Informazione
Il lettore salverà il giornalismo
È un pilastro della democrazia e della pluralità di pensiero, ma anche in questo ambito due decenni di digitalizzazione stanno lasciando segni profondi. Eppure, fra rivoluzioni e nuove sfide, le idee vincenti non mancano. Con un occhio vigile alla qualità e alle esigenze degli utenti, vecchi e nuovi.
state leggendo questo articolo ci sono buone probabilità che siate dei lettori, abbiate un interesse per il giornalismo e siate disposti a sostenerlo. Tre elementi tutt’altro che scontati e per i quali qualsiasi testata oggi è disposta a pagare oro o, meglio, a reinventarsi. Di crisi e di cassandre sulla loro fine ne abbiamo sentite anche troppe e, sebbene il quadro complessivo resti difficile, siamo entrati in una fase interessante in cui alcune aziende mediatiche globali sembrano avere ingranato la marcia. È un po’ come la storia del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno: se guardiamo all’evoluzione del mercato dei media negli ultimi 20 anni e ci dedichiamo alla conta delle copie e della pubblicità perduta, il bicchiere è mezzo vuoto, se invece ci concentriamo sui successi e gli esempi di innovazione recenti di alcune testate, allora è mezzo pieno. Tutto dipende dagli occhi e dallo spirito coi quali vogliamo osservare quello che accade.
È stato molto chiaro in proposito un articolo del Washington Post di qualche tempo fa: «Uno scenario un tempo inimmaginabile: niente più giornali». Negli Stati Uniti la diffusione dei quotidiani cartacei è passata dai 60 milioni di copie nel 1994 ai 35 milioni di oggi, tra carta stampata e digitale. Stessa cosa per le entrate pubblicitarie crollate da 65 miliardi di dollari nel 2000 a meno di 19 miliardi nel 2014. Si aggiunge la questione della concentrazione mediatica. In Canada, dove la situazione è drammatica e il mercato dei media è in mano a due principali aziende, la Postmedia Network Canada Corporation e il Toronto Star, il primo ministro Justin Trudeau ha promesso di stanziare 50 milioni di dollari per sostenere e salvare il giornalismo locale. Dal 2010 a oggi 27 testate hanno chiuso e
il 30% dei giornalisti ha perso il lavoro. Un’emorragia senza fine, che come è noto ha colpito anche altrove. Ne sanno qualcosa gli ex giornalisti della Südostschweiz, dell’ATS, delle testate del gruppo Tamedia, di Le Matin o del Giornale del Popolo. E anche alle nostre latitudini c’è chi si è espresso a favore di un sostegno pubblico ai media ( per esempio, Filippo Lombardi). Pietro Supino, CEO di Tamedia e presidente di Stampa svizzera, ha chiesto di portare da 30 a 120 milioni di franchi il contributo statale di sostegno alla stampa.
Che succede se i fatti non contano più?
La situazione è tale che ci si chiede quale volto potrà avere la democrazia in un’era senza quotidiani. In Inghilterra, dove si contano 200 testate locali in meno rispetto al 2005, il primo ministro Theresa May avverte che la chiusura dei giornali è «un pericolo per la democrazia». Calza a pennello il discorso di Armin Wolf, uno dei migliori giornalisti politici in circolazione, tenuto in occasione della cerimonia dei premi di giornalismo della Fondazione Otto Brenner. A suo dire quella del giornalismo è una crisi a tre facce: economica, politica ed essenziale. Mi soffermo sull’ultima: essenziale perché tocca l’essenza della professione giornalistica, i fatti. «Il più grande compito dei media consiste nel descrivere la realtà sociale e fornire una base di fatti che possa servire al dibattito pubblico per una costruzione collettiva della realtà ».
Il ruolo dei giornalisti è raccontare i fatti, ma cosa succede se i fatti non contano più? Il Washington Post ha reso note e riscontrato 6’420 affermazioni false o tendenziose pronunciate da Donald Trump dall’inizio del suo mandato fino a fine ottobre 2018 (ovvero 649 giorni di presidenza). Non è una novità: che i politici siano selettivi con la verità è successo anche in passato, ma essere colti in flagrante è sempre stato motivo di imbarazzo e spesso determinava la fine di una carriera o un danno di immagine. Non vale per il presidente americano, dice Armin Wolf, e ricorda come già durante la campagna del 2016 Tim Dickinson, un reporter del Rolling Stone magazine, in un tweet disse «Trump è una sensazione. E se avete questa sensazione i fatti non hanno più importanza». Benvenuti nell’era della post-verità, in cui il presidente dal ciuffone biondo conta 56 milioni di follower su Twitter e il New York Times, tra cartaceo e digitale, 4,3 milioni di abbonati. E se queste non sono buone notizie c’è però un fatto importante che è stato sottolineato da più voci e in particolare da Ken Doctor, esperto di media. Se, da un lato, il trumpismo ha dato ai media molte gatte da pelare, dall’altro si è tradotto in un’enorme opportunità: più di 200mila nuovi ab-