Incompetenza
Sost. ( sing. f.) – È alto, almeno quanto lo spread, il livello di ignoranza diffusa su temi chiave come la macroeconomia e la finanza pubblica, da cui dipendono sempre più i destini del nostro paese. Per questo, forse, servirebbe una app...
I temi economici profondi, che non di rado richiedono e sottendono competenze specialistiche, sono sempre più al centro delle manovre politiche e finanziarie dei governi, e di conseguenza sono entrati da protagonisti nel dibattito pubblico. Soprattutto quando si tratta di argomentare a proposito di come è – o dovrebbe essere – il rapporto tra il nostro paese e il resto dell’Unione Europea. Nel clima sociale surriscaldato, non mancano le storture: si nota, per cominciare, una stridente contraddizione tra le tendenze di “gestione monetaria” quando si tratta di economia domestica rispetto all’amministrazione delle finanze di un intero Stato. All’attenta parsimonia, alla propensione al risparmio e all’oculatezza, che affiorano quando si parla del proprio denaro personale o del budget familiare, fa da contraltare un atteggiamento di relativa indifferenza sui temi di macroeconomia del paese, quelli relativi al debito pubblico, per esempio, o rispetto agli impegni presi con il resto dell’Eurozona, inclusa l’opportunità di rispettarli o meno. Quali spiegazioni e, soprattutto, quali conseguenze porta con sé tale dinamica? Da un lato i dati dei sondaggi raccontano che le competenze finanziarie degli italiani sono, per essere eufemistici, limitate. Solo un nostro connazionale su 4 è in grado di dare (senza aiuti esterni) una definizione corretta di spread, ricordando che il termine viene utilizzato per indicare la differenza di rendimento a scadenza decennale tra i titoli di Stato italiani (i Btp) e quelli tedeschi (i Bund), il cui valore è espresso non in percentuale ma in punti base. Solo un italiano su 5 riesce a spiegare in maniera soddisfacente che cosa si intenda quando si parla di crescita economica, sottolineandone il significato generale legato a una serie di variabili quantitative quali consumi, produzione di beni, servizi, occupazione, ricchezza, reddito, risparmio, investimenti, ricerca scientifica e innovazione tecnologica. Svariati argomenti che hanno occupato con costanza le pagine dei giornali, a partire dal quantitative easing, sono compresi da una percentuale minima di italiani. Quando si tratta, appunto, dell’allentamento quantitativo come strumento di politica monetaria, nove italiani su dieci dimostrano di non sapere di che cosa si stia parlando. A queste competenze molto contenute si associa la ben nota distanza tra percezione e fatti, che in Italia è
particolarmente spiccata non solo in ambito economico; una lettura deformata della realtà del paese che ha conseguenze sulla formazione del clima sociale e sulla relazione con le istituzioni finanziarie e con la politica. Secondo i dati raccolti da Ipsos a ottobre 2018, solo il 20% degli italiani ha un giudizio positivo sulla nostra economia in senso generale. Analizzando la graduatoria internazionale, paiono comprensibili il dato tedesco (80%) e quello cinese (92%), relativi a due realtà solide, ma anche di fronte a situazioni reali peggiori rispetto all’economia nostrana si scoprono valutazioni più ottimiste. Infatti, il 61% di giudizio positivo in Perù, il 57% del Cile e il 38% della Serbia dimostrano, in proposito, che c’è una relativa indipendenza tra le condizioni di sviluppo ratificate dalle cifre e le impressioni dei cittadini. Il percepito, più che il dato reale, è ciò che regola e determina i comportamenti di consumo e le scelte elettorali. Molti italiani sono convinti che il nostro paese sia a rischio default al pari della Grecia, ma in realtà i valori numerici raccontano che ne siamo parecchio distanti. Il 71% di noi ignora che siamo la seconda manifattura d’Europa e, combinando questa evidenza con la scarsità di competenze di cui sopra, lo scenario che ne emerge è quantomeno complicato. Se si cita il solito spread, per esempio, non si fa solo riferimento a un concetto che si prefigura come astruso, ma ci si deve
confrontare anche con l’idea diffusa che i mercati siano severi, arcigni e distanti dall’Italia. Se nelle situazioni più prossime alla nostra quotidianità è immediato capire l’importanza dell’onorare i debiti, o comprendere la preoccupazione di un creditore di fronte a una persona inadempiente oppure ritardataria nei pagamenti, quando si tratta di conti pubblici le idee si fanno più confuse. Ad affermarsi è il principio res publica
res nullius, come se il patrimonio pubblico dello Stato fosse lontano dai singoli cittadini e di conseguenza non appartenesse ad alcuno di noi. Mentre l’Italia è un paese in crescita come innovazione e competenza tecnologica, restiamo invece arretrati nel conoscere i fondamentali dell’economia. Può essere utile allora mettere in relazione i due aspetti, ossia capire come la tecnologia stessa possa colmare gli evidenti gap cognitivi. Negli anni Sessanta fu la trasmissione televisiva Non è mai troppo tardi, condotta da Alberto Manzi, a fungere da strumento di alfabetizzazione per il paese. Poi Quark, con Piero Angela, ha affermato un modello divulgativo valido non solo per i contenuti scientifici, ma anche per i principi della finanza. Occorrono adesso, sempre più, iniziative legate alla quotidianità che possano raccontare l’economia attraverso un lavoro, e uno sforzo, di semplificazione. Il messaggio da veicolare è che la finanza pubblica non rappresenta un tema solo per eruditi: anche il cittadino dovrebbe padroneggiarne gli aspetti basilari, mettendo in discussione le proprie errate convinzioni, a maggior ragione in una fase in cui si ravvisa una scarsa inclinazione generale ad approfondire gli argomenti. Oggi tecnologia e multimedialità, con il loro fascino iconico, possono essere un valido ausilio non solo per la didattica scolastica, ma anche per la cultura economica. Possiamo immaginare app per l’educazione finanziaria, magari segmentate per fasce d’età e livello d’istruzione, e strumenti digitali per agevolare la trasmissione di concetti all’apparenza astrusi. Tuttavia, quando la semplificazione dei temi diviene estrema, come la riduzione allo slogan propria della politica, l’effetto è controproducente. Sarebbe molto più difficile raccontare di come il debito pubblico sia colpa nostra, delle spese eccessive fatte in passato, e che il suo aumento significhi caricare sui nostri figli ulteriori interessi da pagare. Fa comodo, invece, ignorare questi aspetti e puntare il dito contro un’Unione Europea dipinta come dominata da mercati avari, esosi e lontani da noi. La politica, che vive di consensi, trova terreno fertile nel lasciare passare messaggi banalizzati e svuotati di significato, sfruttando gli allarmi sociali e facendo leva sulle paure dei cittadini. Se si prosegue su questa linea, il dibattito è destinato a rimanere superficiale e fondato sugli stereotipi. Qualora, invece, ci fosse un’assunzione di responsabilità da parte di tutti gli attori, a iniziare da media, cittadini e politica, si potrebbe alzare la qualità del dibattito. Il gap di conoscenza non si affronta, né tantomeno si colma, in tempi rapidi. Ma senza un cambio di approccio lo
spread è destinato a rimanere uno spettro, un oscuro nemico da temere, proprio come per i temi scientifici capita di optare per scelte in cui prevale la paura anziché riconoscere e fidarsi della competenza dei luminari.