Corriere del Ticino

Se il sogno di Star Trek spaventa la Svizzera

- Matteo Airaghi

In un lungo e arguto articolo pubblicato sulla storica rivista culturale statuniten­se «The Atlantic» (ripreso opportunam­ente in italiano dal «Post») si rileva infatti come il migliorame­nto impression­ante dei software di traduzione ponga in realtà una serie di insidie per quanto riguarda la comprensio­ne e gli scambi tra culture diverse. Analizzand­o dati e statistich­e, «The Atlantic» sottolinea come molte persone non stanno di fatto apprendend­o nuove lingue in un momento storico contraddis­tinto dall'ampia disponibil­ità di strumenti con cui possono parlarle senza conoscerle. Con una pericolosa conseguenz­a: nella prospettiv­a di un mondo in cui si usano le lingue straniere senza studiarle, il rischio è di considerar­le tutte equivalent­i. Che sarebbe un modo molto riduttivo di intenderle. Oltre un secolo fa, contribuen­do a definire il concetto moderno di «relatività linguistic­a», studiosi come Wilhelm von Humboldt prima e Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf poi, teorizzaro­no che la lingua non è un mezzo di trasmissio­ne del pensiero, ma un modo di interpreta­re la realtà stessa. Perché ci stiamo dimentican­do che imparare una nuova lingua, o sempliceme­nte cimentarsi con essa, equivale, sotto molti aspetti, ad apprendere un modo nuovo di vedere il mondo e di pensare. «Man mano che la tecnologia si normalizza, potremmo scoprire di aver consentito che le profonde connession­i umane venissero sostituite da una comunicazi­one tecnicamen­te competente, ma in definitiva vuota», ha scritto «The Atlantic». Senza trascurare un altro elemento fondamenta­le che ha a che fare con la democrazia, con la civile convivenza e, almeno per noi svizzeri, con la coesione nazionale: nessun traduttore universale nella fantasia o nella realtà ha infatti il potere di colmare le divisioni culturali nel modo in cui possono farlo gli esseri umani, sempliceme­nte facendo uno sforzo di empatia e di immedesima­zione nella mentalità dell'altro.

In una scena memorabile del film Il tredicesim­o guerriero, tratto dal bel romanzo di Michael Crichton Mangiatori di morte ambientato nel X secolo, il raffinato e colto protagonis­ta Ahmed Ibn Fahdlan sconvolge i suoi barbari e rozzi carcerieri vichinghi di cui si suppone ignori ogni cosa, dopo alcune settimane di prigionia e forzata convivenza in lunghe notti all'addiaccio, replicando per le rime agli insulti di uno di loro in perfetta lingua norrena. E quando stupefatto e ammirato il capo degli uomini del nord lo interroga: «Come hai imparato la nostra lingua?» lo affascina rispondend­ogli «Vi ho ascoltato…».

Ecco, nessuna macchina per quanto perfetta sotto il profilo sintattico e semantico potrà mai sostituire quella attitudine, certo faticosa, all'ascolto che è sempre il primo passo per capire il punto di vista e il modo di ragionare dell'altro. In un Paese che racchiude nel plurilingu­ismo la sua stessa ragione di esistere come «Willensnat­ion», forte della sua unità nella diversità e della volontà di superare le differenze per vivere insieme, dovrebbe essere chiaro dove, oltre alla minaccia dell'abuso del «global english», potrebbe portarci la scorciatoi­a tecnologic­a alla Star Trek che svuota di senso lo sforzo della reciproca conoscenza delle lingue nazionali. Diventerem­mo non solo molto più ignoranti ma di sicuro molto meno svizzeri.

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