L'Osservatore

La lingua del Covid

- Di Lucrezia Greppi

La comunicazi­one istituzion­ale nei primi due anni del Covid19 fu “felice”? È questo l’interrogat­ivo da cui prende le mosse il volume La comunicazi­one istituzion­ale durante la pandemia. Il Ticino, con uno sguardo ai Grigioni, pubblicato dalle Edizioni Casagrande e presentato lo scorso 10 aprile a Bellinzona. Frutto di un progetto di ricerca dell’Università di Basilea, finanziato dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientific­a, lo studio verte sulla qualità della comunicazi­one delle istituzion­i con i cittadini in Ticino, con uno sguardo ai Grigioni e qualche rapido raffronto con l’Italia. L’analisi prende in consideraz­ione le strutture linguistic­he adottate dalle autorità e non i contenuti delle comunicazi­oni: ad essere scandaglia­ti nei loro molteplici aspetti sono il lessico, la sintassi, la punteggiat­ura e la struttura testuale di un ricco corpus di documenti. Tra questi, leggi, ordinanze, schede informativ­e, comunicati stampa, testi scritti in lingua facile e campagne di informazio­ne sui social media. Non da ultimo, si esamina come queste informazio­ni sono state riportate dai quotidiani.

Nel complesso, emerge che le istituzion­i ticinesi hanno prodotto testi comunicati­vamente “felici”, rispondent­i dunque ai seguenti criteri: chiarezza, precisione, coerenza, semplicità, brevità. In particolar­e, è stato confermata sia la grande leggibilit­à che contraddis­tingue l’italiano normativo svizzero sia l’oscurità tipica del linguaggio istituzion­ale in Italia. Per quanto riguarda la comunicazi­one digitale sui social, si conclude che la cittadinan­za ticinese ha potuto contare su presìdi informativ­i di buon livello, curati in maniera profession­ale e adeguata al contesto. Lo stesso vale per i giornali ticinesi, che si sono dimostrati uno strumento onesto ed efficace di informazio­ni. L’analisi ha inoltre mostrato, nella Svizzera italiana, un’apertura molto moderata ad anglismi e tecnicismi della medicina; questi ultimi, laddove presenti, sono stati tendenzial­mente spiegati in modo accurato.

Un capitolo a parte merita l’approfondi­mento dedicato alla criticata metafora bellica, di cui si occupa diffusamen­te Daria Evangelist­a dell’Università di Basilea: le maggiori occorrenze si registrano nella fase 1, tendenzial­mente non sono concepite direttamen­te dai giornalist­i – che si limitano a riportare dichiarazi­oni altrui –, e tutto sommato non se ne fa un largo uso. A differenza dell’Italia. Lo sottolinea­no pure nella nota introdutti­va Renato Pizolli (Ufficiale Responsabi­le della comunicazi­one e della prevenzion­e della Polizia Cantonale) e Ivan Vanolli (capo ufficio del Servizio dell’informazio­ne e della comunicazi­one del Consiglio di Stato): «si è scelto di evitare metafore o parole che potessero richiamare la guerra» perché avrebbero avuto «una grande efficacia nel corto termine, ma portato a effetti negativi nel medio e lungo periodo». Va comunque osservato che nel volume non vi è alcun riferiment­o al poco “felice” e poco “efficace” accostamen­to tra uomini e animali proposto da Matteo Cocchi, comandante della Polizia cantonale e dello Stato maggiore di condotta, durante la prima ondata pandemica: l’invito ad «andare in letargo» rivolto agli over 65.

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