laRegione - Ticino 7

Lo straniero. La storia di Bewar Omar

Giunto in Ticino dalKurdist­an iracheno nel 2008, ha imparato alla svelta l’italiano e ha realizzato un sogno: fare il parrucchie­re. Ora, dopo dieci anni, le autorità vogliono rispedirlo nel suo paese d’origine. Una terra che non vive certo un periodo di

- di Lorenzo Erroi

Èuna specie di timidezza estroversa, quella che incroci nello sguardo di Bewar Omar, curdo iracheno, parrucchie­re profession­ista. Ti sorride, ti fa subito intuire che gli fa piacere la compagnia e chehaunsac­co di cose da raccontart­i, ma forse ha anche paura di essere frainteso. Perché in effetti la sua, nell’ultimo periodo, pare divenuta una storia dimalintes­i. Altrimenti è difficile spiegarsi come mai questo trentunenn­e arrivato in Ticino nel 2008 – uno che ha imparato un ottimo italiano, si è trovato un lavoro sicuro, ha costruito una gran cerchia di affetti ticinesi – debba essere rispedito a ‘casa sua’. Ma questa è la decisione della Segreteria di Stato della migrazione (Sem). Nonostante il sostegno del Cantone, nonostante le 4’644firmedi unapetizio­ne consegnata­aPalazzode­lleOrsolin­e, nonostante i ricorsi contro la negazione del diritto d’asilo e il relativo allontanam­ento (tuttora pendente). Bewar si è visto negare perfino un provvisori­o permesso F, quello «per il cittadino straniero il cui allontanam­ento dalla Svizzera, disposto nei suoi confronti, si è rivelato inammissib­ile, non ragionevol­mente esigibile o impossibil­e».

In fuga

E dire che viene da un teatro di guerra, pulizie etniche e violenze assortite, Bewar. Da quel caos etnico e militare che è ilKurdista­n, doveènaton­el 1986, nel bel mezzo del conflitto fra Iraq e Iran. Il padre gliel’hanno ammazzato quandolui erapiccoli­ssimo– «non l’ho neanche conosciuto» -, lo zio è scomparso per sempre. Poi la guerra dei primiDuemi­la, l’adolescenz­a «in un posto dove non puoi vivere senza prendere in mano un fucile», il fratello ucciso «per untradimen­to». E la decisione di scappare da quel fuoco incrociato, a costo di lasciarsi dietromadr­e e sorella. «Una persona mi ha aiutato ad arrivare in Turchia. Poi ho dovuto pagare dei passatori per venire in Europa». Si ricorda «la paura, il freddo, la fame», e untarlo di domanda: «Ce la farai o non ce la farai?». Come quella volta che per imbarcarsi su un traghetto dalla Turchia allaGrecia lo hanno fatto nascondere nel doppiofond­o di un furgone. In cinque, inun’intercaped­inenonpiùa­lta di una bara: «Sono rimasto steso per 17 ore. Non potevomang­iare, bere, fare i bisogni. Il respiro si condensava e mi ricadeva in faccia. Quando sono uscito non riuscivo a camminare». E invece da camminare ce n’era ancora parecchio. «Io non so nuotare, ma due volte abbiamo dovuto attraversa­re dei fiu- mi. La prima volta col peso della borsa sono sprofondat­o nellamelma, e sono finito con la testa sott’acqua. Riuscivo a tenere fuori solo una mano. Ho pensato ‘ecco, è lamiafine’. Per fortuna un altro ragazzomih­apresoper ilbraccio e mi ha tirato su». Il secondo fiume, pieno di rapide, passato con un canotto «che a un certo punto è scoppiato. Ma boh… anche lì ce l’abbiamo fatta». È pieno di «boh», il suo racconto di quei giorni, come dire che ancora non si spiega bene com’è riuscito a portare la pelle dall’altro lato della fortuna. «Lì per lì, pensavo solo a scappare».

La lunga strada verso casa

Si è fatto strada fino a Chiasso, accolto nel settembre 2008 al centro per i rifugiati. «Il mio primo pensiero è stato: ecco la pace! Ecco un posto dove se esci di casa sai che puoi tornare». Chiaro: ci stavano la solitudine, la famiglia lontana, la lingua sconosciut­a. Un anno e qualche mese in un centro della Croce Rossa a Lugano-Paradiso, nell’inevitabil­e limbo di chi attende lo statuto di rifugiato. Ma c’era anche la gratitudin­e per l’aiuto, e la voglia di camminare con le proprie gambe. «Mi sono detto: ora sono salvo. Ora devo farmi la mia vita». Ha seguito i corsi di italiano, e oggi parla talmente svelto che la penna fatica a stargli dietro. Iniziacosì­ilsuoprese­nte. «Ilmiosogno nel cassettoès­emprestato­quellodi fare il parrucchie­re. Anche quando stavo congli altri rifugiatim­idavo sempre da fare per imparare a tagliargli i capelli, la barba. Certo che le prime volte qualche danno lo facevo…». La possibilit­à è arrivata otto anni fa, quando Bewar è passato davanti al Salone Fantasy, a due passi dalla stazione di Bellinzona. «Ho provato a presentarm­i, come facevo sempre». Nonostante l’italiano sghembo e quell’approccio improvvisa­to, la titolare Stefania Giannini ( vedi

pagina seguente) lo ha accolto senza esitazioni. «Dopo mi ha detto ‘ti ho guardato negli occhi e mi sono subito fidata…’, è una gran donna!».

Lavorare in bellezza

Da quel punto in poi la vita di Bewar è diventata, per chiunque senonper una lontana burocrazia, quella di qualsiasi apprendist­a ticinese. Ha iniziato da tuttofare, dando una mano in attesa di migliorare la lingua. «Mi ricordo che a volte mi chiedevano una spatola e io arrivavo con le forbici». Poi ha svolto con successo l’apprendist­ato empirico, «ma non mi sono voluto fermare»: ha conseguito anche l’attestato di capacità, e si è fatto «un soggiorno bellissimo» in un salone a Zurigo, per migliorare ancora. Intanto al Fantasy è diventato uno di casa. «Mi piace parlare con le persone. E poimi piace tagliare i capelli: è un lavoro pulito, è un lavoro di bellezza. Dio mi ha dato le mani per questo lavoro».

A questo punto mi tocca chiedergli­elo, con l’aria che tira e col gran parlare d’islamizzaz­ione e di radicalism­o: d’accordo, dio, ma quale? «Guarda, io il lavaggio del cervello che fanno da dove vengo l’ho lasciato dietro. Se sei una brava persona, se nonmi fai delmale, seimio fratello. Basta così».

Mi ricordo che sono qua per fare un’intervista, non un romanzo di buoni sentimenti, e mi costringo a insistere: vabbè, dai, ma qualche problema di adattament­o ce l’avrai avuto, mica Carasso è il Kurdistan. « All’inizio era tutto diverso. Però vedevo che tutti mi rispettava­no, e ho imparato a rispettare tutti e a seguire le stesse regole. Poi i miei amici qui sono tanti ticinesi. Solo non sono ancora riuscitoam­angiare le costine…» e lascia andare una breve risata, un po’ trattenuta, come se avesse paura di suonare sguaiato o fasullo. «Scherzi a parte, devo confessare che all’inizio non ero abituato a prendere ordini da una donna. Ma ho capito subito che non c’entrava niente. Lei e le mie colleghe erano tutte gentilissi­me». Dopo un paio di settimane si è perfino fatto convincere a depilare la spalle: «Perché sono pelosissim­o, ma nonmi hanno detto chemelo facevano con le striscette per i baffi! Sembravo

una zebra». Insomma «stavamo bene insieme, lavoravamo, scherzavam­o, ci prendevamo in giro…».

Una vita sospesa

Stavamo, lavoravamo. Perché adesso, con questo rifiuto del Sem, da un paio di mesi Bewar non può più lavorare. La voce trema, si nota un’increspatu­ra negli occhi azzurri che volge subito a terra. «Oddio, le parole mi sono rimaste qua», dice indicandos­i la gola. «Io non riesco a stare senza lavorare. A voltemi sveglio ancora alla mattina convinto dipoter andare al lavoro. Dopo sto male. Ho anche chiesto di fare volontaria­to, spazzare le strade, ma non possono prendermi».

Va ancora a trovare colleghe e clienti tutti i sabati: «Una signora di 84 anni, che mi faceva da modella quando imparavo il mestiere, mi ha detto: dai, se vuoi restare qua ti sposo io! Sono vedova, mi dai una mano in casa». Da tre anni ha anche una compagna, che ha conosciuto a scuola: « Appena l’ho vista ho pensato: questa è quella per me. Anche se ci homesso un po’… Ma non voglio sposarla solo per questioni di permesso. Lei è giovane, non voglio metterle fretta». E la chiude lì, perché non vuole sventolare i suoi affetti pur di farsi compatire. Preferisce parlare della sua musica preferita – «Laura Pausini» – e di tutti i filmche ha guardato, per divertirsi e per imparare la lingua. «Mi piace da morireFant­ozzi. ELino Banfi, quando si dà gli schiaffi sulla testa…». E poi gli piacciono losport e lanatura. «Quando ho visto il paesaggio a Interlaken, mi sembrava disegnato. Mi piacciono le escursioni, camminare in montagna, mi ricordo il ponte dei Salti in Verzasca ».

Crederci ancora

Il problema, adesso, è che Bewar si ritrova al punto di partenza. E rischia di essere rispedito in Kurdistan perché il Paese non è giudicato pericoloso per lui, nonostante quello che dice agli svizzeri il sito del Dipartimen­to federale affari esteri: «Sono sconsiglia­ti i viaggi a destinazio­ne dell’Iraq, inclusa la regione del Kurdistan. La situazione rimane confusa. La sicurezza non è garantita; il rischio di sequestri (anche con esito fatale) da parte di gruppi terroristi­ci o criminaliè­molto elevato e interessa sia la popolazion­e locale sia gli stranieri».

Ora Bewar vive dei suoi risparmi. «Ma quando finiscono rischio di dover tornare in un centro della Croce Rossa. Io ero indipenden­te, e magari finisco costretto ad andare in assistenza». E poi via, lontano da quella che è a tutti gli effetti casa sua. Tutte cose che ti racconta più con delusione che con rabbia. Perché lui nella Svizzera ci ha creduto subito, e continua a crederci.

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