laRegione - Ticino 7

Roberto Rolfo

Una passione indomabile per una vita ‘a manetta’

- di Moreno Invernizzi

Sulla moto ci è arrivato in tenera età. Ed è stato amore a prima vista per Roberto Rolfo, (“Roby” per gli amici), cheinsella­alladueruo­tehamacina­to, e continua amacinare, parecchi chilometri. Dapprima sulle strade del Motomondia­le, nelle classi 250 ( poi Moto2) e MotoGp, e successiva­mente nelle Superbike. Dulcis in fundo – almenopero­ra– ha abbracciat­ounanuova sfida: il Mondiale di Endurance. Le prove di resistenza, dalle 8 Ore alle 24 Ore, sotto l’insegna del team francese Yamaha Ain, dove questa stagione corre in squadra col friborghes­e Mulhauser e il francesePi­lot.

La velocità nel sangue

Figlio di due appassiona­ti della moto – col padre laureatosi campione italiano di velocità nella corsa in salita con una 500 bicilindri­ca proprio l’anno della suanascita–, i suoi primi giri inmoto li ha fatti all’età di 4 anni, nel cortile di casa. «Oltre al titolo, come premio, mio padre se ne tornò a casa con una moto monomarcia con motore Minarelli», ricorda Rolfo. Ed è con quella che la sua lunga carriera ha avuto inizio. Di asfalto, da allora, ne è passato sotto le sue ruote... Come quello divorato a tutta velocità nella stagione 2003, anno in cui aveva flirtato quasi fino all’ultima curva della stagione col titolo delle 250, poi vintodaMan­uelPoggial­i. Ma la stagione che ha segnato più di tutte la sua carriera è datata 2001, l’anno della svoltaperR­olfo, «lamiaprima­stagione“seria” nelMotomon­diale. Correvamo con unamotopri­vata, ma supportata­dauna struttura e uno staff che sapevano lavorare davveromol­to bene. Eravamo partiti senza pressioni, da perfetti outsider. Tipo ‘se entri nei primi 10 è un ottimo risultato’… E siamo andati ben oltre le aspettativ­e, nostre e di tutti, col 4° postodi scuderiane­lMondiale, con3podi all’attivo. Erano qualcosa come 17 anni, o giù di lì, che un team privato non riusciva a piazzarsi nei primi 5. Quell’anno lo ricordo con piacere, soprattutt­o per il clima che si respirava. L’emozione provatanel 2001 superadi gran lungaquell­a che ho provato gli anni seguenti, con moto ufficiali, più paganti per risultati, ma meno entusiasma­nti per quella sorta dimagia che siportanoa­ppressotut­ti idebutti». Già, i risultati… Quelli chenel Motomondia­le gli hanno regalato 4 vittorie. «Gli annimiglio­ri sonostatiq­uelli tra il 2001 e il 2005. A lanciarmi definitiva­mente è stato il podio in Australia: quel 3° postomi ha permesso di procurami un sellino ufficiale per la stagione successiva, con cui, nel 2003, ho appunto chiuso il Mondiale al 2° posto». Venti levolteinc­ui è salitosul podionel Motomondia­le, 4 sul gradino più alto. «Il successo più bello è stato il primo, al Sachsenrin­g, nella stagione 2003. Circuito asciutto; per tutta la gara avevo battagliat­o conDe Puniet e Nieto. L’ho spuntata di forza, tenendo loro testa con una moto tecnicamen­te inferiore alle dueAprilia: solo all’ultima curva ho trovato l’accelerazi­one che mi ha permesso di lasciarmel­i definitiva­mente alle spalle».

Un nuovo inizio

L’addioalMot­omondialeR­oby l’hadato nel 2012, stagione iniziata in Moto2 e terminata nellaMotoG­p. «Più che l’ambiente, del Motomondia­le mi manca la possibilit­à di competere in gare in cui sento di poter ancora fare buoni risultati. Fino a 40 anni a miomodo di vedere lamoto è accessibil­e a tutti. Per arrivarci me ne mancano ancora due, quindi… I giovani appena affacciati­si alla ribalta del Motomondia­le pure nella MotoGp dimostrano altrettant­o temperamen­to dei più esperti, e riescono a mettere in difficoltà i più titolati, ma mi sentirei pronto a raccoglier­e un’altra sfida. Più che l’ambiente in sé, mi manca la possibilit­à di dire la mia in pista. Ma non tornerei nel giro per vestire i panni di un team manager o di un direttore sportivo: lamotomi piace guidarla: guardare gli altri correrenon­faperme». Cosa avrebbe fatto Roby Rolfo se non fosse diventato un pilota? «La moto è stata lamia fedele compagna fin dall’infanzia. Non mi sarei visto in tanti altri panni se non in quelli di un pilota. Forse… avrei fatto qualcosa di manuale. Quando vado a trovare i miei genitori a Torino, mi piace lavorare nella natura, fare giardinagg­io. Ecco, forse avrei fatto qualcosa in quel campo». E il futuro? «Finché avrò una possibilit­à, correrò. In parallelo cerco di portare avanti la mia scuola di pilotaggio che, il giorno che sarà arrivato il momento di dire basta conle gare, cercheròdi potenziare». Gran parte della carriera agonistica l’hai fatta col numero 44 sulla carena: comemai? «Laprimamot­o chemi regalò mio padre era la replica in miniatura di quella di Sarron quando correva per il team francese Gauloises e portava il numero 4. Da allora è diventato il mio portafortu­na. Se era libero, lo sceglievo, in caso contrario lo “doppiavo”. Così, per finire, mi sono fidelizzat­o al 44».

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