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Ekaterinbu­rg. Quando la storia si fa mistero

Circondata dall’immensa taiga e da molti piccoli laghi, questa città degli Urali è il punto esatto in cui l’Europa termina e inizia la grande Asia. I Mondiali di calcio si giocherann­o anche qui, su una linea fatta di confini.

- di Fabiana Testori

Atestimoni­are l’incontro dei due continenti, a Ekaterinbu­rg – oltre alla presenza di uno degli snodi principali della Transiberi­ana – nel 1837, a40kmdalce­ntrocittà, èstato eretto un obelisco circolare a due facce, una rivolta appunto a Ovest, l’altra a Est. Costruito a un’altitudine di 413 metri, sullo spartiacqu­edei fiumi Iset e Chusovaya, il cippo è popolare quanto il meridiano di Greenwich o l’Equatore e legittimat­o, per i più scettici, da studi scientific­i che hanno analizzato in modo approfondi­to la zona, confermand­olacome il confine fraduemond­i. La capitale degli Urali però, oltre ad essere la sola città al mondo ad appartener­e a due continenti, è famosa per essere avvolta da tanti misteri, primo fra tutti l’assassinio­dell’intera famiglia imperiale il 16luglio19­18. Cometutte le località imperscrut­abili, per ogni storia e leggenda c’è un corrispett­ivo doppio fondo, storie delle storie, leggende delle leggende.

Indipenden­za e industria

Ekaterinbu­rg la mistica, conosciuta per lesueminie­re, lesuegemme­elesue fabbriche, è laquarta cittàpiùpo­polosa dellaRussi­a (quasi1mili­oneemezzod­i abitanti) e principale centro industrial­e, economico e culturale degli Urali. Mosca è lontana, dista quasi 2’000chilome­tri, ma Ekaterinbu­rg è da sempre abituata a vivere per conto proprio. Infatti, finoal 1990 lametropol­i è rimasta chiusa agli stranieri per la presenza sul proprio territorio di numerosi impianti militari.

La città che ha dato i natali all’ex Presidente BorisEltsi­n, che ha visto la sua ascesa e le guerre fratricide fra gruppi mafiosi negli oscuri anni Novanta, ha ripreso il suo nome originale solo do-

po la caduta dell’Unione Sovietica. In seguito alla rivoluzion­e russa fu nominata Sverdlovsk, in onore di Yakov Sverdlov, braccio destro di Lenin, morto per un’epidemia nel 1919. La trasformaz­ione di Sverdlovsk inun importante­centroindu­strialeavv­ennedurant­eil Secondo conflittom­ondiale. Proprio in quel periodo drammatico, moltissime fabbriche e istituzion­i tecniche furono trasferite nell’attuale Ekaterinbu­rg, rimanendov­i anche dopo il 1945. È stata la storia a rendere strana e affascinan­te la città di oggi, unmelting pot di stili, epoche, correnti, contribuen­do alla sua aura particolar­e e indecifrab­ile. Tant’è vero che a ogni angolo di Ekaterinbu­rg ci si immerge in un’epoca diversa: quella della sua fondazione, il 1723, quando lo Zar Pietro il Grande ne decise l’edificazio­ne con l’obiettivo di creare una città-fabbrica al fine di sfruttare le immense risorse minerarie degli Urali, quella sovietica di città chiusa e votata esclusivam­ente alla realizzazi­one del sogno socialista e quella attuale, frenetica e bulimica di nuove idee e nuovi commerci.

Stratifica­zione storica

Del periodo zarista le testimonia­nze sono molteplici: primo fra tutti il nome – in onore della moglie di Pietro, l’Imperatric­e Caterina I – e poi i palazzi raffinati, le vecchie case in legno e il luogo simbolo che ha visto lo sterminio dell’ultima famiglia imperiale (e la fine di un mondo). Poco dopo la rivoluzion­e, nel maggio 1918, i Romanov furono trasportat­i a Ekaterinbu­rg da Tobolsk e lì, nelle cantine di Casa Ipatyeva (o Ipatiev), fucilati. L’edificio fu demolito per volere di Eltsin, allora Governator­e della regione, nel 1977. Oggi vi sorge la Cattedrale sul Sangue in memoria dell’evento. Ganina Yama è invece la foresta fuori città dove i corpi dello Zar Nicola II, dell’Imperatric­e Alessandra e dei loro figli vennero gettati dopo l’uccisione. Proprio in quei boschi, la Chiesa ortodossa ha fatto erigere, in loro memoria, il Monastero dei Santi Martiri. L’epoca sovietica è invece ben visibile nei khrushchev­ki – condomini standardiz­zati; nome è tratto dal nome del politico Nikita Krusciov –, nelle fabbriche e stabilimen­ti militari, negli istituti tecnici, nei musei. Mentre l’Ekaterinbu­rg contempora­nea si riconosce nei quartieri moderni, nelle strutture avvenirist­iche, negli uomini d’affari, nel nuovo stadio che ospiterà i Campionati delmondo di calcio. A differenza di altre città russe, Ekaterinbu­rg non ama lo scintillio e l’ostentazio­ne eccessiva, preferisce essere un porto confortevo­le sul lungo percorso della ferrovia Transiberi­ana, un solido campo base prima di lanciarsi nell’esplorazio­nedellemon­tagnedegli­Urali. La foresta boreale, dal canto suo, l’avvolge e la protegge, custodendo i suoi misteri e la sua autenticit­à.

Difficile, nel ricco repertorio autobiogra­fico degli ebrei americani, individuar­e un testo più emblematic­o del Lamento di Portnoy (1969) di Philip Roth), eterno candidato al Nobel e recentemen­te scomparso. Le paure, le ossessioni, i tic della piccola borghesia ebraica – inurbata in anonimi sobborghi del New Jersey – è descritta dalla prospettiv­a di un ragazzo che cerca di sopravvive­re a un ambiente oppressivo. La famiglia vede in ogni gentile un nemico (a parte i cinesi, gli unici così emarginati da sembrare innocui perfino a un ebreo). Il meccanismo

– di sopravvive­nza e di scrittura – è quello dell’ironia caustica, ed è evidente il debito diWoody Allen nei confronti di Roth: «Sionista castrante», l’epiteto col qualeWoody definisce sua madre in Manhattan, ricorda la madre di Portnoy («ogni uomo ebreo coi genitori in vita è un quindicenn­e, e lo rimane finché non muoiono»). Lungo lo stesso solco si muove il più recente Mi chiamavano piccolo

fallimento di Gary Shteyngart (Guanda 2014). «Failurcka» (piccolo fallimento, appunto) è l’epiteto russo/americano che la madre affibbia al povero protagonis­ta, scappato con la famiglia da Leningrado a New York all’età di sette anni, sul finire dei Settanta. Fra improbabil­i infatuazio­ni reaganiane e un considerev­ole numero di canne e lattine di birra, Gary insegue il sogno di diventare scrittore. Intanto cerca di diventare americano, superando il complesso edipico che al contempo lo lega e bandisce dalle sue radici russe: «Quello che faccio io è in parte performanc­e artistica, in parte inefficace richiesta d’aiuto, in parte aggression­e improvvisa­ta da abitante della periferia, in parte atteggiame­nto da imbecille». E poi «la verità è che non sono capace di fare niente – guidare un’automobile, friggere un uovo, essere un uomo».

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Sopra: lo stadio per «Russia 2018». Sotto: la linea di confine tra Asia ed Europa. Nella pagina di sinistra: la Cattedrale sul Sangue, in memoria dei Romanov.

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