PESTILENZA VIRALE IN CORSO
Diffusione di odio, abbassamento della soglia del pudore, libera circolazione di grettezza. Per il cantautore l’unico modo per salvarci da questa epidemia social è una rapida assunzione di responsabilità
Cantautore, poeta e scrittore, è uno degli artisti che ha ottenuto più riconoscimenti da parte del Club Tenco. Il suo ultimo album è Ballate per uomini e bestie (Warner Music), che guarda alle pestilenze del nostro presente, travolto dalla corruzione del linguaggio, dal neoliberismo e dal saccheggio della natura. principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea si ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste: vale a dire peste sì, ma in certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome» (Alessandro Manzoni).
Le più celebri descrizioni di pestilenze, da Tucidide a Manzoni, ci rimandano tutte al meccanismo della disgregazione sociale, delle relazioni, delle istituzioni, alla caccia all’untore, al terrore messo a profitto dal monatto, alla capitalizzazione della paura. Tutte queste sintomatologie si confanno anche a una pestilenza che sta percorrendo il vivere associato attuale in questo inedito e capillare pneuma che è la rete. Pertanto, parole come shoah party, porno revenge, shit storming, haters, bestia, dissimulano la pestilenza in corso.
La rete ha fornito all’uomo il più potente strumento di conoscenza e di libera circolazione dell’informazione mai conosciuto prima. In sistema di democrazia oggi nessuno può giustificarsi di non essere informato, se non per propria negligenza. Eppure, non si è mai sperimentata tanta possibilità di disinformazione. Tanta diffusione di odio, abbassamento della soglia del pudore, tanta libera circolazione di grettezza. La peste mette in moto diverse pulsioni, può essere il grande banchetto della tabula rasa oppure l’occasione del richiamo alla responsabilità, come è per esempio per La peste di Albert Camus.
I meccanismi che si mettono in moto in rete sono sempre individuali e volontari. Prediligendo la velocità, il mezzo fa spesso abbassare la soglia della riflessione a vantaggio della sollecitazione istintiva. L’individualismo collettivo su cui si fonda tende a sostituire la comunicazione con l’esibizione. Quest’ultima travalica spesso lo stretto confine tra pubblico e privato. Privato significa sottratto al pubblico. Osceno è la parola che in linguaggio teatrale indica ciò che deve essere tenuto fuori dalla scena, dallo sguardo del pubblico.
La tendenza innata nell’uomo all’esibizione ha fatto venire meno la consapevolezza del privato e dell’oscenità. Il meccanismo della deresponsabilizzazione collettiva ci ha privato di alcuni confini. Chaplin faceva dire al suo Monsieur Verdux: «Se si ammazza una persona si è un criminale, se se ne ammazzano milioni si è eroi. Le grandi cifre santificano tutto».
Così, un singolo atto di diffamazione è passibile penalmente, ma l’oscenità condivisa no. Ci si sente in diritto di condividere, diffondere o anche solo di guardare materiali osceni, come il video virale di Tiziana Cantone, finita poi suicida, ma i casi sono migliaia, senza che nessuno si senta responsabile, senza la consapevolezza della viltà dell’azione.
Comodità, presunta sicurezza e esibizione sono le tre ragioni per cui si accetta volontariamente di far violare la propria privacy a ogni livello, dalle telecamere nel condominio alla geolocalizzazione, fino alla cessione inconsapevole dei propri dati, quanto di più privato dovremmo avere: i nostri desideri. Più siamo gruppo o branco, meno siamo individualmente responsabili. Louis-Ferdinand Céline diceva, e in questo era profeta: «Il circo romano, ecco quello che vuole la gente». E aggiungeva: «Questa è un’epoca in cui ogni buco di culo si vede Giove allo specchio». L’arena social, il meccanismo del like, come il pollice verso, offrono a tutti la possibilità di accedere al circo romano, in cui ognuno è Giove imperatore, senza pagare il biglietto.
L’aggressione di gruppo viene assolta innanzitutto da chi vi partecipa, ma anche dalla legge, come dimostrano recenti sentenze. La sparizione del confine tra pubblico e privato, il presunto egualitarismo della rete, la dittatura del consenso sgretolano il senso delle istituzioni e di chi le rappresenta. Così, il leader politico si avvicina al comune cittadino con una virtuale intimità che a mezzo della condivisione del quotidiano sostituisce alla competenza la genuinità.
La parola volgare viene da volgo, e dunque chi è espressione del popolo deve essere volgare, deve parlarne la stessa lingua. Deve assecondarne gli istinti. Nel Medioevo le immagini delle cattedrali servivano a spiegare Dio al volgo analfabeta, ora pare si voglia analfabetizzare il popolo a partire da chi lo guida. La distinzione tra vita pubblica e privata era già per i latini molto rigorosa. La parola ozio non fu sinonimo come oggi di inattività, ma di attività rivolta alla propria dimensione privata. In questa amplificazione di se stessi, in questo parlare a voce alta (del continuo commenta e condividi), con la sensazione di parlare al mon«In
do, che è quello che si è sempre fatto a partire dal diario o dalle lettere non spedite, l’impersonale ha sostituito il personale. La scomparsa di oggetto e soggetto è la tentazione pornografica, il cui esito finale è il farsi massa nel circo romano, appunto.
Quello che più colpisce è che tutto il gioco è basato sul desiderio. Il sistema funziona semplicemente assecondando gli istinti. Non c’è coercizione, chi ha concepito le regole, chi ha inventato il like conosce perfettamente la natura umana. Non a caso il più efficace sistema di procacciamento di consenso in rete, a fine di potere, è stato chiamato dal suo stesso gestore «La bestia». Proprio, credo, perché il linguaggio usato e i contenuti agiscono sulla stimolazione dell’istinto.
L’istinto è la parte bestiale di noi. La legge del capobranco, la legge del più forte, la legge di natura è bestiale. Quando la cultura recede si impone la natura. Per cultura intendo tutto l’insieme di regole, di conoscenze, di meccanismi che gli uomini si danno per vivere insieme. Regole, conoscenze, informazioni che corrono ugualmente in rete ma che vengono quantitativamente sopraffatte quando la pestilenza prende il sopravvento.
Non a caso molti termini che riguardano la rete sono epidemici, a partire dal virus. La pestilenza in corso mette in circolo il virus della semplificazione, lo streptococco dell’indifferenza, l’epidemia della paura del diverso, la tubercolosi del silenzio.
La rete accresce enormemente il nostro potere. Ma a ogni potere deve corrispondere una responsabilità. Noi siamo chiamati a maggiori responsabilità di quante non se ne abbiano mai avute prima, perché inedite sono le possibilità. Abbiamo tutti un potente veicolo da quando disponiamo del prolungamento tecnico che ci mette il mondo in palmo di mano, ma non abbiamo fatto il corso per la patente e non si è elaborata la normativa stradale. Possiamo farci male e fare male.
È una responsabilità quotidiana, perché la tecnologia ci offre una serie continua di scorciatoie, e in un certo senso di privilegi, anche rispetto all’etica del nostro vivere. Pertanto, ora più che mai è attuale la questione antica: valuta se rinunciare a te stesso o a qualcuno dei tuoi privilegi.
In un momento iniziale, ancora pulsionale e in un certo senso barbarico in cui la rete è una frontiera aperta, sta a noi stessi darci regole, a partire da quanto e a che cosa vogliamo stare connessi. Dal grado di consapevolezza che vogliamo dare alle nostre dipendenze. Dal grado di etica che vogliamo stabilire in un ambiente che consente la clandestinità, anche interiore. Quanto vogliamo essere noi a creare l’ambiente e quanto siamo disposti a lasciare che l’ambiente agisca su di noi.