comunicazione, le marche erano in grado di avere più controllo sulla propria immagine e sul messaggio che intendevano comunicare. Se da un lato internet ha reso democratico l’accesso alla conoscenza, dall’altro ha generato una pletora di informazioni
contraddittorie e ha, in parte, contribuito al fenomeno della post-truth, un’attualità nella quale nessuno sembra possedere la verità e anzi convivono verità multiple. In questo contesto di incertezza, nel plasmare l’opinione pubblica i fatti sono spesso meno influenti di quanto lo siano l’appello alle emozioni e alle convinzioni personali: costruire legami emotivi con il consumatore diventa, per le marche, la chiave del successo. Alla base di questo processo sta l’elemento della fiducia. Le marche offrono ai consumatori una promessa o una garanzia su un prodotto o su un servizio che sta per essere acquistato: potrebbe essere semplicemente un’aspettativa di prezzi bassi, piuttosto che di qualità alta, ma certamente è un impegno che non può essere disatteso. Se da un lato oggi le aziende sono riconosciute, perlopiù, come garanti dei propri prodotti e servizi (per il 57% degli intervistati a livello globale e per il 51% in Italia), i consumatori mostrano ancora molte perplessità e hanno aspettative crescenti sul ruolo “etico” e di responsabilità morale delle aziende. Il concetto di integrity diventa, pertanto, un elemento fondamentale nella costruzione del rapporto di fiducia tra azienda e consumatore. Sul versante opposto, uno dei fattori chiave della sfiducia riguarda le modalità di trattamento dei dati da parte delle aziende. Uno scetticismo dovuto, in buona parte, ai casi di violazione della sicurezza subiti da diverse aziende e organizzazioni. Basti pensare, per esempio, al recente scandalo Cambridge Analytica, con l’infrazione delle policy della piattaforma Facebook e l’utilizzo inappropriato delle informazioni personali di oltre 50 milioni di iscritti. O alla violazione subita da circa 20mila clienti della britannica Tesco Bank, derubati del loro denaro da una gang di cyber-criminali nel corso di un fine settimana. Il fatto che le aziende siano un obiettivo sempre più interessante per gli hacker genera ansia nei consumatori. Oggi il 69% degli italiani si dichiara preoccupato per il modo in cui le informazioni raccolte attraverso internet sono utilizzate dalle aziende, in particolare in alcuni settori. Escludendo le attività dei governi, considerati i soggetti più inaffidabili, altre realtà viste con grande sospetto sono le piattaforme dei social media, delle telecomunicazioni, delle assicurazioni e delle banche. Naturalmente, la mancanza di fiducia non impedisce alle persone di utilizzare i social o di acquistare servizi di telecomunicazione, assicurativi o bancari, ma potrebbe limitare le informazioni che si è disposti a fornire e a condividere a queste tipologie di aziende. Per riuscire a ottenere e a mantenere la fiducia dei consumatori, quindi, le marche non devono solo garantire la corretta esecuzione dei processi di produzione e di distribuzione di beni e servizi, ma anche farsi garanti della sicurezza delle informazioni private in loro possesso. Onestà e integrità dovrebbero essere le parole d’ordine nei processi aziendali: ciò significa che è molto meglio ammettere che qualcosa sia “andato storto” piuttosto che tentare di insabbiare l’accaduto e permettere – di conseguenza – che la notizia esploda all’improvviso comparendo su un giornale, su un blog o su un qualsiasi social media.