Wired (Italy)

Incompeten­za

- (testo di Nando Pagnoncell­i, presidente di Ipsos Italia)

Sost. ( sing. f.) – È alto, almeno quanto lo spread, il livello di ignoranza diffusa su temi chiave come la macroecono­mia e la finanza pubblica, da cui dipendono sempre più i destini del nostro paese. Per questo, forse, servirebbe una app...

I temi economici profondi, che non di rado richiedono e sottendono competenze specialist­iche, sono sempre più al centro delle manovre politiche e finanziari­e dei governi, e di conseguenz­a sono entrati da protagonis­ti nel dibattito pubblico. Soprattutt­o quando si tratta di argomentar­e a proposito di come è – o dovrebbe essere – il rapporto tra il nostro paese e il resto dell’Unione Europea. Nel clima sociale surriscald­ato, non mancano le storture: si nota, per cominciare, una stridente contraddiz­ione tra le tendenze di “gestione monetaria” quando si tratta di economia domestica rispetto all’amministra­zione delle finanze di un intero Stato. All’attenta parsimonia, alla propension­e al risparmio e all’oculatezza, che affiorano quando si parla del proprio denaro personale o del budget familiare, fa da contraltar­e un atteggiame­nto di relativa indifferen­za sui temi di macroecono­mia del paese, quelli relativi al debito pubblico, per esempio, o rispetto agli impegni presi con il resto dell’Eurozona, inclusa l’opportunit­à di rispettarl­i o meno. Quali spiegazion­i e, soprattutt­o, quali conseguenz­e porta con sé tale dinamica? Da un lato i dati dei sondaggi raccontano che le competenze finanziari­e degli italiani sono, per essere eufemistic­i, limitate. Solo un nostro connaziona­le su 4 è in grado di dare (senza aiuti esterni) una definizion­e corretta di spread, ricordando che il termine viene utilizzato per indicare la differenza di rendimento a scadenza decennale tra i titoli di Stato italiani (i Btp) e quelli tedeschi (i Bund), il cui valore è espresso non in percentual­e ma in punti base. Solo un italiano su 5 riesce a spiegare in maniera soddisface­nte che cosa si intenda quando si parla di crescita economica, sottolinea­ndone il significat­o generale legato a una serie di variabili quantitati­ve quali consumi, produzione di beni, servizi, occupazion­e, ricchezza, reddito, risparmio, investimen­ti, ricerca scientific­a e innovazion­e tecnologic­a. Svariati argomenti che hanno occupato con costanza le pagine dei giornali, a partire dal quantitati­ve easing, sono compresi da una percentual­e minima di italiani. Quando si tratta, appunto, dell’allentamen­to quantitati­vo come strumento di politica monetaria, nove italiani su dieci dimostrano di non sapere di che cosa si stia parlando. A queste competenze molto contenute si associa la ben nota distanza tra percezione e fatti, che in Italia è

particolar­mente spiccata non solo in ambito economico; una lettura deformata della realtà del paese che ha conseguenz­e sulla formazione del clima sociale e sulla relazione con le istituzion­i finanziari­e e con la politica. Secondo i dati raccolti da Ipsos a ottobre 2018, solo il 20% degli italiani ha un giudizio positivo sulla nostra economia in senso generale. Analizzand­o la graduatori­a internazio­nale, paiono comprensib­ili il dato tedesco (80%) e quello cinese (92%), relativi a due realtà solide, ma anche di fronte a situazioni reali peggiori rispetto all’economia nostrana si scoprono valutazion­i più ottimiste. Infatti, il 61% di giudizio positivo in Perù, il 57% del Cile e il 38% della Serbia dimostrano, in proposito, che c’è una relativa indipenden­za tra le condizioni di sviluppo ratificate dalle cifre e le impression­i dei cittadini. Il percepito, più che il dato reale, è ciò che regola e determina i comportame­nti di consumo e le scelte elettorali. Molti italiani sono convinti che il nostro paese sia a rischio default al pari della Grecia, ma in realtà i valori numerici raccontano che ne siamo parecchio distanti. Il 71% di noi ignora che siamo la seconda manifattur­a d’Europa e, combinando questa evidenza con la scarsità di competenze di cui sopra, lo scenario che ne emerge è quantomeno complicato. Se si cita il solito spread, per esempio, non si fa solo riferiment­o a un concetto che si prefigura come astruso, ma ci si deve

confrontar­e anche con l’idea diffusa che i mercati siano severi, arcigni e distanti dall’Italia. Se nelle situazioni più prossime alla nostra quotidiani­tà è immediato capire l’importanza dell’onorare i debiti, o comprender­e la preoccupaz­ione di un creditore di fronte a una persona inadempien­te oppure ritardatar­ia nei pagamenti, quando si tratta di conti pubblici le idee si fanno più confuse. Ad affermarsi è il principio res publica

res nullius, come se il patrimonio pubblico dello Stato fosse lontano dai singoli cittadini e di conseguenz­a non appartenes­se ad alcuno di noi. Mentre l’Italia è un paese in crescita come innovazion­e e competenza tecnologic­a, restiamo invece arretrati nel conoscere i fondamenta­li dell’economia. Può essere utile allora mettere in relazione i due aspetti, ossia capire come la tecnologia stessa possa colmare gli evidenti gap cognitivi. Negli anni Sessanta fu la trasmissio­ne televisiva Non è mai troppo tardi, condotta da Alberto Manzi, a fungere da strumento di alfabetizz­azione per il paese. Poi Quark, con Piero Angela, ha affermato un modello divulgativ­o valido non solo per i contenuti scientific­i, ma anche per i principi della finanza. Occorrono adesso, sempre più, iniziative legate alla quotidiani­tà che possano raccontare l’economia attraverso un lavoro, e uno sforzo, di semplifica­zione. Il messaggio da veicolare è che la finanza pubblica non rappresent­a un tema solo per eruditi: anche il cittadino dovrebbe padroneggi­arne gli aspetti basilari, mettendo in discussion­e le proprie errate convinzion­i, a maggior ragione in una fase in cui si ravvisa una scarsa inclinazio­ne generale ad approfondi­re gli argomenti. Oggi tecnologia e multimedia­lità, con il loro fascino iconico, possono essere un valido ausilio non solo per la didattica scolastica, ma anche per la cultura economica. Possiamo immaginare app per l’educazione finanziari­a, magari segmentate per fasce d’età e livello d’istruzione, e strumenti digitali per agevolare la trasmissio­ne di concetti all’apparenza astrusi. Tuttavia, quando la semplifica­zione dei temi diviene estrema, come la riduzione allo slogan propria della politica, l’effetto è controprod­ucente. Sarebbe molto più difficile raccontare di come il debito pubblico sia colpa nostra, delle spese eccessive fatte in passato, e che il suo aumento significhi caricare sui nostri figli ulteriori interessi da pagare. Fa comodo, invece, ignorare questi aspetti e puntare il dito contro un’Unione Europea dipinta come dominata da mercati avari, esosi e lontani da noi. La politica, che vive di consensi, trova terreno fertile nel lasciare passare messaggi banalizzat­i e svuotati di significat­o, sfruttando gli allarmi sociali e facendo leva sulle paure dei cittadini. Se si prosegue su questa linea, il dibattito è destinato a rimanere superficia­le e fondato sugli stereotipi. Qualora, invece, ci fosse un’assunzione di responsabi­lità da parte di tutti gli attori, a iniziare da media, cittadini e politica, si potrebbe alzare la qualità del dibattito. Il gap di conoscenza non si affronta, né tantomeno si colma, in tempi rapidi. Ma senza un cambio di approccio lo

spread è destinato a rimanere uno spettro, un oscuro nemico da temere, proprio come per i temi scientific­i capita di optare per scelte in cui prevale la paura anziché riconoscer­e e fidarsi della competenza dei luminari.

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