All’opera!
I vestiti del fare Quando la vera cifra dell’abito di chi lavora sta nello spirito sano delle sue origini.
Dalla tuta da metalmeccanico ai pantaloni da scaricatore di porto, dalla livrea da maggiordomo alla tenuta da pilota di Formula 1, dal grembiule incrociato da cameriera vezzosa alla scanzonata salopette da giardiniere...
Se permolte persone indossare uniformi e tenute da lavoro rappresenta un obbligo al quale non possono sottrarsi, sentito comeunappiattimentodel proprio stile, per altre è esattamente tutto il contrario. L'attuale egocentrismo ha decisamente mutato il senso di ciò che indossiamo, tanto da farne svanire il compito primario e diventare invece una forte espressione personale.
La vittoria della praticità
All'origine l'abito da lavoro nasceva come oggetto di protezione e cura, necessario per svolgere al meglio lemansioni preposte, tanto da rappresentare nel tempo l'identità di svariate categorie sociali. Si trasformava quindi in
habitus con la funzione di individuare il ceto e il ruolo di ciascuno. Perciò l'abito «faceva il monaco», come pure il cuoco, il fantino, il bancario, il marinaio, l'operaio, il vigile e così via, ma ai nostri giorni sembra non sia più così. Con tasche a strati, bottoni sfolgoranti da alta uniforme, zip strategiche, furbi dettagli, accorgimenti tecnici e pratici, gli storici abiti da lavoro, riguardanti
svariate professioni, entrano nel guardaroba per donargli un piglio vivace ed autentico. Diventano oggetti del desiderio di un target di giovani o meno, studenti, intellettuali, anticonformisti, edonisti, influencer e creativi un po' snob. Diventano, manco a dirlo, l'abbigliamento preferito dei millennial.
Dalla fabbrica alle passerelle
Fenomeno ampiamente illustrato dal successo di Carhartt, popolare marca americana di abbigliamento. Fondata nel 1889 per produrre le divise delle maestranze ferroviarie, nel Novecento passava a realizzare l'abbigliamento idoneo per gli operai delle fabbriche automobilistiche. Di fatto diventava poi il fornitore di capi per manovali, muratori, infermieri e per tutti coloro che avevanobisognodi indumenti forti e resistenti da usare sul campo. Questo impegno a dar vita a un guardaroba robusto e duraturo ha trovato negli anni Duemila un'insospettata clientela nei millennial metropolitani, sia americani che europei, che vedono il marchio, non senza una punta di nostalgia, come un emblema del duro, energico «lavoro con le mani» (anche se loro, forse, non lo hanno mai sperimentato direttamente). Ma già negli anni Ottanta emergeva come marchio di stile sulla scena hip-hop, dopo che i rappers ne avevano indossato dei pezzi con campeggiata la tipica «C».
Per grandi linee, molto grandi, questi capi ricalcano le orme dei jeans, oggi immancabile divisa dei giovani di ogni età. Il workwear non è quindi solo una moderna tendenza, ma ha radici ben lontane nel tempo. Parla di cose ben fatte e genuine capaci di attrarre perfino gli stilisti della moda d'alto bordo, che ne copiano l'estetica «laboriosa». Magari interpretando a modo loro la componente storica. Come succede ai chinos, calzoni utilizzati un paio di secoli fa dai contadini cinesi e adottati dai militari occidentali di stanza in Oriente. Integrati poi nelle proposte dei marchi casual prima e, in seguito, dalle maison più celebri. Li portano anche le ragazze, magari con le dÈcolletÈ tacco 12. Se volete altri esempi, date un'occhiata al box qui a sinistra.
NOBILITARE L’UOMO / «Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo». (Adriano Olivetti, 1901-1960)
Orsi sanguinari e cani randagi. Oligarchi e cercatori d’oro. Orfani del terrore staliniano. Sciamani, scassinatori, alcolizzati. Sono gli incontri fatti dal giornalista polacco Jacek Hugo-Bader lungo la strada della Kolyma, territorio grande quanto un terzo d’Europa, duemila chilometri meglio noti come «il più lungo cimitero del mondo» ( I diari della Kolyma,
Keller 2018). PerchÈ il «cuore d’oro della Russia» è anche l’anima del sistema di gulag architettato da Stalin, e spesso chi ci abita discende dai deportati. Hugo-Bader nella vita ha fatto di tutto: scaricatore di treni, pesatore di maiali, consulente matrimoniale. Oggi è semplicemente il nuovo Ryszard Kapuscinski, l’unico capace di riportarci nell’inferno descritto da Varlam Salamov senza mai rinunciare a un sorriso, sia esso amaro o semplicemente stupito. Curioso, appassionato, irresistibilmente attratto da chi vive ai margini dell’esistenza: leggevo Hugo-Bader e pensavo a Lou Reed e alla sua famosissima «Walk on the Wild Side» (contenuta nello strepitoso Transformer, 1972). Anche qui c’è un viaggio di mezzo, un viaggio in cui la speranza va impastata con le proprie lacrime e la violenza sta sempre dietro l’angolo. Il grande cimitero è l’America, stavolta, vista con gli occhi di transgender, prostitute, tossicomani.
La New York di AndyWarhol può essere più raggelante della Siberia, a volte, ma anche qui – sarà il sax gentile che ci accompagna, sarà il «doot, di-doot» del refrain che avrebbe accompagnato Lou Reed fino alla tomba? – la speranza è l’ultima a morire.