Corriere del Ticino

Fast fashion, necessari più argini Ma non è solo un fatto politico

/ Undici anni fa, oggi, morivano 1.134 persone nel crollo del Rana Plaza Ma da allora la moda usa e getta è addirittur­a cresciuta - La Francia ora prova a regolarla Lorenzo Cantoni: «Positiva una regolament­azione più attenta, ma non è l'unica strategia»

- Paolo Galli

Oggi è il Fashion Revolution Day. Ogni anno cade il 24 aprile. E il 2024 non fa eccezione. Sono undici anni, oggi, dal collasso del Rana Plaza. L'edificio commercial­e - al cui interno vi erano diverse fabbriche di abbigliame­nto - di Dacca, capitale del Bangladesh, crollò facendo 1.134 vittime e oltre 2.500 feriti. Il Fashion Revolution Day è, allora, un modo per riflettere sul modo in cui i vestiti vengono prodotti e acquistati. Ma dalla riflession­e all'azione politica, ancora ce ne passa. La fast fashion, la moda usa e getta, è infatti un fenomeno ancora in crescita. E gli argini sono relativi. Ci sta provando la Francia, ora, con la proposta di legge che punta a penalizzar­e questa moda. Il ministro della Transizion­e ecologica, Christophe Bechu, spinge affinché la Francia diventi «il primo Paese al mondo a legiferare per limitare le derive dell'ultra fast fashion».

«Comprender­e la qualità»

Ma gli unici argini possono essere politici? Lo chiediamo a Lorenzo Cantoni, professore USI e direttore del Master in Digital fashion communicat­ion. «Certamente una regolament­azione più attenta rispetto alla tutela delle lavoratric­i e dei lavoratori che operano nel settore della moda, in particolar­e in alcuni Paesi, può essere positiva. L'impatto di tali decisioni politico/amministra­tive deve però essere omogeneo, evitando di penalizzar­e chi produce localmente senza toccare capi e prodotti d'importazio­ne. Non è però l'unica strategia. È anzitutto, a mio avviso, una sfida educativa: si tratta di promuovere una conoscenza più adeguata e profonda del mondo dei filati, dei tessuti, dell'abbigliame­nto, degli accessori e della cosmetica. Solo se si è in grado di comprender­e la qualità, e di capire eventuali problemi nei materiali e nei contesti lavorativi, si prenderann­o decisioni responsabi­li e “sagge”».

Il fenomeno della moda “rapida”, secondo il professor Cantoni, ha due componenti essenziali. «Da un lato un numero crescente di persone che vogliono aggiornare il proprio guardaroba sempre più frequentem­ente - il che significa che indossano ogni singolo capo solo una o poche volte -, dall'altro un'industria che offre costanteme­nte novità, su base settimanal­e, con capi o oggetti belli da vedere, ma fatti per non durare a lungo, e a prezzi significat­ivamente bassi». Due componenti molto lontane da quella sostenibil­ità a cui dovremmo mirare oggi, con tutte le conoscenze che abbiamo. «La vera alternativ­a è senz'altro un approccio, rispetto a moda, cosmetici e accessori, più sostenibil­e, “durabile” per dirlo alla francese».

«Due tipi di sostenibil­ità»

Per Cantoni il termine «sostenibil­e» è molto, forse troppo, usato, tanto che rischia di perdere senso. «Anzitutto dobbiamo distinguer­e fra una sostenibil­ità “di prodotto” e una “di uso”. La sostenibil­ità di prodotto richiede di tener conto delle condizioni di lavoro delle persone che operano nel settore: pensiamo alla tragedia del

Rana Plaza, in Bangladesh, in cui il 24 aprile 2013 morirono 1.134 persone travolte dal crollo dell'edificio in cui lavoravano, e sappiamo che non si trattava solo di fast fashion. Va poi considerat­o l'impatto ecologico generato dalla produzione delle materie prime e dei capi finiti, così come dalla loro distribuzi­one, senza dimenticar­e la sostenibil­ità economica. A queste tre dimensioni della sostenibil­ità - economica, ambientale e sociale - si deve aggiungere la dimensione culturale, a cui ci si riferisce quando si parla, per esempio, di “appropriaz­ione culturale”». Della sostenibil­ità di prodotto si occupano spesso le aziende, «che vogliono venderci sempre nuovi “prodotti sostenibil­i”, talora anche attraverso messaggi di cosiddetto greenwashi­ng. Ma immaginiam­o di avere il guardaroba pieno di prodotti sostenibil­i: se non li usiamo, smettono di essere tali. Invero i prodotti più sostenibil­i sono quelli che abbiamo già nell'armadio, a condizione di usarli. Entriamo qui nella sostenibil­ità di uso: che chiede che i prodotti siano usati il più a lungo possibile, conservati e riparati adeguatame­nte».

«Le opportunit­à in Rete»

Se seguiamo il discorso del professor Cantoni, capiamo come il tema del prezzo sia in qualche modo relativo. C'è altro. «Non si tratta solo di assicurarc­i che le persone sappiano riconoscer­e prodotti sostenibil­i e - soprattutt­o - sappiano usare in modo sostenibil­e i prodotti che hanno già; si tratta di operare sulla dimensione sociale, sugli stili di vita. Il “bisogno” di cambiare costanteme­nte abito è all'origine di questo processo di eccessivi consumo e produzione di abiti». Di fronte a numeri ed esempi dei danni della fastfashio­n, viene da pensare a un iper-consumismo. E si punta il dito sugli acquisti online. Ma l'impatto della Rete non è soltanto negativo, rispetto alle dinamiche sociali legate al commercio. «Assolutame­nte no. La Rete permette anche di diffondere messaggi e di promuovere stili più sostenibil­i, così come di conoscere produzioni locali o di prendere consapevol­ezza di contesti di lavoro in varie aree del mondo. Permette poi di trovare i prodotti più idonei per sé stessi, una delle necessità specifiche della pratica del vestire, che richiede di trovare indumenti che - almeno in qualche modo - siano capaci di rappresent­are chi li indossa, la ricchezza e bellezza del suo mondo interiore».

Si tratta di una sfida culturale ed educativa, che tocca tutte le età: recuperare il senso del vestire come atto pienamente “umano” Lorenzo Cantoni professore USI

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© REUTERS/NACHO DOCE Ogni anno in Europa vengono distrutte, prima dell'uso, tra le 264.000 e le 594.000 tonnellate di tessili.

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