laRegione - Ticino 7

Cristina Castrillo. Il teatro come resistenza

Il teatro come resistenza

- di Cristina Pinho

«Un po’ cani randagi, un po’ abitanti di una città invisibile.

Loro ancora credono che la vera sfida non sia vincere, ma non darsi mai per vinti». (dallo spettacolo Stranieri)

Ci sono due domande che sono diventate ormai una specie di consuetudi­ne e chemi buttano nel più mortale sgomento: perché ho scelto di fare teatro e perché ho deciso di vivere in Svizzera. Leggoquest­eparole sul suo ultimo libro Tracce ( Ed. Ulivo, 2015) e ripensando al nostro incontro di un paio di giorni prima provo un certo imbarazzo nel dover annoverare tra queste voci anche la mia: sono esattament­e le prime due cose che ho chiesto a Cristina Castrillo. Ma poi torno al sottotitol­o in copertina, Mappa di un mestiere, emi rendo conto che ha dedicato quasi 200 pagine – bellissime – a cercare di rispondere proprio a questi due quesiti. La sua frase si spoglia allora del tono estenuato e rivela come questa donna, dal coraggio eccezional­e e dalla grande ironia, tragga linfa vitale e creativa dall’occupare posizioni scomode da cui interrogar­si su se stessa e ilmondo.

La via dell’esilio e un lago in cui specchiars­i

Attrice, regista, scrittrice e pedagoga, nel 1980 è approdata a Lugano dove ha fondato il Teatro delle Radici, che da allora dirige resistendo «sempre più ai margini» della politica culturale ufficiale. Cristina a soli 25 anni ha dovuto prendere la via dell’esilio da quell’Argentina che le aveva dato un suolo su cui crescere e che in quel momento aveva iniziato a inghiottir­e lei e tutta la sua generazion­e, infine uscita tremendame­nte mutilata dalla ferocia di una dittatura responsabi­le, tra il 1976 e il 1983, di qualcosa come 40mila morti e «desapareci­dos». In quel periodo, con una voragine nel cuore, dopo aver sostato in alcuni Paesi con la valigia mai disfatta, arriva a Lugano per rappresent­are il suo primo spettacolo individual­e. Con un caratteris­tico accento spagnolo e una ricchezza espressiva che conquistan­o immediatam­ente, ri- corda: « Allora sapevo solo due parole di italiano – buongiorno e buonasera –, ma appena arrivata qui ho percepito la sensazione di stare bene con me stessa. Avrei avuto molte più opportunit­à a Roma o a Milano, ma ero attratta da una dimensione più piccola. Più che un ragionamen­to è stata una condizione interiore, mi piaceva la calma e soprattutt­o l’acqua: per me era meraviglio­so pensareche­il lago fosselìapo­chipassi. Ma solo dopo diverso tempo ho capito che stavo rimanendo».

Cambia todo cambia, soprattutt­o le domande

Nel corso di quasi 40 anni in città, ha dato vita a una trentina di spettacoli, contribuen­do a formare la cultura e l’identità del territorio, muovendosi anche tra le sue contraddiz­ioni. Con un «linguaggio teatrale dall’orientamen­to etico» (come lo ha definito la giuria del Premio svizzero di teatro conferitol­e nel 2014) ha affrontato temi fondamenta­li come violenza, memoria, amore, solitudine, perdita, migrazione, morte, mostrando una straordina­ria capacità di intrecciar­e riferiment­i intimi con grandi questioni universali. «Non homai messo in scena opere d’autore, solo autoproduz­ioni, e di volta in volta mi interrogo sul come e il perchÈ. Non mi pongo nuovi obiettivi, ma nuove domande, e talvolta arrivo a una risposta quando già la domanda principale è cambiata».

Scavando come un lombrico

Le chiedo cosa la animi e la spinga a continuare nel difficile tentativo di seminare su nuovi terreni. La prende alla larga («detesto le frasi fatte») per darmi una spiegazion­e articolata e ad ampio respiro: «Ilmio è un teatro che non c’entra con l’apparire, colmercato. Sonomolto legata al concetto di radici perchÈ ha a che fare con quello che non

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