Nuovi modi di collaborare
Il distanziamento sociale ha messo a dura prova la sharing economy, che però ha già iniziato ad adeguarsi al ripensamento dei nostri modelli di produzione e consumo, con piattaforme che organizzano gruppi di acquisto da produttori locali, offrono servizi gratuiti oppure voucher commerciali che raddoppiano il valore al momento del consumo
Il distanziamento sociale rallenterà la diffusione della sharing economy? Le notizie che arrivano dai colossi del settore nella Silicon Valley sembrano confermarlo: Airbnb ha annunciato il licenziamento di 1900 dipendenti su 7500; Uber di 3700 su 26.900; WeWork, società immobiliare commerciale che fornisce spazi di lavoro condivisi, ha scatenato una protesta dei coworker, a cui è stato richiesto il pagamento della postazione nonostante l’impossibilità di utilizzare gli spazi. Ma la sharing economy è solo una parte della più ampia economia di piattaforma ed è composta da tre ambiti: l’accesso a beni sottoutilizzati offerti da privati, il consumo collaborativo e lo scambio “quasi-equivalente” di servizi.
L’accesso a beni sottoutilizzati, dalla stanza di una casa privata al passaggio in auto fino allo scambio di abiti, è l’aspetto che più di altri ha subito una battuta d’arresto nei mesi di lockdown. La sua ripartenza è legata principalmente all’andamento dei flussi turistici, a cui si aggiunge la capacità organizzativa dei privati rispetto alle procedure di igienizzazione, con la necessità di conquistare la fiducia dei clienti. Tra le piattaforme pronte a ricominciare ci sono, per esempio, quelle da sempre attrezzate per la pulizia dei capi di abbigliamento usati: finora concentrate sui vestiti di lusso, con il calo degli eventi e la riduzione del potere d’acquisto, stanno cercando di ampliare il proprio guardaroba abbracciando anche la fascia media. Per il momento, segnalano l’aumento della richiesta di abiti da sposa: per cerimonie intime ne può bastare anche uno usato. Negli altri settori è probabile un rafforzamento del ruolo della piattaforma sia nell’organizzazione diretta di questi servizi di igienizzazione sia nelle procedure di controllo, confermando ancora una volta la sua centralità. Essa svolge infatti anche la funzione di “re-intermediazione”, attraverso soluzioni tecnologiche e modalità organizzative originali. Le ricerche dimostrano che la fiducia nel brand di questi sistemi viene addirittura prima di quella interpersonale. Il che, insieme alle logiche di rete, spiega la tendenza alla creazione di monopoli o oligopoli. Eppure, in futuro potremmo assistere a possibili controtendenze, con l’attivazione di intermediari di fiducia esterni, tra cui l’attore pubblico, soprattutto a livello locale.
Il secondo ambito è rappresentato dal consumo collaborativo: piattaforme che gestiscono i gruppi di acquisto da produttori locali, attività di crowdfunding e organizzazione di eventi tra privati. Questo è il settore più dinamico: nelle settimane in cui la grande distribuzione faticava a stare dietro alle consegne a domicilio, le piattaforme di consumo collaborativo hanno rivisto più velocemente i propri servizi ampliando in misura interessante il tradizionale bacino di clientela. Inoltre, l’emergenza ha favorito l’alfabetizzazione digitale e ha aumentato la sensibilità dei consumatori rispetto alla qualità del cibo, ai rapporti tra produzione intensiva e rischi ambientali. Una consapevolezza che, nei prossimi mesi, si scontrerà con la necessità di rendere meno costosi tali servizi, finora utilizzati da fasce di popolazione ad alto capitale culturale ed economico.
Il finanziamento dal basso ha conosciuto una forte crescita in questi mesi, trainato dal settore delle donazioni agli ospedali, dalla popolarità di iniziative promosse da personal fundraiser influenti come Chiara Ferragni e Fedez, dall’iniziativa spontanea di singole persone e piccole associazioni. Nelle ultime settimane, invece, si stanno avvicinando a questo metodo istituzioni e organizzazioni complesse, ma l’attenzione si sta spostando dall’emergenza sanitaria a quella economica. Il bisogno di credito delle imprese, soprattutto se orientato all’innovazione, potrebbe portare a un ulteriore consolidamento del canale. Consumo collaborativo e campagne di crowdfunding presentano un tratto comune: il rafforzamento della dimensione iperlocale. L’isolamento ci ha fatto riscoprire l’importanza dei luoghi e dei beni collettivi di prossimità, a partire dai servizi essenziali. Questo sta portando al recupero di immaginari nostalgici, legati al ritorno alla natura e alla vita nei borghi. Sono più interessanti le visioni orientate alla valorizzazione di servizi e di relazioni a livello territoriale che non escludano meccanismi di mobilità e di apertura. È quello che sta succedendo con le piattaforme di vicinato ed è la forza dei legami digitali: connettere reti corte e reti lunghe.
Al contrario, sono in evidente difficoltà le iniziative basate sull’organizzazione di eventi in spazi privati. A seguito del divieto di assembramento, queste piattaforme non hanno sospeso l’attività ma l’hanno spostata online. Il distanziamento fisico ha messo in discussione il modello di business. La sfida non riguarda, quindi, solo la loro sostenibilità economica, ma anche la qualità dei servizi: finora queste esperienze digitali sono state utili per mantenere legami già formati, mentre è più difficile crearne di nuovi. La contaminazione è uno degli ingredienti fondamentali dell’innovazione sociale; nei prossimi mesi non potrà essere lasciata all’informalità, bensì dovrà essere rafforzata la progettazione intenzionale di occasioni di ibridazione.
L’ultima categoria è quella dello scambio “quasi-equivalente” di servizi e beni: banche del tempo, baratto, monete complementari... Si tratta di interazioni in cui assume valore il legame tra le parti. Nella prima fase dell’emergenza abbiamo assistito prevalentemente a forme di reciprocità incondizionata e solidarietà generalizzata, spesso come dono anonimo, che ricadono nelle logiche tradizionali di gratuità e volontariato. Però, per l’economia collaborativa sono più interessanti i modelli che stanno emergendo per fronteggiare la crisi economica: da quella “cauta” delle piattaforme che veicolano bond commerciali, voucher che raddoppieranno il valore al momento del consumo, rivolti prevalentemente a una clientela fidelizzata, a quella “coraggiosa” di chi offre servizi gratuiti per farsi conoscere e stabilire contatti con nuovi utenti. Attività incoraggiate anche dalla pubblica amministrazione, che abilita questo processo attraverso siti dedicati a livello nazionale, come Solidarietà digitale, promosso dal ministero per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione, ma anche localmente, come Milano Aiuta, attivato dal Comune del capoluogo lombardo. Non mancano i casi di dono agonistico mosso dall’intenzione di affermare una superiorità nei confronti dei competitor, con cui si ingaggia una sfida di generosità orientata al marketing. Questa dinamica non deve oscurare i casi di innovazione sociale ed economica che stanno sperimentando nuove forme di reciprocità nella produzione e nel consumo, anche orientate alla collaborazione e alla condivisione.
L’economia collaborativa è nata circa dieci anni fa a seguito della crisi iniziata nel 2008. È stata abilitata dalle nuove tecnologie, ma ha risposto alle richieste di consumatori che avevano perso potere d’acquisto e di lavoratori che avevano necessità di integrare il proprio reddito. L’emergenza che abbiamo appena vissuto riproporrà gli stessi bisogni, però in uno scenario diverso. L’economia collaborativa si è sviluppata come iniziativa di pochi startupper che hanno offerto una risposta a bisogni individuali. In principio è stata sostenuta da gruppi e movimenti sociali orientati al ripensamento del sistema, ma queste posizioni sono state incorporate e strumentalizzate dagli uffici marketing delle grandi piattaforme internazionali, esaurendosi velocemente. Il coronavirus ha reso evidente la necessità di un ripensamento radicale dei nostri modelli di produzione e consumo. Se negli ultimi anni abbiamo fatto esercizi, più o meno raffinati, di previsione del futuro, è finalmente giunto il momento di abbandonare la sfera di cristallo e ricondurci a quella dell’azione, guidata dall’immaginazione collettiva. Nello scorso decennio l’innovazione economica e sociale è stata progettata da poche persone, spesso all’interno di luoghi dedicati a questo scopo (incubatori, acceleratori...), situati in aree geografiche ben delimitate. Si definiva innovazione aperta l’inclusione di pochi attori ben selezionati in un processo governato centralmente. Nei prossimi mesi, probabilmente, sfuggirà a ogni dinamica intenzionale e l’esito potrebbe anche non piacerci: sarà veramente aperta. Non dubito che riusciremo a imbrigliarla in luoghi e percorsi codificati, però spero ci voglia un po’. E nel frattempo sarà interessante vedere quale direzione prenderà.