La dura epopea australiana dei ticinesi in fuga dalla fame
/ Torna disponibile, in una nuova sontuosa edizione in due volumi, la certosina ricerca con cui Giorgio Cheda, cinquant'anni fa, ricostruì minuziosamente una delle fasi più dolorose e sofferte dell'intera emigrazione svizzero italiana
Non vi sono dubbi che, almeno per quanto concerne la storiografia locale, il fondamentale lavoro di Giorgio Cheda L'emigrazione ticinese in Australia abbia segnato per molti aspetti una sorta di spartiacque nell'ambito delle ricerche di questo tipo sotto il profilo metodologico, dell'approccio, dell'utilizzo delle fonti e delle prospettive analitiche che vi sono sviluppate. Esaurito da tempo (la prima edizione era del 1976) ora il fondamentale lavoro in due tomi dello studioso valmaggese (classe di ferro 1938) torna in libreria per Dadò in una sontuosa edizione, corredata da una nuova corposa introduzione dello stesso autore e dalla prefazione di Luigi Lorenzetti, che getta uno sguardo attuale su questa «storia dal basso», raccontata attraverso le voci di uomini e donne del passato.
Giorgio Cheda condusse all'epoca una minuziosa ricerca sulle vicende dei ticinesi soprattutto delle vallate locarnesi emigrati in Australia, durante il «blocco della fame» realizzando un'opera unica, arricchita da oltre trecento lettere scritte dai migranti ai loro cari rimasti ad attenderli. La ricchezza di documenti e dati riprodotti e l'approfondita analisi del contesto in cui è nato e si è sviluppato il fenomeno migratorio, fanno di quest'opera un tassello fondamentale della storia patria, la cui importanza è ancora del tutto attuale. «Fam, fümm e frecc», se queste erano di sicuro le principali costanti della vita rurale nelle
vallate ticinesi lungo tutto l'Ottocento e spesso anche oltre, è evidente che le particolari circostanze createsi subito dopo il 1850, con il feroce blocco di ritorsione austriaco e le permissive leggi che dal Ticino consentivano alle agenzie truffaldine di praticare un autentico mercato di uomini verso il nuovo e nuovissimo mondo, contribuirono in maniera particolarmente dolorosa ad un esodo che ha segnato in profondità la storia minuta delle nostre genti. Non va dimenticato che a poca distanza di quanto accaduto in California, nel 1851 l'oro fu individuato anche in Australia scatenando un'analoga «Gold rush» in salsa «aussie». Le compagnie di navigazione con sede centrale in Svizzera interna sfoderarono
una poderosa (ma scorretta) propaganda, mentre i viaggi in alto mare della durata di oltre un centinaio di giorni (spesso centocinquanta per l'Australia) erano spacciati come gite di piacere. Inoltre, talvolta si attraccava a Sidney anziché alla promessa Melbourne. Come scritto da Cheda , durante il decennio 1850-59 furono in 4.437 a emigrare in Nord America o in Australia; secondo quanto riportato dal Ceschi nella sua Storia del Cantone Ticino, l'investimento globale superò i tre milioni di franchi. Le partenze di massa si concentrarono sul biennio 1854-55 e svuotarono (letteralmente) le regioni sopracenerine; il 50% degli espatriati, infatti, risiedeva nel Locarnese o in Vallemaggia. Alla fine del decennio la corsa all'oro si esaurì, siglando la fine della prima grande ondata migratoria dal Ticino. Le 330 lettere inviate dall'Australia, minuziosamente raccolte da Giorgio Cheda in uno straordinario corpus documentario che, come scrisse a suo tempo Virgilio Gilardoni nella presentazione, sono «di straordinario interesse umano oltre che sociologico», narrano la triste avventura di questi diseredati ingannati da un'opera di persuasione sistematica, intrapresa proprio in uno dei momenti di maggior crisi economica del Paese. Famiglie e comuni si indebitarono per riunire le somme di viaggio necessarie a finanziare l'espatrio. Molti di coloro che avevano tentato di far fortuna in Australia riuscirono a malapena a racimolare i soldi per pagarsi il viaggio di ritorno o dirigersi verso la California. Di tutti i capitoli dell'emigrazione ticinese, quello australiano è stato dunque il più negativo, doloroso e tragico. E per le comunità che ne furono coinvolte, come scrive nella prefazione a questa nuova edizione il professor Luigi Lorenzetti, «l'avventura in terra australiana segnò la svolta definitiva, da un mondo la cui perifericità era ancora integrata in reti di relazione sovraregionali e addirittura internazionali animate da attività commerciali e imprenditoriali nate nel contesto locale, a un mondo relegato alla marginalità economica, sociale e culturale». Eravamo destinati alla povertà endemica o a diventare la «soffitta d'Europa»: tra i molti meriti del monumentale lavoro di Cheda c'è anche quello di ricordarcelo.