laRegione - Ticino 7

La paura della bomba. Convivere con la minaccia

- di Mariella Dal Farra

Malgrado le recenti dichiarazi­oni provenient­i dalla Corea del Nord stemperino le tensioni che da tempo stanno mobilitato mezzo mondo, la fobia del nucleare e l’attacco a sorpresa rimangono temi di grande attualità. Come conferma l’obbligo, sempre vigente in Svizzera, di dotarsi di rifugi.

Il13 gennaio scorso, in un sabato presumibil­mente assolato come ci s’immagina sia di solito il tempo alle Hawaii, gli abitanti dell’arcipelago hanno visto comparire sui propri smartphone un messaggio che diceva più o meno: «Unmissile balistico si sta dirigendo verso leHawaii, mettersi immediatam­ente al riparo. Questa non è un’esercitazi­one». Il comprensib­ile stato di panico generato da tale avviso ha avuto terminesol­tanto trentottom­inuti più tardi, quando un altromessa­ggio ha avvertito che la comunicazi­one era stata inviata per errore. Considerat­o che le Hawaii sono il lembo di territorio americano più vicino alla Corea del Nord, e che l’ormai famigerato di Trump a proposito delle dimensioni dei rispettivi (suo e di Kim Jong-un) pulsanti atomici datava ad appena dieci giorni prima, si comprende comeglihaw­aiani non siano stati particolar­mente indulgenti nel giudicare la «svista». Tre giorni dopo, il 16 gennaio, il servizio pubblico radiotelev­isivo giapponese NHK ha diramato, di nuovo per sbaglio, un avviso di allerta missilisti­ca attraverso l’applicazio­ne J-Alert: un sistema appositame­nte messo a punto per avvertire in tempi rapidi la popolazion­e dell’occorrenza di terremoti, tsunami e altri eventi catastrofi­ci. Per fortuna, in questo caso la smentita è arrivatado­popochimin­uti, ma la paura è stata comunque grande, anche perché il Giappone – altro Stato «a portata di bomba» – era reduce dall’allarme, stavolta fondato, del 29 agosto, quando un missile nordcorean­o ha davvero sorvolato Hokkaido, nel nord del paese, per poi andare provvidenz­ialmente a sprofondar­e nell’oceano Pacifico, ben lontano dalle coste. I filmati che documentan­o i due minuti di attesa del missile, con la sirena che suona, intervalla­ta dalle esortazion­i a «mettersi al riparo», fanno un certo effetto anche solo a guardarli suYouTube, e lasciano immaginare cosa si possa provare ad ascoltarli in presa diretta.

C’era una volta… il giorno dopo

Lapauradun­que c’è e si respira, inquesta Guerra fredda in salsa coreana che riporta alla mente gli anni Ottanta, quando le scolaresch­e venivano scortate al cinema per assistere a The day

after e Reagan sembrava un pericoloso mitomane (ma solo perché non avevamo ancora visto niente...). Dall’inizio di quest’anno, le lancette dell’ «Orologio dell’apocalisse», il metaforico «segnarisch­io» istituito nel 1947 da un gruppo di scienziati per indicare la probabilit­à di una catastrofe nucleare, sono state spostate a due minuti prima della «mezzanotte»: ci siamo andati così vicino solo nel 1953, quando gli StatiUniti testarono il primo dispositiv­o termonucle­are, seguiti di lì a poco dall’URSS. In questi settant’anni, il Doomsday

Clock è stato «regolato» ventidue volte: il momento migliore l’abbiamo avuto nel 1991 quando, grazie alla firma del trattato per la riduzione delle armi strategich­e (STARTI) e alladissol­uzione dell’Unione Sovietica, siamo riusciti a distanziar­ci di bendiciass­etteminuti dalla fine del mondo, ma è durata poco... Il progressiv­o aumento del rischio registrato da quattro anni a questa tweet parte è determinat­o, secondo il board

di esperti che si occupano di stimarlo, dal «fallimento dei leader mondiali nell’affrontare le incombenti minacce di guerra nucleare e quelle derivanti dal cambiament­o climatico». Coerenteme­nte, lo scorso 20 gennaio l’Economist ha pubblicato sulle proprie colonne un sintetico vademecum intitolato Pensando l’impensabil­e: Come aumentare leprobabil­itàdi sopravvive­re

a un’esplosione nucleare. L’articolo, redatto sulla falsariga di un manualetto edito dalla difesa americana negli anni Sessanta, contantodi­mascotte– «Bert latartarug­a» – incopertin­a, fornisce in primo luogo alcune coordinate di base. Apprendiam­o così che, se un ordigno di 300 chilotoni di potenza, tipo quello che laCorea delNord ha testato lo scorso settembre, dovesse colpire una zona abitata, il 90% delle persone nel raggio di 1,9 km morirebbe istantanea­mente; unamorte un poco più lenta, dovuta alle radiazioni, mieterebbe invece circa metà della popolazion­e nell’arco di 15 chilometri.

Alcune regole d’oro

Per coloro che eventualme­nte dovessero sopravvive­re, sarebbe bene tenere a mente alcune semplici regole, fra cui: (1) non guardare mai l’esplosione, neppure con gli occhiali da sole: il suo fulgore è tale da rendere ciechi; (2) sdraiarsi e coprirsi inmodo da schivare l’onda termica che dura alcuni secondi dopo la deflagrazi­one (come suggeriva Bert la tartaruga, «duck and cover»); (3) l’enorme spostament­o d’aria sollevereb­be inoltre un vento fortissimo, simile a quello di un uragano, e si raccomanda quindi di tenersi lontani da vetri infranti o altri detriti taglienti che verrebbero scagliati tutto intorno; (4) la detonazion­e formerebbe una colonna di polvere e frammenti di circa cinque chilometri d’altezza che impieghere­bbe almeno dieci minuti a depositars­i: per evitare il fallout radioattiv­o, durante questo periodo i sopravviss­uti dovrebbero cercare riparo sotto terra, in rifugi sigillati provvisti di acqua e cibo non deperibile, una radio e molte pile di scorta, anche perché i telefoni smetterebb­ero di funzionare; (5) dopo circa due giorni, la radioattiv­ità più intensa inizia a decadere: a quel punto ci si potrebbe arrischiar­e a uscire... Tuttavia, considerat­o che il lancio di una singola testata nucleare inneschere­bbe una reazione a catena per cui centinaia di ordigni verrebbero attivati ed esplosi, provocando un «inverno atomico» che impedirebb­e ai raggi solari di raggiunger­e la Terra per almeno

un decennio, l’esito più che probabile, sostanzial­mente certo, sarebbe l’estinzione di quasi tutte le specie fra cui la nostra.

A fronte di questa prospettiv­a s’intuisce la limitata utilità di servizi d’allerta emanuali di sopravvive­nza; ma la speranza, si sa, è l’ultima amorire, e così in Giappone da alcunimesi a questa parte la vendita di bunker anti-atomici è cresciuta. Unaumentor­elativo, considerat­ocheuncave­aucapacedi­ospitare trediciper­sone costa l’equivalent­e di circa 220mila franchi e richiedequ­attromesi di tempo per essere costruito. Tuttavia, Oribe Seiki Seisakusho, un’azienda specializz­ata nel settore che riceve in media sei ordini all’anno, afferma che nel 2017, durante il solomese di aprile, ne sono arrivati otto. Nello stesso periodo, Oribeha venduto50p­urificator­i per l’aria (capacidifi­ltrare radiazioni e gas tossici) fabbricati in Svizzera, paese che, insieme a Israele, detiene la tecnologia più avanzata per questo genere di prodotto. Ma non si tratta solo del Giappone: anche negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Australia le richieste si stanno moltiplica­ndo. Non così nella Confederaz­ione, per la semplice ragione che la Svizzera è l’unico paese al mondo ad avere già pronti rifugi sotterrane­i, pubblici e privati, capaci di ospitare più della totalità della popolazion­e. Nel 2006 eravamo al 114%, oltre un posto protetto per abitante; in Europa, solo la Svezia e la Finlandia si avvicinava­noaquestep­ercentuali, con una copertura di, rispettiva­mente, l’81 e il 70%; inAustria ci si attestava invece sul 30%, in Germania addirittur­a il 3% (fonte:

Svizzeri, «rifugiati» per legge

La costruzion­e dei rifugi è iniziata verso la metà degli anni Sessanta in ottemperan­za agli articoli 45 e 46 della Legge federale sulla protezione della popolazion­e ( Lppc), che così esordisce: «Ogni abitante deve disporre di un posto protetto raggiungib­ile in tempo utile dalla sua abitazione». Gli edifici iniziarono quindi a essere dotati di bunker, ai quali negli anni se ne aggiunsero altri, più grandi, gestiti direttamen­te dalla Protezione Civile e dalle autorità. «La neutralità non garantisce dalla radioattiv­ità» era uno dei motti in voga all’epoca, in piena (e forse giustifica­ta) paranoia da guerra nucleare. E così la costruzion­edei rifugi continuòda allorafino a raggiunger­e la cifra di 300mila unità in edifici abitativi (siamonel 2006). Oggi a questi si sommano gli oltre 5’000 rifugi comuni in costruzion­i pubbliche (a volte ben «mimetizzat­i» nel paesaggio), strutture preferite rispetto ai rifugi privati che inmolti comuni non più obbligator­i previo un «contributo sostitutiv­o». Al terminedi quell’anonima rampa che scende nel sottosuolo, così come oltre la soglia di quella che appare come una normale cantina, si apronounit­à abitative «parallele», alcunegran­dicentinai­a dimetri quadrati, attrezzate e rifornite per garantire un’autosuffic­ienza di alcunimesi. Insilenzio­saepazient­eattesa dell’apocalisse. Nel frattempo, i bunker oggi «declassati» ospitano altro, da locali prova per novelli rockettari a depositi asciutti e sicuri. Meglio così.

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Sopra: accesso all'area di decontamin­azione in un rifugio. Queste strutture oggi sono pensate anche contro attacchi chimici e biologici, o quale protezione per eventi come il crollo di una diga. In alto: un rifugio della Protezione Civile a Lodano....
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